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La via di Contardo: Storia della morte di un uomo
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La via di Contardo: Storia della morte di un uomo
E-book141 pagine2 ore

La via di Contardo: Storia della morte di un uomo

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Info su questo ebook

Questa è la storia di un pellegrino, dei suoi passi e delle sue preghiere. Nello scenario dell'anno 1249, lungo la strada che conduce da Ferrara a Broni, si racconta il cammino di un uomo, armato solo della sua Fede. Contardo è un eroe moderno: con grande umiltà ha lasciato un segno di integrità e di speranza che è riuscito a giungere fino ai nostri giorni.
LinguaItaliano
Data di uscita30 gen 2023
ISBN9791222057439
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    Anteprima del libro

    La via di Contardo - Monica Monici

    PREFAZIONE

    Ho deciso di scrivere la storia della morte di San Contardo quando sono salita per la prima volta sul monte, a Broni, dove, percorsa la Via Crucis che conduce alla piccola cappella, regna una pace straordinaria: non mi sorprende quindi che quel santo abbia desiderato rimanervi per sempre. Ho provato subito simpatia verso la figura mite del pellegrino e anche una certa curiosità, rispetto ad un’esistenza abbastanza misteriosa. Entrambi, l’uomo e il luogo, attendono d’essere riscoperti e narrati, per offrire spiragli su di un passato trascurato. La missione non si è rivelata semplice.

    Quando ho cominciato a camminare al fianco di Contardo ho impiegato diversi giorni a capire un aspetto fondamentale: i pellegrini non erano turisti, erano viaggiatori dell’anima; ogni passo era una preghiera, ogni preghiera un passo. Ho quindi dovuto cercare la mia strada in un medioevo oscuro, in cui le tracce delle vite e delle idee sono giunte in modo molto parziale, non solo per colpa del fiume, che è lo scenario di buona parte del viaggio, ma anche a causa del tempo e dell’incuria dell’uomo.

    Ho lavorato quindi per ricostruire il percorso, per dargli una sostanza storica e reale; ho anche rischiato, però, di trasformare il racconto in una specie di catalogo delle chiese romaniche: dalle terre matildiche, via via fino ai piedi dei colli dell’Oltrepò pavese. Ho dovuto stemperare, ovviamente, e anche, purtroppo, tralasciare alcune descrizioni e alcuni particolari; ad altri, invece, non ho saputo rinunciare: penso che facciano da cornice all’esistenza dell’uomo medievale. Ho cercato inoltre di descrivere di volta in volta lo scenario, tratteggiando dove gli usi e i costumi, dove il panorama, dove le conoscenze, nell’intento di disegnare il momento storico e l’inquadramento culturale .

    Si è reso necessario anche dare ai personaggi una consistenza umana: immaginare cosa passasse nella mente di un uomo del 1250, quali desideri, quali sentimenti; figurarsi le ragioni, i motivi per certe scelte o certi accadimenti. Ho preferito non trascendere in narrazioni truci, dato che il mio intendimento era di raccontare la vicenda in modo abbastanza aderente al vero storico, non ho voluto esagerare con la fantasia e l’ho utilizzata quanto basta. Non so se sono stata all’altezza nel narrare, spero almeno, con questo scritto, di far nascere la curiosità rispetto ad un personaggio della nostra storia e anche rispetto ad un percorso culturale che andrebbe ritrovato e rivalutato.

    Durante il cammino ho in ogni caso fatto mille ricerche e così, anche se questa storia non dovesse risultare interessante, comunque Contardo mi ha ricompensata, col Sapere e con la gioia della Conoscenza.

    Quando il viaggio è terminato e siamo finalmente arrivati a Broni si sono palesate altre problematiche: dover descrivere la morte, il trapasso d’un individuo rimasto solo, in una terra sconosciuta; supporre le reazioni, le vicende.

    Le risposte ai mille quesiti che sono sorti non ci sono, le ho immaginate, suggerite; spero di aver reso a Contardo ciò che merita. Io gli devo molto, sentirò la sua mancanza.

    Gennaio 2023

    AVVERTENZA - Questa è solo una delle storie possibili in merito al viaggio da pellegrino e alla morte di un uomo.

    I

    La città pareva vestita a festa: il profumo della primavera sopraggiungeva dopo un inverno rigido e infinito, la brezza lieve carezzava i rami degli alberi ancora spogli e la luce, che calava gialla sulle pareti delle case, stendeva come un manto d’oro, luminoso e fulgido. Le rondini solcavano il cielo, sfrecciando da un lato a un altro, con quei versi acuti che rimbalzavano tra le vie. Gli scorsuri, ai lati della strada, erano ancora pieni d’acqua, per la molta pioggia che era caduta nei giorni precedenti. La piccola chiesa di San Giacomo si trovava poco fuori dal centro, a mezzogiorno rispetto alla cattedrale di San Giorgio: una gran folla si era radunata sul sagrato, attendendo di entrare, e un’atmosfera di trepidazione e impazienza, di gioia e di baldanza caratterizzava giovani e vecchi, tutti raccolti dinanzi all’uscio. All’apertura del portone, in silenzio e con compostezza, si entrava, nella luce tremula delle torce, nei chiaroscuri impudici disegnati sui muri. L’odore dell’incenso e della cera rendeva l’aria pesante, il silenzio dell’attesa era greve di solenne riverenza. Poi aveva inizio la messa: l’antica cerimonia tradizionale prevedeva la benedizione del Vescovo, che veniva rivolta a tutti i partecipanti, in modo che la loro anima andasse sicura per il mondo, senza temere alcun male, nel sacro Nome del Signore. V’era poi di seguito la benedizione dei vestimenti: il viandante doveva essere abbigliato alla moda del pellegrino, con un mantello, una bisaccia, un bastone. Il mantello doveva avere un cappuccio ed era realizzato con un tessuto ruvido e resistente. La bisaccia era fatta di pelle, o di tela di sacco, si portava appesa in vita, oppure a tracolla, e serviva per trasportare lo stretto necessario, quei pochi effetti personali che qualcuno voleva portare con sé. Il bordone, un lungo bastone, era utile per sostenersi e per scacciare i lupi e i cani, lungo il cammino; a volte il pellegrino poteva legare ad una delle estremità del bordone un fagotto, e usarlo, appoggiato ad una spalla, per aiutarsi a trasportare i pesi. La veste del viandante doveva essere semplice e comoda: anticamente consisteva di una tunica alle ginocchia, poi con il tempo era stata cucita un po’ più lunga; era portata con una corda legata in vita, o con una cintura in cuoio. Tutto questo bagaglio umile veniva benedetto dinanzi all’altare dal Vescovo in persona, davanti agli occhi dell’Altissimo, proprio come si faceva per l’investitura dei cavalieri, perché il pellegrino era un soldato di Cristo. Ogni veste, ogni bisaccia, ogni bastone. In nome di Nostro Signore, Gesù Cristo, ricevi questo bordone, che possa esso accompagnarti nel tuo cammino, affinché tu possa meritare d’esser purificato. E tutti, in coro, rispondevano Amen!. Oh, Signore, Padre Celeste, ti prego, fai che gli angeli del Cielo veglino sui tuoi servi, in modo che questi possano giungere salvi alla meta, e che non debbano soffrire alcun male, lungo la loro strada. Proteggili dai pericoli, nella tua infinita Bontà. Amen! Al termine della cerimonia di benedizione v’era poi quella, altrettanto solenne, della vestizione dei pellegrini e, infine, la veglia di preghiera, fino all’alba del mattino seguente. Allora si partiva.

    Era il mese di marzo, dell’anno 1249.

    II

    La prima tappa del viaggio era la chiesa di Santa Maria Annunciata di Betlemme al Borgo Superiore, all’incontro tra quello che, al tempo, era il Po di Ferrara e il canale Traversagno, dove la via maestra si divideva. Nella bella chiesa rotonda erano custodite le preziose spoglie mortali degli Adilardi e in particolare di Guglielmo, cavaliere professo, che aveva partecipato alla seconda Crociata, ed era perciò solitamente raffigurato a cavallo, vestito con la cotta di maglie di ferro, con la lancia in una mano e lo scudo fregiato col carbonchio, nell’altra. La preghiera sulla tomba del cavaliere aveva un significato simbolico per i pellegrini: essendo quello un loro concittadino, d’illustrissima famiglia, di sangue nobile e di gran importanza, pareva loro che il prode li vedesse, fragili e al cospetto di Dio, e potesse avere per loro un occhio di riguardo, dall’alto dei Cieli, verso quelle povere creature perdute ch’erano, incamminati verso la Salvezza dell’anima. Il pensiero del coraggio e dell’antico valore scaldava i loro cuori, già pieni d’emozione e di fiducia. All’ostello per i pellegrini, costruito di fianco alla chiesa, prestava servizio ai poveri e ai malati frate Silvestro, un anziano monaco che in molti conoscevano da quando, da bambini, leggeva loro il Vangelo. Avevano voluto incontrarlo, per salutarlo e per pregare ancora una volta insieme. Un momento solo, ma una commozione molto grande. Il vecchio, scarno e tremante, pareva non riuscire a trovare le parole per dire loro il grande amore che lo aveva invaso. I pellegrini, ancora in forze, avrebbero voluto portarlo con sé, in spalla, per consentirgli di condividere la gioia del cammino. Tutti pensavano che forse non si sarebbero mai più rivisti, ma la Grazia abitava nei loro cuori: in chi rimaneva restava la felicità di veder crescere la Fede in quei giovani a cui aveva insegnato la Parola di Nostro Signore; in chi partiva, la trepidazione di un nuovo percorso che li avrebbe condotti alla Salvezza. La vita su questa terra è faccenda ben meschina, se si mette a paragone con l’infinita luce del Paradiso, dove si sarebbero riuniti, un giorno, a Dio piacendo. Appena allontanatisi di poco dall’ostello però, i viandanti avevano dovuto fare i conti con un terreno acquitrinoso e zuppo, a causa delle fitte piogge dei giorni precedenti. A far attenzione a non cadere nelle pozze più grandi, la strada si allungava del doppio, ma non c’era premura e si proseguiva, con fiducia. L’odore di umido e di fango accompagnava i passi, resi pesanti dall’acqua melmosa, e il fiato subito si accorciava, sebbene il percorso fosse tutto pianeggiante. I primi spruzzi di verde nuovo, timidamente spennellati qui e là nel grigio della bruma di palude, sembravano dischiudersi davanti ai loro occhi, moltiplicarsi, come se al loro passaggio arrivasse, insieme, la primavera. Certe piccole farfalline bianche svolazzavano allegre tra i canneti e la preghiera riempiva gli spazi di silenzio, sommessa, continua. Volgendo lo sguardo a destra, si poteva ammirare un sottile ramo del fiume, che si rivelava, a tratti, nascosto dai cespugli legnosi e dai rovi grigi di fango, come una vena blu nel terreno. All’improvviso però, il tempo aveva dato cenno di voler mutare in modo repentino: il vento si era fatto pungente, l'aria tersa e la luce surreale. Si era aperto uno squarcio tra il cielo e la terra e un esercito di nuvole bianche e veloci, rapidamente, aveva invaso l’azzurro. Il vento soffiava sempre più insistente e le nubi erano diventate enormi piattaforme di cenere grigia, disposte in righe ordinate nel cielo, intenzionate a lasciarsi precipitare, dense, fino a terra. Il sole cercava di spaccarle, con la forza dei suoi raggi che trafiggevano il grigiore con lampi di luce. Poi la pioggia, fredda e pesante, a gocce grandi come fichi maturi. I viandanti, sorpresi in mezzo alla via dall’improvviso diluvio, correvano a cercare un riparo, ma ormai le vesti erano zuppe e il vento si faceva sempre più pungente. La pioggia, per fortuna, si era presto quietata, diventando mano a mano più leggera, e i poveretti si erano di nuovo incamminati che, a stare lì fermi, il freddo diventava subito fastidioso. Si erano formate ancora altre nuove grandi pozzanghere sulla strada che riflettevano le nuvole del cielo e coloravano il sentiero delle tinte più curiose. Quando un sasso cadeva nell’acqua, si formavano dei cerchi e la superficie prendeva tutta un movimento, increspandosi. Le gocce continuavano

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