Il caldo tocco dell'amore: Harmony Destiny
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Prendendosi carico di un cliente come Fox Lockwood, deve accettare anche le difficoltà che ne conseguono. Phoebe Schneider usa il suo talento nel massaggiare per guarire, ma Fox ha pensato a lei per intraprendere una cura che va oltre il tocco delicato e sapiente delle mani della donna.
e la situazione è tutt'altro che facile.
L'incomprensione tra Fox e Phoebe è difficile da sbrogliare: loro due vogliono cose diverse. Ma non + detta l'ultima parola, qualcosa ha convinto Phoebe a portare la loro relazione su altri binari. Non vuole più fermarsi, desidera scoprire che cosa lui nasconde.
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Anteprima del libro
Il caldo tocco dell'amore - Jennifer Greene
Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:
Hot To the Touch
Harlequin Next
© 2005 Alison Hart
Traduzione di Elisabetta Elefante
Questa edizione è pubblicata per accordo con
Harlequin Books S.A.
Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o
persone della vita reale è puramente casuale.
Harmony è un marchio registrato di proprietà
HarperCollins Italia S.p.A. All Rights Reserved.
© 2007 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano
eBook ISBN 978-88-3050-437-0
1
Il rispetto era un valore assoluto per Phoebe Schneider. Molte delle persone che incontrava ogni giorno davano per scontato che una massaggiatrice dovesse essere necessariamente una ragazza facile, ma poiché nessuno l’aveva costretta a specializzarsi in massoterapia, ingoiava il rospo senza lamentarsi.
A ventotto anni suonati, Phoebe sapeva come va il mondo. Tuttavia continuava cocciutamente a pretendere da tutti il massimo rispetto.
Oggi era uno di quei giorni in cui era così convinta della fondatezza delle sue teorie che era pronta a difenderle anche a costo di mettersi a strisciare per terra.
Oltre le finestre della sala riunioni del Gold River Memorial Hospital, in lontananza, l’orizzonte era dominato dal profilo frastagliato delle cime innevate delle Smoky Mountains. Era febbraio. Fuori soffiava un vento gelido e tagliente, ma dentro la sala la temperatura era incandescente. Il neurologo pediatrico, il primario di Pediatria e il responsabile di Terapia Intensiva sedevano gomito a gomito di fronte a Phoebe, che oltre a essere la più giovane del gruppo era anche l’unica massaggiatrice.
A solleticare il suo orgoglio, quella mattina, era la consapevolezza che i tre la stavano ascoltando con attenzione. E buon per loro, perché si parlava di neonati, un argomento su cui Phoebe era poco incline a scherzare.
«Il problema» disse con fermezza, «è che voi, per deformazione professionale, andate subito in cerca di una malattia, di una patologia che possiate curare. Ma dopo aver escluso tutte le possibili cause organiche, dovete valutare altre ipotesi.» Cliccò con il mouse del computer, facendo apparire sul muro in fondo alla sala l’immagine di un bambino di tre mesi. «George non è malato: ha solo freddo.»
«Freddo...?» provò a interromperla il dottor Raynolds.
«Parlo da un punto di vista emozionale.» Un secondo clic e l’immagine mutò: apparve il bambino ritratto il giorno in cui era stato portato in ospedale. Un’infermiera lo stava sollevando dalla culla e George sembrava una bambola inanimata, le braccine e le gambe rigide come un pezzo di marmo. «La storia la conosciamo tutti. Quando lo hanno trovato in quello sgabuzzino, il bambino era denutrito e debole. Sua madre si rifiutava di allattarlo al seno ed era incapace di accudirlo. Stiamo parlando di un bambino nato in un mondo così ostile da non avere avuto un legame emotivo con nessuno.»
Mostrò un’altra serie di fotografie, scattate da quando aveva seguito il caso di George. Spiegò fase per fase il lavoro che aveva svolto sul piccino, per poi trarre le sue conclusioni. «A mio giudizio, è ancora troppo presto per affidarlo ai servizi sociali, che lo metterebbero in lista di attesa per farlo entrare nel circuito delle adozioni. Ma la situazione di George è ancora un tantino complicata. Se vogliamo che questo angioletto superi il trauma delle privazioni che ha subito, è necessario tenerlo a contatto con un corpo umano caldo e accogliente ventiquattro ore al giorno, sette giorni su sette, e intendo letteralmente. Dobbiamo convincerlo che può ancora fidarsi di un essere umano, perché nonostante la sua giovane età, George ha imparato a sopravvivere isolandosi dal resto del mondo. Semplicemente non vorrà correre il rischio di fidarsi di nessuno, a meno che non lo mettiamo in condizioni di farlo per forza.»
A metà del suo discorso conclusivo, l’assistente sociale era entrata in sala in punta di piedi. Phoebe notò ora la sua espressione dubbiosa, poi quella scettica del neurologo. Non se ne sorprese.
I medici erano sempre pronti a prescrivere farmaci che risolvessero in tempi brevi le questioni di salute. L’assistente sociale si sarebbe preoccupata solo di cercare una famiglia affidataria al bambino per lavarsene le mani.
Tutti volevano risposte facili. Phoebe invece sembrava proporre sempre quelle più complicate, più impegnative e più costose, risposte che il più delle volte risultavano indigeste al direttivo dell’ospedale, forse perché a darle era una massaggiatrice alle prime armi, alta come un soldo di cacio e per di più donna.
Nessuno a Gold River aveva mai sentito parlare di massoterapia infantile quando Phoebe vi si era trasferita. E non ne sapevano molto nemmeno ad Ashville, quando lei aveva mosso i primi passi nel settore. Forse sarebbe stato più giusto dire che Phoebe si era inventata un lavoro che non esisteva; la verità era che continuava a imbattersi in neonati abbandonati e soli, per i quali il sistema proponeva soluzioni del tutto inadeguate. Non era colpa sua se le sue idee, giudicate folli da alcuni, funzionavano. E non era colpa sua se il più delle volte doveva alzare la voce, usare parole dure e incisive per farsi ascoltare.
Quando l’incontro si concluse, intorno alle quattro del pomeriggio, uscì dalla sala riunioni canticchiando: l’aveva spuntata lei. E si era sbrigata prima del previsto, perciò poteva tornarsene a casa e portare i cani a fare una corsetta nel parco prima dell’ora di cena.
Si cambiò le scarpe, si infilò il parka nero e si avviò all’uscita dell’ospedale, ma non poteva andarsene senza prima essersi passata un filo di burro cacao sulle labbra: tutto quel parlare gliele aveva inaridite. Trovò una mezza dozzina di tubetti nel fondo dell’ampia borsa, ma voleva quello al mirtillo, per il solo motivo che era dello stesso colore della felpa...
«La signorina Schneider?»
Si girò di scatto con il burro cacao in mano. C’erano due uomini sulla doppia porta dell’ingresso in reparto. Praticamente due armadi. Non facevano parte del personale di servizio: al Gold River Memorial lavoravano diversi medici bellocci, ma nessuno di loro aveva spalle da quarterback e muscoli da taglialegna.
«Sì, sono io.»
Quando i due le si fecero incontro, Phoebe dovette lottare contro l’impulso di scansarsi, per evitare la schiacciassero. Il suo metro e sessanta scarso di statura e il suo fisico esile la facevano sentire una nanerottola rispetto a quei due giganti. Due giganti niente male, però, constatò mettendoli meglio a fuoco: capelli castani, profondi occhi scuri, visi interessanti... Chissà, magari erano buoni come il pane. Mentre lei, in ospedale, aveva fama di essere un vero e proprio mastino. Erano in molti a pensarla così.
«Cercavate me?»
Il più alto dei due, quello in doppiopetto grigio, fu il primo a rispondere. «Sì. Cerchiamo una terapista per nostro fratello.»
«Vostro fratello» ripeté Phoebe. Chiuse il burro cacao, che le cadde di mano. Il giovane in jeans e maglione a coste si chinò a raccoglierle il tubetto.
«Esatto. Io sono Ben Lockwood e questo è mio fratello Harry.»
«Lockwood? Quelli del ristorante?» A Gold River c’erano decine di ristoranti, ma nessuno elegante ed esclusivo come il Lockwood. Che era anche il nome di una delle famiglie più facoltose di tutta la contea.
Ben, quello in doppiopetto grigio, riprese la parola. «Sì, sarebbe il ristorante di Harry. Io invece sono il costruttore. E ci sarebbe anche un terzo fratello, Fergus. È per lui che avremmo bisogno del suo aiuto.»
Phoebe si sentì attanagliare lo stomaco in una morsa. Due uomini che cercavano una massaggiatrice da assumere per un terzo uomo. Niente di più probabile che da lei volessero prestazioni diverse dai semplici massaggi.
Non perse tempo a rispondere. Si caricò in spalla la borsa a tracolla e tirò dritto verso l’uscita dell’ospedale. I due la seguirono da presso.
«Spiacente, ma avete fatto un viaggio a vuoto. Se aveste chiamato prima di venire, vi avrei detto che sono impegnata. E che lavoro solo con i neonati.»
Ben aveva già una risposta pronta. «Non abbiamo chiamato perché temevamo che non sarebbe stata ad ascoltarci. E sappiamo già che lavora con i bambini; ma quando ci siamo rivolti all’ospedale chiedendo il nome di una terapista, ci hanno detto che lei è la migliore. Quello di Fox è un caso molto particolare. Perciò speravamo che sarebbe stata disposta a fare un’eccezione.»
Seguire un paziente adulto? Un uomo? Neanche morta. Phoebe aveva ancora il cuore a pezzi dopo un incontro ravvicinato con uno di loro. E dopo di allora, aveva giurato solennemente a se stessa di lavorare solo con i bambini.
Tuttavia non era tenuta a dare spiegazioni, perciò ai due fratelli disse solo che non aveva un minuto libero nei successivi dodici mesi... senza riuscire a scoraggiarli. Ben e Harry continuarono a tallonarla come due cuccioli randagi che sperano di essere raccolti per strada e portati al calduccio da qualche parte. E nel frattempo, le raccoglievano quel che le cadeva per terra, le portavano la scatola con le diapositive, si offrivano di aiutarla con la borsa che le scivolava sulla spalla.
Il sole tramontò velocemente, come sempre accadeva a febbraio in quella zona del Nord Carolina. Il vento gelido smuoveva nel cielo di un azzurro sempre più scuro cupi nuvoloni carichi di neve. Tra poco più di un mese, le magnolie e i rododendri sarebbero fioriti nel vasto recinto dell’ospedale, ma per ora nemmeno le due grandi querce che facevano da sentinella all’ingresso del parcheggio erano gemmate.
I due fratelli la seguirono imperterriti fino al suo vecchio fuoristrada nero parcheggiato in terza fila e quando uno dei due le aprì cavallerescamente la portiera Phoebe capì che si stava innamorando di loro: la guardavano come se fosse una dea da adorare. Phoebe, che aveva sviluppato una specie di sesto senso per i predatori, capì di avere di fronte due bravi ragazzi, una specie purtroppo in via di estinzione. Come poteva resistere alle loro insistenze?
«Ben, Harry, davvero, è un po’ che non seguo pazienti adulti. Ho già il mio bel daffare con i bambini. Inoltre, mi pare di capire che vostro fratello non abbia solo problemi di natura fisica, quindi avrà bisogno dell’aiuto di una persona dotata di competenze specifiche di natura diversa dalle mie.»
«In effetti sì, Fox è stato visitato dai migliori specialisti: medici, psichiatri, terapisti specializzati... Pensi che lo abbiamo portato da un prete e non siamo nemmeno cattolici!» scherzò Ben, ma non rise. «Stiamo perdendo nostro fratello, signorina Schneider, e non sappiamo più a quale santo votarci, perciò abbiamo pensato di provare qualcosa di diverso. Se almeno volesse dargli un’occhiata...»
Nei dieci minuti che seguirono, Phoebe capì che i fratelli Lockwood si erano dati dei soprannomi e li usavano regolarmente per chiamarsi: Ben era Bear, l’orso, Harry era Moose, l’alce, mentre per Fergus, il più giovane dei tre, era stato scelto Fox, la volpe.
Cercò più volte di interrompere Ben, che la stava travolgendo con un fiume di parole. E finalmente ci riuscì.
«Credetemi, vi aiuterei volentieri. Ma proprio non posso.»
«Almeno venga a conoscerlo.»
«Non posso.»
«Ci lasci almeno spiegare che cosa ha passato.»
«Vi