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La canzone di Lola
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E-book243 pagine3 ore

La canzone di Lola

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Info su questo ebook

Tutto inizia da tre spietati e stranissimi omicidi, portati a termine in terra pontina, tra Aprilia e Terracina, ma rimasti impuniti. Lo scrittore Gino Spirito, esperto di delitti e di altre questioni malavitose, se ne occupa per conto di un noto programma televisivo. Nel tentativo di ricostruire il mistero che li circonda, tra un’avventura sentimentale e l’altra, il criminologo e consulente redattore si imbatte però in brutta storia, che finisce per incrociarsi pericolosamente con il suo amato lavoro e con la sua tranquilla vita di romanziere minore.

Giuseppe Lucio Fragnoli è nato a Castelforte (LT) il 12 dicembre 1956. Laureato in Architettura, è docente e scrittore. Insegna Disegno e Storia dell’arte al Liceo Scientifico Statale L.B. Alberti di Minturno (LT).
Ha pubblicato i romanzi: La festa dei cani (1999), Quell’ impicciatissima vicenda di donne diavoli e altre stranezze (2000), Miracolo al bar (2001), Ottocento (2002), Tutta colpa di Capuozzo (2002), Nero napoletano (2003), La canzone di Lola (2005), Una balorda faccenda di camorra – rifacimento di Nero napoletano – (2008), Edwige salvami (2010), La festa dei cani – rifacimento – (2013), Il tempo magico – rifacimento di Miracolo al bar – (2017), La Dea Terra (2017), Noir napoletano – secondo rifacimento di Nero napoletano (2018), La Gialla Rosa del Pa-puk – rifacimento di Quell’impicciatissima vicenda di donne diavoli e altre stranezze – (2019), Ottocento – rifacimento – (2020), La festa dei cani – riedizione – (2021), la raccolta di racconti Storie crudeli (2012) e il saggio critico Caravaggio e le Storie di San Matteo (2018).
Ha pubblicato, inoltre, propri racconti nelle antologie Giallo Latino V Edizione, I Racconti di Sabaudia 2006, Racconto Latina 2006. Ha ottenuto vari riconoscimenti in importanti concorsi letterari.

Per richiere la copia cartacea:
info@graficheemmegi.com
https://graficheemmegi.net/
LinguaItaliano
Data di uscita31 ott 2021
ISBN9791220862417
La canzone di Lola

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    Anteprima del libro

    La canzone di Lola - G. Lucio Fragnoli

    Preludio tragico

    Primo cadavere

    Lungomare di Terracina, 14 novembre 1999. Ore 14 e 30 circa. La burrasca dei giorni precedenti si era ormai placata, ma permaneva comunque una certa nuvolosità, che in mattinata aveva dato luogo a un passeggero quanto impetuoso piovasco.

    Dal mare, ancora agitato, le nubi fuggivano verso i monti, trasportate dalle instabili correnti d’aria, ove s’ad-densavano in una coltre livida e incombente. Eppure, da una ridotta estensione di sereno, il sole irradiava sulla co-sta una bastevole folata di luce e di tepore, che aveva ri-chiamato una moltitudine di persone a passeggiare mol-lemente sulla banchina o a trastullarsi sotto quei timidi raggi, rimirando le onde spumeggianti e le evoluzioni esuberanti dei gabbiani. D’altronde era anche domenica, un’indulgente domenica d’autunno, estraniata dai con-vulsi frastuoni estivi, permeata di luccichii azzurrastri e accattivanti, tra gli scuri delle ombre lunghe e il gialliccio delle foglie morte.

    Un insolito tizio, piuttosto grosso di corporatura, in-fagottato dentro un lercio impermeabile e con un basco nero pressato sulla testa, uscì da un bar, dove aveva con-sumato un frugale pasto, seduto intorno a un basso ta-volino, in totale e penosa solitudine. Aveva bevuto pa-recchio, un’intera bottiglia di bianco, ma non manife-stava sintomi di stordimento. Anzi, procedeva spedita-mente, badando d’evitare le pozze d’acqua lasciate dal fugace fortunale mattutino. Si trattava di un uomo che a suo tempo si era macchiato di gravissimi delitti, tra cui l’ammazzamento di sette facinorosi di una ghenga a lui nemica, tutti in una sola circostanza, nel corso di una tre-menda sparatoria, avvenuta ventisette anni prima, a Cai-vano, in pieno centro cittadino.

    Attraversò la strada con un’andatura decisa, ma pru-dente, dato che sbirciò più volte a destra e manca, sbri-gativamente, con lo sguardo ampio e ficcante di un ra-pace. Giunto dall’altra parte della via, s’incamminò lesta-mente lungo il marciapiede lambente la spiaggia, in dire-zione del porticciolo, di tanto in tanto gettando una spic-ciativa occhiata sulle cime delle palme bordanti lo stra-done, alte e vigorose, che oscillavano al vento, blanda-mente.

    D’improvviso, con le movenze circospette di un fug-giasco, si volse a guardare indietro per qualche secondo, come per l’effetto di un fumoso presentimento, quindi si fermò, in prossimità di un attraversamento pedonale, e si apprestò a ritornare sul lato opposto della strada.

    Sembrò pensoso, a un certo punto, quel tizio così sciattamente imbacuccato e dall’aspetto burbero, con le occhiaie nere e col naso fracassato. Guardò l’orologio, con l’aria di chi ha un importante appuntamento, tra-dendo all’istante una smorfia di fastidio, propria di chi è in largo anticipo rispetto all’orario stabilito. Un passante, distrattosi a squadrare una signora che gli ancheggiava davanti, lo urtò inavvertitamente e quasi ne ebbe paura intanto che tentava di scusarsi. L’uomo col basco nem-meno se ne curò, restò impassibile, come se la testa l’avesse dimenticata altrove. Sembrò che stesse riflet-tendo su qualche particolare vicissitudine riguardante il suo passato, scoprendovi, soltanto ora, probabilmente, una verità di cui aveva un irragionevole terrore, giacché la sua espressione pensierosa si modificò in una ma-schera carica d’angoscia.

    Mentre rimuginava su quella ineluttabile scoperta, un tale, vestito tutto di nero, dalla capoccia pelata e dalla faccia lunga e lucida come cera, lo sorprese alle spalle e gli batté una mano sulla schiena. L’uomo col basco si voltò con un sussulto, dovuto al fatto che, forse, quella faccia non gli era per niente nuova. Il pelatone, che nella mano destra stringeva una grossa pistola a tamburo, per-fidamente ringhiò: «Pietro Pica, sporco traditore, sono qui per farti la festa!»

    «Tu?! Che vai trovando? Cosa vuoi da me?» grugnì Pica sbigottito.

    «Scarrafo’, sei finito!» minacciò spavaldamente il ceffo dal volto lucido e smunto, simile a quello di un morto appena portato all’obitorio. «Uomo di niente, spia in-fame, sono venuto per pagarti colla moneta che meriti, col piombo di queste pallottole calibro nove!»

    Pietro Pica, incollerito adesso, nella vacua illusione di ricacciarlo via, prese a insultare il suo aguzzino: «Vi-gliacco, latrina, fetente, che t’hai mise rint’ ‘a capa?» E alzando di parecchio il tono della voce: «CAINE, ZUZZE, STRUNZO, PUOZZE JETTÀ ‘O SANGO!»

    Non ebbe il tempo di spolmonarsi ancora, poiché il pelatone gli sparò a un ginocchio, che iniziò a riversare sul tessuto sciupato dei pantaloni un rivolo di sangue. Pietro Pica rovinò a terra, tramortito dal dolore. Strisciò qualche metro più in là dal suo torturatore, rialzandosi a fatica, lanciando lamenti strazianti di disperazione. Tentò la fuga, trascinando la gamba sanguinante. Invocò dispe-ratamente aiuto, rivolgendosi ai passanti, che piuttosto si allontanavano atterriti, cercando riparo dietro le auto in sosta o scavalcando il parapetto della banchina, per gettarsi sulla spiaggia e scappare all’impazzata, il più lon-tano possibile.

    Si sgolava invano Pietro Pica: «Currite gente, currite, me stann’ accirenne, mannaggia a chi v’è muorte!»

    Lo spietato lo braccava, avanzando lentamente. Lo raggiunse, inesorabilmente, e gli sparò ancora un colpo a una spalla. Pietro Pica arrancò, gridando in modo stra-ziante e implorando ancora aiuto. Ma nessuno si mosse a portargli soccorso. Sembravano tutti come immobiliz-zati dall’orrore di quella scena. Ma cosa avrebbero potuto fare di fronte a una tale imprevista e inaudita circostanza? Aspettavano soltanto che il misfatto si compiesse, per correre via, ancora vivi: salvi per fortuna, dalla furia di quel maledetto dal volto innaturale.

    Un’altra pistolettata raggiunse al basso ventre Pietro Pica, che bestemmiò ferocemente: «Mannaggia ‘e muorte tuoie. Mannaggia tutt’ ‘e sante!» E con la bava che gli co-lava dalle labbra, ancora sbraitò: «Caine, zuzze, ‘mmala-mente, puozze murì accise muzzecate dai cani!» E in-tanto che rigurgitava tutta la sua ira, una pallottola gli centrò il petto, e un’altra gli forò il basco, squassandogli il cranio.

    Pietro Pica, alias ‘o Scarrafone, stramazzò in convulsi spasmi e spirò, vomitando sangue dalla bocca. Crollò a pancia in aria, con gli occhi sgranati verso le nuvole che vagavano nel cielo, come per elemosinare un posto lassù, in quell’etereo regno, nonostante la sua esecrabile vitac-cia da balordo.

    L’uomo dal volto di cera si allontanò salterellando stranamente, come un’infausta comparsa nello scenario di quella giornata autunnale. Corse fino a una grossa moto, sulla quale montò con uno scatto, mettendo in moto prontamente.

    Se la filò a gran velocità, sfrecciando finanche contro-mano tra i veicoli, provocando il tamponamento compli-cato d’una mezza dozzina d’automezzi, dove qualcuno restò pure gravemente ferito. Sparì otre l’illogico tram-busto, il centauro dall’astratta faccia lustra, immettendosi con una spericolatissima manovra in una malagevole tra-versa, una scorciatoia per la via Appia. Poi da quella s’in-volò verso l’astruso groviglio di collegamento con la Me-diana, facendo sparire le sue tracce in quel viluppo di bre-telle, di cavalcavia e di sottopassi.

    Secondo cadavere

    Aprilia, 16 marzo 2001. Erano le 19 circa. La famiglia Stocco se ne stava allegramente riunita intorno alla mensa domestica apparecchiata per la cena. C’erano tutti, come sempre: papà Agostino, stimato direttore del Banco di San Carlo, le figlie, Jessika e Arianna, entrambe studen-tesse liceali, e la mamma, la premurosa Gelsomina, che aveva servito delle costolette di maiale con dell’insalata, ma aveva portato in tavola pure crocchette di patate, af-fettati e sottaceti.

    Per la compita famigliola, la cena rappresentava un cordiale momento d’incontro e di discussione. Difatti, parlavano un po’ tutti, del più e del meno, mentre scor-revano le immagini truculente di un attentato terrori-stico, compiuto a Tel Aviv da un sedicente gruppo di li-berazione della Palestina.

    Il servizio, commentato a labbroni smancerosi dalla solerte inviata, Perla Gioia, mostrava le immagini racca-priccianti di arti spezzati sparsi in un supermercato, tra lo scatolame, e di una bambina dilaniata. Seguivano altre inquadrature di scarpe strappate via dai piedi degli avven-tori fatti a pezzi, rimaste a galleggiare nelle chiazze di san-gue, e ancora quelle di una donna morta, che giaceva se-misvestita e ustionata dall’esplosione presso il banco della frutta, disfattosi in una mucillaginosa poltiglia, sulla quale volteggiava una baraonda di mosche. Tra i pom-pelmi e i meloni sbriciolati si intravedeva pure il corpo orribilmente sfregiato della cassiera, spazzata via dalla sua postazione dallo spostamento d’aria. Le immagini correvano poi all’esterno, che appariva come una conci-tata baraonda di sofferenza, coi soccorritori che si affaccendavano a trasportare i feriti all’ospedale e a ri-comporre i resti dei trucidati, tra le rovine fumanti e i calcinacci, tra le urla e il pianto isterico degli scampati alla mattanza.

    Ma il primo piano di Perla Gioia, rassicurante, celata-mente erotizzante, coi suoi occhioni incantati e la sua bocca agognante, esorcizzò in un battibaleno quella vi-sione spaventosa: «Bene, da Tel Aviv è tutto, passo la linea allo studio.»

    Jessika, insistette con la mamma per avere un’altra co-stoletta, e lei purtroppo era già abbastanza grassottella, quindi era preferibile che ne facesse a meno, osservò giu-stamente Gelsomina. La zelante mamma ci tenne inoltre a precisare che il benché minimo senso di trascuratezza fisica si confaceva poco alla figlia di un direttore di banca, che ha una sua precipua posizione sociale.

    Finalmente arrivò il turno del papà, che iniziò a postil-lare intorno a una notizia di politica appena data dal tiggì.

    «Con questo governo non si andrà molto avanti» pre-cisò serioso. «Più di una forza politica della coalizione è assolutamente inaffidabile, perdinci! Ciò determina un rallentamento della crescita economica, un aumento dell’inflazione e una scarsa credibilità dei mercati inter-nazionali verso il nostro paese.»

    Suonarono alla porta.

    Mamma Gelsomina s’alzò e corse ad aprire, col grem-biule ancora legato in vita e con le ciabatte ai piedi. Sbir-ciò tramite lo spioncino le fattezze dell’inatteso visitatore e constatò, con una certa apprensione, che si trattava di un’avvenente signora, ben agghindata oltretutto, e con degli occhiali scuri dalla linea elegante. «Chi sarà mai?» bisbigliò tra sé.

    Dopo qualche attimo di sospettoso impasse le aprì. «Desidera?» squittì, con fare apparentemente cerimo-nioso.

    «Ecco, cerco il signor Agostino Stocco, il direttore, per una questione molto delicata. Sa, sono davvero de-solata per aver disturbato a quest’ora inopportuna... ma...»

    «Si figuri, entri, la prego!»

    «A proposito, io sono Edwige Garofolo e vengo per conto del signor Luca Baldi, presidente della CAED edi-lizia...»

    «Ah, ora capisco!»

    «Ma non si preoccupi, le assicuro che non porterò via molto tempo al direttore. Sa, devo discutere con lui di un’operazione molto... delicata. Perciò ho avuto incarico di incontrarlo, diciamo, molto riservatamente...»

    «Mi segua, mio marito sarà da lei a momenti» disse Gelsomina, facendola accomodare in salotto, avviandosi poi in sala da pranzo per avvertire l’influente consorte.

    Che arrivò, dopo qualche secondo e che, con conven-zionale galanteria, salutò la donna e si sedette di fronte a lei, in una studiatissima postura. «Allora, a cosa devo il piacere di questa imprevista visita?» chiese infine con tono parecchio leccato.

    «Si tratta di una questione molto importante. Per que-sto mi sono permessa di disturbare a quest’ora insolita... Le dispiace se fumo?»

    «Ci mancherebbe altro! Fumi tranquillamente, sono anch’io un fumatore incallito.»

    Edwige Garofolo, in un’espressione ammaliante, di-schiuse la sua borsetta, come per prenderne sigarette e accendino. Ma ne estrasse una rivoltella munita di silen-ziatore, con cui, come fosse nulla, gli sparò in mezzo agli occhi. Un colpo solo, terribilmente preciso. Il direttore non ebbe nemmeno il tempo di fiatare e il suo cadavere s’afflosciò scompostamente sul divano.

    La donna rimise l’arma nella borsetta, per non far ru-more si tolse gli eleganti stivaletti col tacco a spillo e, senza farsi vedere, scivolò via verso l’ingresso, col passo felpato di una lince.

    Il cadavere di Agostino Stocco, fu rinvenuto dalla mo-glie, insospettitasi per il prolungato silenzio che regnava nel salotto, soltanto 18 minuti dopo, un tempo lunghis-simo, assolutamente bastante per un assassino che deve squagliarsela dal luogo del delitto.

    Va detto che giravano delle stranissime voci sul conto del direttore Stocco come, per esempio, che fosse di ri-ferimento per certe intricate operazioni di investimento di soldi sporchi accumulati da alcune consorterie del cri-mine organizzato. Si sa, il denaro non puzza.

    Terzo cadavere

    San Felice Circeo, 13 ottobre 2002.

    È mezzanotte passata.

    Una Mercedes grigio metallizzato dalla linea sportiva s’arresta con una morbida frenata nello spiazzo ciotto-lato antistante una grossa costruzione rurale, accurata-mente ristrutturata.

    Dentro ci sono due insoliti individui, uno alla guida, corpulento e ricciuto, dalla carnagione ambrata e dal volto butterato, e un altro, dai lineamenti delicati, como-damente disteso sul sedile posteriore. Si tratta di un gio-vane danaroso, visto che indossa un pregiato vestito blu sopra una leggera camicia di seta bianca.

    L’autista indugia qualche secondo, col motore ancora acceso. Aspetta un cenno del riccone. Che puntualmente arriva. Infatti ingrana la marcia e accelera, parcamente. Infila una stradina alberata di fianco al fabbricato, per bloccarsi nella semioscurità di un posteggio ricavato ad arte in un annoso pioppeto, dove sostano altre costose vetture.

    L’uomo alla guida spegne il motore, mentre l’altro scende, mormorandogli una precisa disposizione: «Pa-squale, aspettami qua, non ti muovere per nessun mo-tivo!» Poi s’avvia lungo un viottolo ghiaioso, rischiarato da alcune lampade a petrolio disposte sui cigli erbosi, verso un portone di legno massiccio sovrastato da una lanterna dalla luce giallastra. Ci arriva davanti e preme il pulsante del videocitofono incassato nel muro, sul lato destro del solido portale di pietra.

    Attende...

    Qualcuno da dentro lo osserva, dal monitor del vi-deocitofono, intanto che aspetta impaziente. Attende ancora, con crescente indolenza, volgendo lo sguardo in su, verso la cappa fosca del cielo senza luna, dal misero barlume delle poche stelle affioranti negli squarci tra le nubi, torbide e opprimenti.

    Poi, finalmente, qualcuno gli apre.

    Nel greve cigolio del portone, che si schiude adagio, un’esile figura dalla faccia felina gli bisbiglia una precisa domanda: «Cosa volete?»

    E il gagà, mentre gli posa in mano delle banconote di grosso taglio, pronuncia piano la parola d’ordine: «Sono

    Rocco Ferraro. Voglio cogliere una gardenia nel giardino delle delizie.»

    «Entrate, don Rocco...» sibila il guardaportone. «Scu-satemi, ma con questo buio non vi avevo identificato del tutto.»

    Il riverito ospite penetra nella penombra di un vesti-bolo demarcato da tende di velluto rosso, dove lo smilzo gli passa una maschera di cartapesta. Rocco Ferraro se la sistema sulla faccia, per rendersi irriconoscibile, e s’infila in uno stretto corridoio, da cui entra in un ambiente ar-redato in modo bislacco, nel quale c’è altra gente, che sembra divertirsi con osceni giochetti, sul sottofondo di una musica orientaleggiante. Ricalca l’interno impreci-sato di una fumeria cinese d’altri tempi, o di un bordello tailandese o, se si vuole, di un bagno turco d’epoca otto-mana, o di tutti questi baracconi messi insieme.

    Si guarda velocemente intorno, Ferraro. Poi si va a stendere su dei cuscini posati su un tappeto. Stanno così anche gli altri, da soli o accoppiati, oppure in gruppo.

    Alcuni discutono sottovoce, altri tracannano alcolici gracchiando rumorosamente, mentre qualcuno s’abban-dona, sulla scia delle proprie allucinazioni. E c’è pure chi fa sesso, nemmeno nascostamente, sotto l’effetto della cocaina, da sniffare al buffet unitamente alle bevande, alle ostriche e alle tartine al caviale.

    Ferraro aspetta che accada qualcosa d’imprevisto, os-servando apaticamente quella rimpatriata di dissoluti. Piuttosto segue l’evoluzione di una tipa con in viso una maschera argentata, che si è scollata dal suo gruppo e si sta esibendo in un improvvisato spogliarello, dimenan-dosi a poca distanza da lui.

    Quella che sembra essere la padrona di casa, l’orga-nizzatrice della festa, gironzola tra i suoi clienti adagiati sui cuscini, ipnotizzandoli con la sua imponenza, esaltata dal suo abbigliamento succinto e persino indegno.

    Una mezza dozzina di sue sottoposte, straniere, pro-venienti dall’est europeo, probabilmente, fanno la stessa cosa, si intrattengono con quelli che sono arrivati da soli, offrendo loro erba da fumare, bevande inebrianti da sbe-vazzare e coca da tirare, finanche i loro corpi voluttuosi. Basta soltanto che lo vogliano. Una di queste si avvicina a Rocco Ferraro, si siede sulle sue ginocchia, a gambe larghe e gli passa la roba. Lui se ne sniffa parecchia, a varie riprese, mentre la palpa tutta e le sbaciucchia il collo.

    L’improvvisata spogliarellista intanto lo fissa sma-niosa, mimando atteggiamenti lascivi. È fuori di sé, or-mai, e decide di prendere l’iniziativa, dirigendosi verso di lui. La meretrice, contemporaneamente, sloggia, tra-dendo una schizzinosa smorfia di disgusto.

    Ma sa perfettamente come funziona il gioco. Se gioco si può chiamare, quell’equivoca girandola di perdizione a pagamento.

    La donna, completamente nuda, allunga le mani sul petto di Ferraro, trascinandolo pian piano nel suo dise-gno lussurioso. Infatti, dopo qualche minuto, lo prende per mano e lo persuade a seguirla, al primo piano, nella stanza degli specchi, dove si abbandonano a un’este-nuante estasi dei sensi.

    Sono passate le 4 del mattino. Il baraccone a poco a poco si svuota. I clienti vanno via uno alla volta, o in coppia, o in gruppo, secondo come sono venuti. Non vogliono incontrarsi con i loro compagni di brigata oltre l’uscita, dopo il party proibito, per non essere scoperti e sbugiardati, o soltanto per non incappare in un indeside-rato stato d’imbarazzo.

    Rocco e la sua occasionale amante abbandonano quel moderno paese dei balocchi per ultimi. Lui l’accompa-gna fino alla sua macchina, e prima di salire, mettere in moto e svanire nelle tenebre di quella nottata peccami-nosa, vuole sapere di lui, di Rocco. Sembra essere ritor-nata in sé, ora. «Chi sei?» gli chiede.

    «Non ha importanza... E tu... chi sei?»

    «Non ha importanza...»

    Questo risponde l’odalisca per una notte salendo sulla sua spider. Sparisce nell’oscurità, nel ruggito aggressivo e potente del motore, sgommando tra le ombre torve di quella campagna silente e rannuvolata. Rocco, assonnato e spossato, ritorna verso la sua vettura. Bussa contro il finestrino per svegliare il suo autista, appisolato sul sedile anteriore, che si ridesta con un sobbalzo. Rocco sale die-tro, e si distende stancamente.

    I fari s’accendono nel buio, rischiarando appena il pioppeto, nel brusio regolare del poderoso diesel. La Mercedes riparte lentamente. Gira intorno al casale e im-bocca una via che taglia in due un folto boschetto di querce. Ma s’arresta a un tratto, poiché c’è un’auto ferma su un lato, che quasi ostruisce il passaggio, con le luci di posizione lampeggianti. Un indistinto figuro è appog-giato al cofano con un gomito. L’autista rallenta e si ferma di fianco. Pensa verosimilmente a un guasto del motore, o a un qualsiasi

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