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Roma contro Pirro: Il console plebeo che scacciò il Re epirota dall'Italia
Roma contro Pirro: Il console plebeo che scacciò il Re epirota dall'Italia
Roma contro Pirro: Il console plebeo che scacciò il Re epirota dall'Italia
E-book163 pagine2 ore

Roma contro Pirro: Il console plebeo che scacciò il Re epirota dall'Italia

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Info su questo ebook

Manio Curio Dentato, un nome fra i tanti consoli dell'antica Roma, fu invece il protagonista decisivo per salvare Roma dalla minaccia mortale portata da Pirro, Re dell’Epiro.

Esempio di rettitudine per gli antichi scrittori latini, schivo di onori, ruvido nei modi, prima della battaglia di Benevento contro l’ambizioso sovrano Epirota, respinse le lusinghe dell’orgoglioso popolo sannita, domò le rivolte sabine, spense la furia dei Galli, mentre a Roma si trasformò in agitatore, abile nel difendere le ragioni della plebe contro il patriziato guidato dal celebre Appio Claudio Cieco, dedicandosi, al contempo, all’educazione di un fanciullo lasciato alle sue cure dall’amata moglie.

Ma Curio non fu solo un condottiero vincente: si deve a lui, infatti, il secondo acquedotto romano e la deviazione del fiume Velino che diede origine alla cascata delle Marmore.

Attorno a lui si muovono passioni, intrighi e potenti contrasti di una città che teme per la sua sopravvivenza ma che, al tempo stesso saprà ritrovare, unità e determinazione per non soccombere.

LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2019
ISBN9788869346538
Roma contro Pirro: Il console plebeo che scacciò il Re epirota dall'Italia
Autore

Alessandro Roazzi

Alessandro Roazzi, nato a Roma nel 1946. Giornalista professionista, ha scritto per diverse testate. Ha iniziato la sua esperienza professionale presso le Acli nella redazione di "Azione Sociale", il settimanale del Movimento. Nello stesso periodo ha collaborato con la rivista “Rocca di Assisi” per i problemi sindacali. Nella UIL, guidata da Giorgio Benvenuto, ha svolto i compiti di capo ufficio stampa. Ha diretto la redazione economica del Tg2 presso la Rai e, successivamente, è stato vicedirettore di Televideo. Appassionato di Roma antica, ha pubblicato nel 2014 il romanzo storico Metauro, storia di due eroi dimenticati e nel 2017 Roma sfida Cartagine, Lelio racconta l'amico Scipione. Ha pubblicato altresì un libro sulle vicende familiari e politiche degli anni ’40 e ’50 dal titolo Ricordo, ergo scrivo. Tracce di famiglia. Ha curato inoltre il libro Silvano Miniati, passione, idee, amicizia.

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    Roma contro Pirro - Alessandro Roazzi

    © Bibliotheka Edizioni

    Via Val d’Aosta 18, 00141 Roma

    tel: +39 06.86390279

    info@bibliotheka.it

    www.bibliotheka.it

    I edizione, dicembre 2019

    e-Isbn 9788869346538

    Isbn 9788869346521

    È vietata la copia e la pubblicazione, totale o parziale,

    del materiale se non a fronte di esplicita autorizzazione scritta

    dell’editore e con citazione esplicita della fonte.

    Progetto grafico e disegno di copertina:

    Riccardo Brozzolo per Eureka3 S.r.l.

    www.eureka3.it

    L’autore

    Sandro Roazzi

    Alessandro Roazzi, nato a Roma nel 1946. Giornalista professionista, ha scritto per diverse testate.

    Ha iniziato la sua esperienza professionale presso le Acli nella redazione di Azione Sociale, il settimanale del Movimento. Nello stesso periodo ha collaborato con la rivista Rocca di Assisi per i problemi sindacali.

    Nella UIL, guidata da Giorgio Benvenuto, ha svolto i compiti di capo ufficio stampa.

    Ha diretto la redazione economica del Tg2 presso la Rai e, successivamente, è stato vicedirettore di Televideo.

    Appassionato di Roma antica, ha pubblicato nel 2014 il romanzo storico Metauro, storia di due eroi dimenticati e nel 2017 Roma sfida Cartagine, Lelio racconta l’amico Scipione.

    Ha pubblicato altresì un libro sulle vicende familiari e politiche degli anni ’40 e ’50 dal titolo Ricordo, ergo scrivo. Tracce di famiglia.

    Ha curato inoltre il libro Silvano Miniati, passione, idee, amicizia.

    Un romanzo di grande presa spettacolare e accurata ricostruzione storica, che raffigura un’antica Roma in cui le alleanze si formavano e si sfaldavano nel giro di una nottata, e il pensiero politico – ieri come oggi – era dettato da logiche opportuniste e da clamorosi cambi di prospettiva.

    Percorso di Pirro in Italia

    Io sono Curio Dentato mangiatore di rape e difensore dei plebei

    La piazza del Comizio brulicava di persone. Il mormorio della folla ricordava le onde di un mare che annuncia tempesta. L’uomo si fece largo fra i concittadini in modo imperioso quanto semplice. Era tarchiato, bruno, con una tunica tipica di chi proviene dal lavoro dei campi. Lo sguardo però era tutt’altro, raccontava di una personalità fuori dal comune, autorevole, pronta a scattare e colpire. Un agitatore nato, non un pensatore. Ma l’abilità che si intuiva in lui non era solo furbizia raffinata nella lotta politica, ma anche frutto di una intelligenza lucida ed audace.

    L’uomo si chiamava Manio Curio Dentato, sabino di origine, capo plebeo riconosciuto e rispettato. Si avvicinò a passi rapidi presso un vecchio che stava seduto con il braccio appoggiato su uno degli scalini che portavano alla curia dalle massicce porte bronzee.

    «Questo non lo puoi fare» esplose Manio in direzione del suo antagonista, il mitico Appio Claudio Cieco.

    L’anziano senatore girò il capo mentre i suoi occhi dispersi nella cecità avanzata tentavano di carpire le sembianze di chi gli si parava davanti: «Tu, Manio? Si deve fare. Sai bene che ho favorito da censore l’ingresso in Senato dei figli dei liberti e dei nostri concittadini di bassa estrazione sociale. Sai che mi sono adoperato per conciliare gli interessi di patrizi e plebei. Ma non esageriamo: la collegialità nella magistratura consolare non può che essere un obiettivo, i tempi non li vedo maturi, specie in una città sempre più litigiosa, dove l’intimidazione è diventata uno strumento di potere, dove l’invettiva sostituisce il ragionamento e prevarica le altrui ragioni. Trasferire le differenziazioni dalla normale discussione nelle assemblee a continui conflitti nelle cariche più alte dello Stato è un rischio grave e sarebbe per giunta avvertito come un oltraggio alla memoria dei nostri padri Quiriti. Roma deve divenire una città più liberale, ma con gradualità. Pensa a quanta difficoltà si fa a far comprendere ai Romani il valore delle arti che considerano poco virile, inutile perdita di tempo, considerano l’ignoranza quasi una virtù che tempra la nostra vena guerriera. Lasciami fare…»

    «Quando ti convinci di una scelta, non c’è verso di farti cambiare idea, Appio. Ma io sono eguale a te. Roma è di tutti, patrizi e plebei. Il merito salva e rafforza il destino di questa città, non i natali. Il coraggio ci aiuterà a conquistare terre, non il blasone. La tenacia ci impedirà di cedere ai nostri nemici che ci accerchiano d’ogni parte, tu ne hai vinti molti e lo sai, non lo sbandierare antenati illustri. Noi siamo uomini nuovi perché crediamo in Roma e la serviamo come tutti gli altri. Ed il consolato, il potere consolare, è un modo di servire Roma. Se i nostri padri hanno basato l’articolazione del potere sulla collegialità che permette di intervenire sulle scelte più difficili, quelle più rischiose, quelle tanto ambiziose da confondersi con velleità presuntuose, ci sarà stata pure una ragione. E questo potere di interdizione non dipende da natali aristocratici, a meno che non si voglia un console di maggior valore rispetto all’altro, quello plebeo. Io non l’accetto, la plebe non l’accetta, Roma, non deve accettarlo.»

    Manio si era infervorato ed era deciso a resistere, lo scontro con Appio sarebbe proseguito in Senato, tesi contro tesi, volontà contro volontà, senza compromessi possibili.

    Il suo amico Fabrizio lo avvicinò: «Appio oggi è più forte, desisti; se non lo farai, andrai incontro ad una sconfitta politica che ci farà indietreggiare nella lotta per affermare i nostri diritti. Ti farai solo nemici potenti, non è utile, anzi può essere pericoloso, a Roma usare il pugnale è facile contro gli avversari.»

    «Non temo i potenti, né gli assassini. Io vado avanti» lo interruppe bruscamente Manio Curio Dentato.

    In quel momento Fabrizio si ricordò della storia che riguardava quel soprannome: Dentato. Ricordò che si narrava di una nascita singolare. Il piccolo Manio aveva già alcuni dentini, segno premonitore forse di un carattere indomito. E lo stava ancora dimostrando, come aveva fatto in battaglia.

    Manio accostò alcuni Senatori e bisbigliò loro poche parole, suscitando meraviglia. Il Senato rumoreggiava, al suo ingresso si levarono alcuni insulti, ma anche applausi di incoraggiamento. I romani, implacabili in guerra, erano altrettanto spietati in politica dove odi ed esaltazioni si contrapponevano talvolta anche sanguinosamente.

    Curio chiese di parlare e fu silenzio: «Chiedo che la ratifica dei candidati plebei sia data in deroga alle normali procedure, prima delle operazioni elettorali, a garanzia del rispetto dei diritti di tutti i cittadini.»

    I senatori si guardarono l’uno l’altro indecisi sul da farsi. Appio non prese neppure la parola, taceva sul suo scranno con un cipiglio austero ma imperscrutabile. Coloro che lo attorniavano gli chiesero se fosse stato d’accordo; scosse il capo e con la mano si liberò della loro insistenza. Poi reclinò il capo come se volesse estraniarsi.

    La discussione fu animata e si protrasse a lungo. Ad un certo punto Fabrizio espose il suo pensiero. Era stimato dai Senatori perché faceva parte di quel gruppo di uomini nuovi che si erano distinti non solo per coraggio ma anche per integrità morale: «Non scontriamoci su una questione che, se ci pensate bene, è una pura formalità. Guardiamo alla sostanza del problema. Abbiamo bisogno di consoli all’altezza delle minacce che fuori di qui si addensano sulla città. Uno spalla dell’altro, proprio mentre Sabini, Sanniti e Galli fuori di qui si comportano come altrettante belve in agguato che non aspettano altro che individuare un punto debole per aggredirci. Vogliamo aiutarli, dimostrando che ci dividiamo sulle procedure, mentre non prestiamo attenzione al valore, alla intelligenza, alla competenza militare? Siamo dunque così incoscientemente generosi? Siamo davvero tanto dissennati dal dividerci su una normale dialettica fra persone che per il bene della Patria devono usare cervello ed esperienza senza rispondere ad altri, più ambigui, criteri? Sono convinto come voi che Manio ed Appio siano due colonne dello Stato romano. Entrambi hanno le loro brave ragioni. Ma se vi dicessi che vorrei vedere Manio Curio Dentato console in grado di far deflettere il suo collega da scelte pericolose, voi che mi rispondereste? Sareste felici di questa opportunità, perché non dareste peso alle sue vesti dimesse, alle sue mani callose, alla sua barba ispida, al suo caratteraccio, bensì il vostro pensiero correrebbe alle sue capacità che sono state e sono grandi. Roma ha bisogno di grandi uomini che né il censo o la nobiltà di nascita possono garantire. Oggi non siamo in grado di decidere, ma domani dovremo farlo. E non deve essere un domani improbabile. Non abbiamo tanto tempo. I tabu vanno infranti, non aggirati. Costruiamo uno Stato che sia il migliore possibile, gradualmente ma non rinviando. I nostri eredi ci saranno grati.»

    Il Senato rimase silenzioso per qualche istante, poi scoppiò un applauso convinto. Tutto fu rinviato a giorni futuri. Quel dissidio sarebbe riemerso inevitabilmente in altre forme nella interminabile contesa fra patrizi e plebei. Il potere di prevalere nelle decisioni era un argomento troppo ghiotto per non riscaldare ancora la tumultuosa vita pubblica romana. La tregua era dunque molto fragile, ma si rivelò utile perché Roma stava per vivere una stagione di conflitti mai sperimentati in passato contro nemici potenti e valorosi.

    Manio si ritirò nel suo podere. Non prima di aver litigato ancora con Appio che lo irrideva. Entrambi irremovibili, sembravano fatti apposta per contrapporsi. Ma ignoravano che la storia di Roma avrebbe teso loro un impensabile tranello spingendoli di lì a poco a schierarsi dalla stessa parte.

    Uscì da Roma di sera, da solo. Intuì il pericolo quando il cavallo cominciò ad innervosirsi ed il suo fedele cane rallentò la corsa. Scese da cavallo ed impugnò il gladio, camminando con apparente disinvoltura. Due figure sbucarono dal buio minacciosamente. Due pugnali brillarono, pronti ad uccidere. Ma non fecero in tempo ad avventarsi contro Manio che li precedette. Il cane con un balzo fece cadere il coltello all’uomo più vicino. L’altro incontrò il gladio di Manio che lo colpì con decisione. Cercò allora il secondo assalitore, sparito.

    Alcuni cavalieri gli si fecero incontro: «Stai bene Manio? Ci hanno informato di un agguato ordito da alcuni patrizi, siamo venuti in tuo aiuto.» La voce era quella amica di Fabrizio.

    Manio sorrise: «Se aspettavo voi, vi costavo un funerale, il mio, ma sono contento di vedervi.» Si abbracciarono.

    Nei pressi si intravedeva la luce fioca di una locanda scalcinata. La raggiunsero e passarono la notte fra libagioni e ricordi. Era nella loro natura coltivare il ricordo, del quale del resto non si dovevano vergognare perché narrava di lotte politiche per i diritti dei più indigenti, ma anche di coloro che avevano dato il loro sangue per Roma. Il ricordo come un vecchio saggio che sa indicare la strada. Il ricordo che dimostrava la differenza fra la propaganda sterile ed imbecille ed una condotta politica orientata ad ottenere risultati, a guardare in faccia la realtà, a osservare gli eventi per capire quale fosse la prospettiva oltre il contingente.

    Fabrizio lo stuzzicò: «Ti sei opposto ad Appio per recuperare popolarità, ma come vedi quando se ne accumula troppa, arrivano i guai…»

    Manio lo guardò di traverso: «Non vado in cerca di fama, lo sai. Mi interessa invece arginare i patrizi. Finché sono rappresentati da Appio passi pure, è un uomo d’onore, ama Roma; ma se a capitanarli spunta un Cornelio Dolabella che sfrutta il potere dei patrizi per arricchire se stesso ed affamare la plebe, allora no, si deve reagire. La politica a Roma non di rado diventa una serpe che avvelena il sangue della nostra comunità, non dimenticarlo…»

    Fabrizio rise: «Ma fammi il piacere. Roma va oltre le ambizioni di singoli profittatori. Guarda le possenti mura del nostro tempio di Giove sul Campidoglio. Non è un’opera di schiavi, ma di uomini liberi. Se lo guardi dalla via Sacra ti infonde un sentimento di orgoglio, le miserie umane diventano invece ignobile terriccio che puoi calpestare mille volte senza che acquisti mai un benché minimo valore.»

    Manio lo corresse: «Quel terriccio ti può infangare, Fabrizio. Meglio evitarlo che camminarci sopra. A Roma la lotta politica è davvero singolare: siamo pieni di riti, di formule, di procedure, di una distribuzione di cariche che impediscono il ritorno all’epoca dei re. Ma poi si nutre di inganni, di furbizie, di violenza, di raggiri e di conflitti di interessi che sono davvero lontani da una vita collettiva leale e protesa verso il bene comune.»

    «Sei davvero un sovvertitore, amico mio.»

    «No, semmai sono un agitatore. Ma quando devo esserlo è per una ragione nella quale metto il mio eventuale vantaggio all’ultimo posto.»

    «Roma saprà difendersi dal degrado politico, vedrai. La tradizione impedirà la sua rovina.»

    «La tradizione

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