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I tre ladri
I tre ladri
I tre ladri
E-book164 pagine1 ora

I tre ladri

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Info su questo ebook

Tapioca è un ladro scapestrato, che entra ed esce dal carcere senza mai riuscire ad arricchirsi. Gastone Cascarilla è un suo ex "apprendista", ormai malvivente di successo. Dopo anni, i due si incontrano per coincidenza e decidono di mettere le mani sull'ingente somma di denaro posseduta da Nicola Ornano, imprenditore arricchitosi in maniera poco limpida. Mentre i due armeggiano nella dimora degli Ornano, i coniugi rientrano inaspettatamente. Cascarella riesce a fuggire con il bottino, ma Tapioca viene catturato e fatto prigioniero da Ornano, che cercherà in ogni modo di farsi rivelare il nascondiglio del socio...-
LinguaItaliano
Data di uscita15 dic 2021
ISBN9788728079089
I tre ladri

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    Anteprima del libro

    I tre ladri - Umberto Notari

    I tre ladri

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1908, 2021 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728079089

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    LIBRO PRIMO

    IL LADRO NUMERO UNO

    TAPIOCA HA APPETITO

    Tapioca, svegliandosi, avvertì una fortissima contrazione all’epigastro.

    Ma il suo cervello era ancora così appesantito dal sonno, da non potere stabilire con precisione se il viscere lancinato fosse suo o di un’altra persona.

    Si fregò gli occhi violentemente, come se le sue mani fossero ranni e la sua faccia un panno da bucato; si alzò a sedere sui varî cenci che componevano il suo giaciglio ed attese, porgendo quasi l’orecchio a se stesso.

    Un brontolìo prima, poi uno stiramento doloroso lo fecero sussultare.

    — Sacrablù! — esclamò un po’ meravigliato e un po’ preoccupato, — sono proprio io che ho mal di stomaco!...

    In quarantacinque anni di esistenza, Tapioca non aveva mai patito il più piccolo malanno: nemmeno un raffreddore.

    Era dunque naturale che, di quelle sue prime doglie fisiche, egli rimanesse più stupefatto che allarmato.

    Tapioca, con uno sforzo di concentrazione, cercò le cause dell’insolito male.

    All’improvviso si dette un gran pugno sulla testa.

    — Che bestia! — mormorò. — Ieri non ho mangiato!...

    Sorrise, quasi soddisfatto.

    — È fame! — continuò monologando coi varî suoi indumenti che tirò a sè per vestirsi. — È fame bella e buona!... Buttò via il tappeto sudicio e bucherellato dalle tignole che serviva di letto e di coperta, e infilò una vecchia blouse turchina da operaio, sdruscita e sfilacciata, che Tapioca portava come camicia.

    Un paio di calzoni di frustagno olivastro, di taglio antico, stretti al ginocchio e larghi alle caviglie, unti e smunti come se avessero servito a dieci generazioni di arrotini; una giubba più sbrindellata di una bandiera tolta in guerra al nemico; un paio di scarpe che parevano dissotterrate dalle macerie di un terremoto e un berretto da meccanico a visiera di cuoio, costituivano tutto il guardaroba che Tapioca, prima di coricarsi, aveva adunato in terra, vicino a un coccio pieno d’acqua per i gatti, che dal pertugio senza vetri dell’abbaìno ch’egli occupava, venivano a trovarlo ogni mattina.

    Quando Tapioca fu vestito, si sedette sulla grossa trave che traversava obliquamente il rifugio nel quale, è quasi superfluo dirlo, non era nessunissima traccia di mobilio.

    — Dove si va a far colazione? — si domandò guardando un ragno che sgambettava allegramente sul filo invisibile teso fra la trave e la muraglia maestra.

    Per Tapioca non era tanto facile rispondere a simile domanda.

    Quantunque sapesse di non possedere un centesimo, tuttavia frugò macchinalmente le varie tasche dei suoi abiti.

    Ne trasse l’unica cosa ch’esse contenevano: un mozzicone di sigaro.

    Tapioca lo spezzò in due parti: una la mise in tasca e l’altra in bocca; masticò e deglutì lentamente, e si dette a riflettere.

    Gli affari andavano male.

    Da una settimana tutti i tentativi gli fallivano, uno dopo l’altro.

    Il mestiere non rendeva più.

    Tapioca, da buon vecchio ladro autentico si sentì un po’ scoraggiato.

    Abbandonare la professione era impossibile: alla sua età non si può mutare indirizzo all’esistenza.

    Eppoi che cosa avrebbe fatto? Egli non sapeva che rubare: in tutta la sua vita aveva sempre rubato.

    Dei suoi genitori aveva notizie così incomplete che talvolta, nel digerire le sbornie con le quali solennizzava i «colpi» più fruttiferi, preso da un’ondata di nostalgia, scuoteva il capo. — E pensare, — mormorava, — che fra la gente da me svaligiata, ci potrebbe essere mio padre!

    A questo dubbio Tapioca, benchè ladro indurito, si sentiva inumidire gli occhi da una tenerezza un po’ fuligginosa.

    Cresciuto nella marmaglia vegetante in fondo alle viuzze luride del più losco quartiere della città, fra quel letamaio umano di vagabondi, di pezzenti, di girovaghi e di accattoni dal quale sbocciano i truculenti fiori della teppa e le pallide gramigne della prostituzione, aveva partecipato fin da ragazzo alle operazioni notturne più arrischiate e più criminose, servendo semplicemente da «segnale di allarme» alle combriccole di banditi adulti, che lo ricompensavano con una parte infinitesima del bottino.

    Poi con altri suoi coetanei si era dato a un’industria più personale e più proficua: quella del «furto campestre».

    Privo di qualsiasi insegnamento di morale e di qualunque rudimento di istruzione, posto, sino dalla primissima età, fuori della legge e della famiglia, senza controlli e senza freni, abbandonato solo alla pressione dei suoi istinti e degli esempi dell’ambiente nel quale era nato e in cui viveva, egli considerava il furto un’azione non solamente legittimata dalla necessità del suo stomaco, ma indispensabile inoltre a distinguere la sua personalità, ad allenare le sue attitudini, ad utilizzare le sue forze.

    In una parola, Tapioca, appena quindicenne, concepiva la vita come dovettero concepirla i primi abitatori della terra o come un selvaggio dell’Africa australe che vede intorno a sè foreste, animali, alberi e frutti, e ghermisce ed uccide per nutrirsi. Nelle sue lunghe scorazzate per la campagna confinante col quartiere da lui abitato, incontrava egli pure boschi, alberi, frutti ed animali.

    Tutto ciò era a portata di mano; e Tapioca prendeva.

    Erano i campi sorvegliati? Chiusi i pollai, sbarrate le porte, cintate le cascine? Tanto meglio: all’istinto bisognava aggiungere l’astuzia, la destrezza ed il coraggio; e Tapioca, nell’eludere una vigilanza, nel tagliare una siepe, nello scavalcare un muro, nello scassinare una porta, non vedeva che un maggiore allettamento, precisamente come un negro o come un pellerossa, il quale per impadroniirsi di una belva o del carico di una carovana, debba preparare trappole, tendere imboscate, o affrontare pericoli.

    ____________

    LA CARRIERA DI TAPIOCA

    Se qualcuno avesse detto a Tapioca che tutto quanto egli faceva per sfamarsi o per divertirsi era riprovevole, egli avrebbe riso, tanto le sue imprese gli parevano logiche e naturali.

    Quando fu in grado di comprendere che la civiltà aveva sostituito altri sistemi più complicati o più onorevoli, a quelli spicciativi e disonoranti coi quali egli si procurava quanto gli occorreva o quello che gli piaceva, Tapioca rimase un po’indeciso.

    Lavorare?

    Ma egli lavorava; diamine, se lavorava!

    Doveva dunque cambiar «lavoro».

    Quale scegliere?

    Operaio, contadino, commerciante? Egli vi si provò, un po’ di qua, un po’ di là, un po’ per spirito di imitazione, un po’ per curiosità, un po’ anche per sfuggire alla vita del carcere che aveva assaggiato e che non gli era piaciuta, un po’, infine, per il desiderio di vedersi e di sentirsi «rispettato».

    Per Tapioca, ognuno dei mestieri appresi e successivamente abbandonati, significò una delusione.

    — È curioso, — ruminava egli nel suo cervello bonario e un po’ filosofo, — come il lavoro che chiamano «onesto», fa andar via la voglia di lavorare!

    Infatti Tapioca, ch’era piuttosto attivo di temperamento, si sentiva a poco a poco diventare pigro e fannullone.

    Della vita di officina si stancò presto.

    Il lavoro compiuto alla stessa maniera, tutti i giorni, tutte le settimane, per un eguale numero di ore, ne avesse o non ne avesse voglia, lo snervò e lo irritò.

    Mangiava, dormiva, si riposava; ma tutto gli era concesso a ore fisse, tutto gli era imposto e distribuito non secondo il suo stato d’animo o secondo le sue facoltà fisiche, ma secondo un regolamento, secondo una legge, vale a dire secondo una volontà che non era la sua e che spesso, anzi, era contraria alla sua.

    Gli parve inoltre che il guadagno fosse molto esiguo in proporzione al suo lavoro e alla fatica o, meglio, allo sforzo che il lavoro, accettato a trangugiato come una medicina, gli costava. Poi si accorse che una delle cause, per le quali da vagabondo si era fatto operaio, mancava completamente di effetto; si accorse cioè che la pubblica opinione, cioè l’opinione della gente dabbene, «dei signori», come la qualificava Tapioca, rimaneva a suo riguardo fredda ed insensibile, come prima; ed ostentava per la sua blouse di «onorata» fatica la stessa diffidenza umiliante, gli stessi sospetti offensivi che aveva sentito aleggiare un tempo intorno al suo berretto di «teppista».

    Piantò il tornio e si dette a fare il rivenditore ambulante.

    — Così almeno lavorerò quando mi piacerà!

    Tapioca, che in fondo aveva un’anima semplice, ingenua e primitiva, credette in buona fede che bastasse andare in giro per la città o per i paesi vicini, con la sua mercanzia, per esitarla senza difficoltà alla gente, realizzando un beneficio fra il prezzo d’acquisto e quello di rivendita.

    Tapioca s’avvide ben presto che i suoi calcoli erano sbagliati e che bisognava prima di tutto alterare con la parola e con altri mezzi, il valore della merce, per poter sostenere la concorrenza di altri rivenditori.

    Si avvide insomma che bisognava ingannare per non essere ingannato, frodare per non essere frodato e turlupinare per poter far fronte alle altrui turlupinature.

    — Insomma, — concluse Tapioca, ch’era d’istinto un semplificatore, — è molto più semplice fare il ladro!

    Tapioca piantò il commercio e ricominciò a rubare: gli parve più leale, più dignitoso.

    Nel suo breve tirocinio fatto in mezzo alla società normale e civilizzata si era assolutamente convinto che l’enorme maggioranza perdeva una infinità di tempo nel cercare di travisare, di nascondere e di truccare l’istinto della rapacità con sistemi che, per quanto ammessi, consentiti o tollerati, non erano meno ignobili di quelli che egli aveva adottato per risolvere il problema della

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