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La festa dei cani
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E-book214 pagine3 ore

La festa dei cani

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La festa dei cani è la traduzione italiana di The Dogs Party, la blues band compostda Marcus, GiòRepsyMaddy e Bibbì
che sono i simpatici protagonisti della vicenda narrata. La storia si dipana in una provincia riconoscibile e per niente noiosa, che si estende da Sperlonga a Caserta, da Marina delle Palme a Fortecastello, il cui centro ideale è il Bar Mocambo, frequentato da personaggi goderecci e perfino troppo singolari. In tali contesti, ordinari e complessi insieme, talvolta suggestivi, si muovono i nostri bluesemen, intenti a realizzare il loro progetto musicale, non senza qualche scanzonato intervallo e alcuni antipatici intoppi, che riguardano soprattutto il chitarrista Repsy, sentimentalmente smarrito. Ma a ingarbugliare definitivamente le cose, se così si può dire, ci pensano le ragazze, Carla, Denise, Vittoria, Silvia, Patricia, bellissime, ovviamente, anche loro straordinarie protagoniste del romanzo.  

Giuseppe Lucio Fragnoli è nato a Castelforte (LT) il 12 dicembre 1956. Laureato in Architettura, è docente e scrittore, blogger e storico dell’arte. Insegna Disegno e Storia dell’arte al Liceo Scientifico Statale L.B. Alberti di Minturno (LT). Ha pubblicato i romanzi: La festa dei cani (1999), Quell’impicciatissima vicenda di donne, diavoli e altre stranezze (2000), Miracolo al bar (2001), Ottocento (2002),
Tutta colpa di Capuozzo (2002), Nero Napoletano (2003), La canzone di Lola (2005), Una balorda faccenda di camorra – rifacimento di Nero Napoletano – (2008), Edwige salvami (2010), La festa dei cani – rifacimento – (2013), Il tempo magico – rifacimento di Miracolo al bar – (2017), La Dea Terra (2017), Noir Napoletano – rifacimento di Nero Napoletano (2018), la raccolta di racconti Storie crudeli (2012), e il saggio critico Caravaggio e le Storie di San Matteo (2018). Ha pubblicato, inoltre, propri racconti nelle antologie Giallo Latino V Edizione, I Racconti di Sabaudia 2006, Racconto Latina 2006. Ha ottenuto vari riconoscimenti in importanti concorsi letterari.

Per richiere la copia cartacea:
info@graficheemmegi.com
https://graficheemmegi.net/
LinguaItaliano
Data di uscita12 mag 2021
ISBN9791220803311
La festa dei cani

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    Anteprima del libro

    La festa dei cani - G. Lucio Fragnoli

    Epilogo

    Personaggi del romanzo

    elencati in ordine di apparizione

    Maddy, Giò, Marcus, Repsy e Bibbì

    (Prima storica formazione della blues band Dogs Party: Maddy -chitarra solista, armonica, slide guitar-; Giò -batteria-; Marcus -basso-; Repsy -chi- tarra solista e ritmica-; Bibbì-chitarra ritmica-.)

    Er Cecchetti (Zio factotum di Bibbì)

    Rocco Pesante (Proprietario del Bar Mocambo) Magda e Milova (Bariste polacche del Bar Mocambo) Gattone (Sciupafemmine)

    Don Carmine (Commerciante di strumenti musicali)

    Don Pasquale Percoco (Ristoratore)

    Bonzo (Cane di Maddy)

    Betti (Segretaria del notaio Bartolo Altomonte) Teddy Pavone (Pianista di fama internazionale) Pascale Cafè (Tecnico del suono dei Dogs Party) Camilla (Loquace barista del Caffè Bellezza)

    Denise (Cassiera del supermercato Qualità e Convenienza)

    Carla (Professoressa di lettere al Liceo Petrarca)

    Free Sex, il Lardo, il Camionista, il Rimorchio, Mara la Vamp, Giusy la Vip, Smorfiosette, la Peggiore, la Migliore, Lady Maialova, Quella de Milan, Quella de Pescasseroli,

    Calunnia, Cornacchia, Lingua di biscia

    (Alcuni abituali clienti del Bar Mocambo)

    Maddy, Marcus, Repsy e Bibbì

    (Seconda storica formazione della rock & blues band Dogs Party: Maddy

    -chitarra solista, armonica, slide guitar-; Marcus -batteria-; Repsy -chi- tarra ritmica -; Bibbì- basso-.)

    Antò Matematico (Proprietario del Bar Aperol)

    Eros o Cupido (Dispettoso dio dell’amore) Jennifer Rossi (Alunna studiosissima del Liceo Petrarca) Brooke Valentini (Alunna sfaticata del Liceo Petrarca)

    Piero Franchini (Editore)

    Topazzo (Cliente beone del Bar Mocambo)

    Eva e Loredana (Passeggiatrici)

    Gaetano Zappa (Proprietario del Bar Sport)

    Clara (Sorella maggiore di Repsy e titolare di una sartoria)

    Vittoria (Amica e socia di Clara)

    Rosa Maria (Amica di Clara)

    Tersite Faina (Sindaco di Fortecastello)

    Floris Di Carlo (Vicedirettore del periodico Metropolis) Napoleon, Palla di Neve, Gondrano e Berta (Membri del Circolo Marx)

    Amanda (Quarantenne americana di cui non si sa altro) Mammarella la Strega (Fattucchiera) Mezza Supposta (Tossico e ladruncolo)

    Professor Anacleto Ottone (Preside del Liceo Petrarca)

    Valentino Costa detto il Duca (Malavitoso) Tre brutti ceffi al soldo del Duca (Malviventi) Abel (Angelo custode di professione)

    Botticelli, Leonardo, Modigliani e compagnia varia (Artisti)

    Antonio Canova e William Blake (Artisti)

    Silvia (Avvenente infermiera della Clinica Santa di Nostra Madonna)

    Joe Di Brutto (Pianista turnista)

    Maddy, Marcus, Repsy, Bibbì e The Three Marys (Terza storica formazione dei Dogs Party, che modificano il loro nome in Dogs in Heaven: Maddy -armonica, chitarra, slide e dobro guitar-; Marcus -batteria-; Repsy -pianoforte-; Bibbì-basso-; The Three Marys -coriste )

    Le sorelle Viola, Glicine, Ortensia e Camelia Pantanelli

    (Malelingue)

    Nanni Bottiglione (Commissario prefettizio) Giannino Ceraso (Fisioterapista focoso e palestrato) David Zarden (Impresario e scopritore di talenti)

    Prologo

    Era una sera brutta di novembre, quel novembre tempestoso del Novantasei. Fuori infuriava un temporale: lampi, tuoni, e una pioggia fitta e gelata, che avvoltolava i casamenti e i lecci del viale, le insegne spente e le fioche luci dei lampioni, lumicini per niente incoraggianti in una serataccia fredda e buia che incuteva tormento e paura.

    Dentro, nel tepore e nella semioscurità del Bar Mocambo, mentre erano da poco passate le 21 di quel cupo lunedì 4, oltre alle due taciturne bariste polacche Magda e Milova, al proprietario Rocco Pesante, mezzo addormentato su un divanetto in fondo alla sala, c’erano Marcus, Repsy, Maddy e Bibbì, che se ne stavano seduti sugli alti sgabelli di legno addossati al banco, tutti vestiti di scuro e coi piedi penzoloni sul pavimento lucido, che parevano corvi appollaiati sugli estremi pizzi d’un maniero, in bilico sul vuoto dello strapiombo.

    Come molte altre sere si trattenevano là a scolare della birra fredda, confabulando su un mucchio di accidenti, tra i più differenti e strampalati, talvolta finanche troppo esagerati.

    Quella sera Marcus non faceva altro che ripetere di una seccante circostanza riguardo a un «filibustiere patentato» che gli aveva bidonato dei quattrini in un complicato giro di assegni, il girotondo, appunto, con cui ci si

    finanzia e si commercia con titoli di credito postdatati. Si compera e si vende senza contanti e senza congrui depositi bancari, sulla promessa di una cifra scritta sopra un insulso tagliando di carta, dove alla fine ci rimette il povero fesso che ne becca qualcuno scoperto o addirittura contraffatto. Era, in effetti, una storia difficile da seguire la sua. Così agli altri non restava altro da fare che ironizzare e riderci sopra, suscitando il risentimento di Marcus, che non ci aveva capito proprio tutto di quel lercio imbroglio, e che da ultimo non poté fare a meno di scoppiare a ridere anche lui.

    «Gira e rigira, il cetriolo se lo strafoga sempre l’orto lano» disse sghignazzando.

    Il resto della brigata rimase indifferente alla sua spiritosaggine. Forse non avevano nemmeno compreso a cosa si riferisse precisamente.

    Ma lui continuò ancora a ridacchiare. Poi batté una fraterna manata sulla spalla di Maddy, che occhieggiava di nascosto le bariste, e ordinò: «Magda, Milova, quattro birre medie ben ghiacciate per quattro satanassi assetati!»

    Il tempo, la birra e le chiacchiere scorrevano via che era una meraviglia, e da un argomento all’altro, come spesso accadeva, il discorso scivolò sulla musica. I quattro, questo va subito spiegato, erano dei veri appassionati e se la cavavano abbastanza a suonare chi uno strumento chi un altro. Difatti, moltissimo tempo addietro, Repsy e Maddy erano stati i brillanti chitarristi del fortunato complesso rock Sonny’s Garage, e Marcus, dal canto suo, era stato, fino a qualche anno prima, bassista e «batterista di riserva» dei Delitto e Castigo, una noiosissima orchestra spettacolo, a dire il vero, sul tipo di quelle romagnole.

    Bibbì, invece, aveva pizzicato il basso elettrico nei Big Fat Mama, ma si arrabattava pure alla chitarra. E non si capì realmente chi ebbe l’idea ché, cianciando e scherzando, decisero di formare un complesso musicale, una blues band, per l’esattezza. Forse per il fatto che il blues si basa su un giro di pochi accordi, quasi sempre gli stessi e, almeno in apparenza, sembrava una cosa assai semplice da spicciare.

    Bibbì, il più competente di tutti in simili faccende, dato che aveva una rivendita di articoli da regalo e di dischi d’ogni genere, il conosciutissimo Magic Club, situato in pieno centro cittadino, a un certo punto prese la parola. «Se si fa la band, voglio suonare il basso» disse con tono assai serioso.

    Marcus, bassista anche lui, subito replicò: «Voglio, voglio, voglio! Non ti hanno ancora informato che l’erba voglio non cresce più da nessuna parte? Io al basso nemmanco ti vedo, ma ti posso accontentare. Mi piazzo io alla batteria, tanto mi ci sono addestrato abbastanza per svolgere il lavoro alla grande. Me la sbrigo io la pratica!»

    «Non è un compito facile da sbrogliare, quello della batteria» intervenne Maddy. «La batteria è il cuore palpitante del suono! Non è il solito, ottuso martellamento di piatti e tamburi che si sente all’intorno di questi tempi. Per come la penso io, per fare una band davvero tosta, ci vuole un ottimo batterista. E il primo sulla piazza è Giò. Va ulteriormente precisato che Giò è un buon vocalist, e questo è un particolare da non sottovalutare.»

    Repsy comprese che il ragionamento di Maddy non faceva una piega, e placidamente aggiunse: «Ragazzi, è assolutamente scontato che Giò è il più bravo di tutti. Per cui, secondo il mio modesto parere, la soluzione più azzeccata è questa: Giò alla batteria, Marcus al basso, e noi tre alle chitarre. Tre chitarre potrebbero sembrare troppe ma, se ognuno fa la sua parte, tre chitarre sono giuste, anzi, in qualche particolare arrangiamento potrebbero essere addirittura poche!» E rivolgendosi a Bibbì puntualizzò: «Tanto tu, Bibbì, ti disimpegni abbastanza bene alla chitarra ritmica, e Maddy, in alcuni pezzi, potrebbe suonare la slide-guitar, la dobro o l’armonica. Dico bene?»

    «Caspita se dici bene!» esclamò convinto finalmente Bibbì, incurante dei mugugni di Marcus. «Io piuttosto passerei oltre. Vi ricordo che bisogna acquistare l’amplificazione e gli strumenti che mancano, occorre stabilire il repertorio e tutto quanto. Ce n’è da lavorare, perercole! E poi, che genere facciamo? Solo blues? Rock blues? O anche qualche pezzo jazz?»

    «Al repertorio penseremo in seguito» rispose Marcus, smettendola di lagnarsi e riprendendo a sogghignare a modo suo.

    E Bibbì: «L’importante è fare musica, come diceva un mio vecchio amico, un sassofonista di Afragola. A me sembra, però, che ci stiamo dimenticando di un essenziale dettaglio, ossia del nome da dare alla band. Come lo vogliamo chiamare ’sto caspita di gruppo? Io ’na mezza idea la tengo. Il blues è la musica dei neri e dei bianchi dall’anima negra. È il canto della gente di strada, il latrato dei cani randagi come noi. E siccome in inglese cane si dice dog, noi da questo momento ci chiameremo Dogs. Ma, accidenti a me, mi viene in mente or ora quel disco leggendario di Scott Henderson, che in copertina riporta la foto di un bastardino incappellato e, sul retro della stessa, quella di un cagnotto che piscia scostumatamente sopra una chitarra. Ve lo ricordate? Si chiama Dog party, festa del cane, come l’omonimo pezzo incluso nella raccolta! Ma constatato che i cani nel nostro caso sono molteplici, e facendo una minima variazione, il nome che mi piacerebbe dare al gruppo è quello di Dogs Party, festa dei cani! Pure i Rolling Stones il loro nome lo dedussero da un brano micidiale di Muddy Waters.»

    «Dogs Party?! Sì, mi pare il nome più adatto» considerò Marcus. «Dogs Party! È una cannonata di nome, altroché. Bravissimo il nostro Bibbì!»

    «Perdinci, m’aggrada ’na cifra» fece Maddy entusia smato. «Molto, ma molto bene.»

    «Ci piace, ci piace» miagolarono all’unisono Magda e

    Milova col loro scialbo accento slavo. «Ci piace, sì.»

    Mentre, l’assonnato Rocco Pesante dopo una burlesca smorfia, brontolò: «La festa dei cani... La festa dei cani?! Ma che razza di festa è?»

    E Marcus, visibilmente soddisfatto: «La nostra festa! Maledizione, dove li trovi quattro cagnacci raminghi come noi?»

    D’improvviso mancò l’elettricità. Il Mocambo sprofondò nella totale oscurità. Un tuono fragoroso, poi il bagliore d’un fulmine, che rischiarò per un istante il locale, sinistramente. I quattro musicanti, le bariste e Rocco Pesante ammutolirono, impressionati.

    Il generale e inquietante silenzio fu rotto, dopo alcuni interminabili secondi, dalla voce di Bibbì che esclamò convinto: «Ecco, questo è un chiaro segno del destino! Non si può più fare macchina indietro, ormai: dobbiamo formare la band, e si deve chiamare Dogs Party!»

    Ritornò la luce. Le prosperose bariste l’accolsero con sorrisi consolatori e leggermente allusivi. I nostri musicisti si fecero una grandissima risata e, pressoché in coro, rivolti a Magda e Milova, ordinarono: «Birra per tutti!»

    I Dogs Party continuarono ancora a discutere vivamente delle formazioni che avevano scritto la storia del rock, dei grandi protagonisti travolti dal vizio e da assurde paranoie, dei primitivi pionieri del blues, dei falsi idoli dello show business, di epici concerti e di altre leggendarie gesta musicali.

    Ma allo scoccare della mezzanotte, pagarono il conto, si infagottarono nei loro impermeabili e uscirono. Aveva smesso di piovere, e un nebbione opprimente era sceso sull’abitato dormiente.

    Le luci del Mocambo si spensero. Poco dopo s’udì lo scricchiolio metallico delle serrande che s’abbassavano e il ticchettio dei passi delle lavoranti polacche e di Rocco Pesante che si allontanavano. I Dogs s’erano fermati a ragionare ancora sotto un lampione, nella quiete e sullo sfondo della via deserta.

    «È ora di sciogliere la riunione» disse a un certo punto Maddy.

    Ma Marcus, che certe notti non ne voleva davvero sapere di andare a letto, subito replicò: «Adesso ci fumiamo un’ultima sigaretta e ce la squagliamo.»

    La fumarono gustosamente, con lunghe e dense boccate, come condannati a morte, quell’ultima sigaretta e, spenti i mozziconi sotto le suole delle scarpe, si salutarono alla loro maniera, battendo il cinque, e si dileguarono ognuno per la sua via, nella notte umida e cupa, che incuteva angustia e paura.

    Ora il lettore, incuriosito, si chiederà: «Ma chi sono ‘sti matti?» come avrebbe detto il grande Cecchetti. Il paziente lettore nondimeno si domanderà: «Ma chi è ‘sto Cecchetti?»

    Andiamo con ordine. Er Cecchetti, romano der Testaccio, era lo spericolato zio di Bibbì, che nella vita aveva fatto di tutto o quasi. Da giovane era stato pugile per la categoria dei pesi welter, abile biscazziere e grossista di latticini, quindi ragioniere libero professionista e giocatore di golf, riuscendo nel Settantanove a conquistare persino il prestigioso titolo di campione italiano. Per farla breve e per usare un’espressione appropriata, era uno che la sapeva lunga.

    In merito ai matti sopraddetti, ossia i Dogs Party, si sappia che Sandro Biondi, detto Maddy, era persona fondamentalmente finto-depressa. Era uno che ci provava gusto a piangersi addosso, in buona sostanza, spesso senza seri motivi. Bibbì diceva che «se la menava», per significare che si lamentava sempre e oltre ogni limite.

    Quel diavolo di un Sandro aveva frequentato una prestigiosa scuola per parrucchieri, ma aveva fatto altri cento mestieri, tranne che il parrucchiere, perché, affermava lui, l’ambiente era ammorbato da «pupattole viziate e sessodipendenti, da effeminati petulanti e da altri psicopatici.» Si considerava fortunato a non averci rimesso la pelle. Perciò era emigrato a Londra, dove aveva lavorato dapprima come cameriere, poi come assicuratore e agente immobiliare. Dopodiché aveva messo su famiglia e aveva creato dal niente un’agenzia di viaggi che gli dava da vivere discretamente, malgrado fosse «costretto» a evadere una «calcolatissima quota» delle tasse dovute. «Per non dare tutto al governo ingordo» si giustificava lui. Sia chiaro, non è che ci marciasse. In fondo si trattava soltanto di qualche «comprensibile» aggiustamento contabile, preso troppo sul serio dai cavillosi agenti del fisco britannici. Tanto che era stato costretto a lasciare in tutta fretta l’Inghilterra, per liberarsi per sempre della Regina, dei flemmatici sudditi di lei e dei funzionari sanguisughe delle imposte, che lo stavano ancora braccando, manco fosse stato Papillon, arditamente evaso dal penitenziario di Cayenne.

    Così se ne era ritornato al paese natale con tutta la famiglia, dove aveva rilevato una sala da gioco con cui sbarcava il lunario. Sandro Biondi aveva un sacco di soprannomi: Barbone, Lupin, o Maddiuòter, dall’eccezionale maestro del blues Muddy Waters, del quale era grande estimatore. Molti lo chiamavano Mitico Maddiuòter, oppure Acquasporca o più semplicemente Maddy. Era robusto e abbastanza alto di statura, aveva i capelli brizzolati e pettinati all’indietro. Somigliava, molto vagamente, ad Alan Ford, il famoso personaggio dei fumetti. Al tempo di cui stiamo narrando aveva trentotto anni.

    Marco Malagola, universalmente conosciuto con l’appellativo di Marcus, era il più anziano di tutti, coi suoi quarant’anni appena compiuti, e anche il più grosso, con il suo metro e ottantasei di statura e il suo quintale abbondante di peso. Marcus, che per la spiccata predisposizione per gli affari chiamavano pure Business, di mestiere faceva il rivenditore di autoveicoli. Da ragazzo, oltre che bassista, era stato portiere della locale squadra di calcio. Era felicemente sposato e aveva due marmocchi, il più piccolo dei quali era una peste, un autentico Giamburrasca.

    Sempre in gioventù Marcus era stato un inguaribile casanova. Pare che le sue conquiste ammontassero esattamente a centocinquantanove – almeno così raccontava lui –. Se lo contraddicevano, subito si imbestialiva, ed erano cavoli amari per chi ci capitava di mezzo. Dell’uomo duro ci teneva la faccia, con naso dritto, occhi azzurri di ghiaccio, fronte alta e stempiata. Portava sempre gli occhiali da sole, sia d’estate che d’inverno, come Bibbì, del resto.

    Federico Bellavia, trentottenne come Muddy, aveva avuto un passato alquanto rocambolesco ed era stato, a modo suo, un «rivoluzionario incendiario.» Adesso, sempre a modo suo, era un «pensatore pompiere.» A venticinque anni, senza starci a pensare troppo sopra, si era imbarcato su un cargo battente bandiera liberiana con la qualifica di mozzo. Per quattro anni all’incirca aveva girato il mondo in lungo e in largo, fermandosi alla fine a Napoli, dove si era ammogliato e aveva aperto un negozietto di chincaglierie, imparando anche a parlare napoletano. Ma, dopo alcuni anni, si era stufato perfino di Napoli ed era ritornato nel suo paese d’origine, con la consorte e i suoi tre figlioletti.

    Federico era un bluesemen eclettico e creativo, con capacità impensate in molti campi del vivere e con una mostruosa preparazione in storia del pensiero filosofico. A vederlo ti faceva subito una

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