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L'anno dell'alpaca: Viaggio intorno al mondo durante una pandemia
L'anno dell'alpaca: Viaggio intorno al mondo durante una pandemia
L'anno dell'alpaca: Viaggio intorno al mondo durante una pandemia
E-book377 pagine4 ore

L'anno dell'alpaca: Viaggio intorno al mondo durante una pandemia

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Info su questo ebook

L’anno dell’alpaca è il racconto del lungo viaggio di chi si ritrova, suo malgrado, dall’altra parte del pianeta quando l’Organizzazione mondiale della Sanità annuncia l’inizio di una pandemia. Mentre il mondo si chiude in casa, la cronaca personale di Giammarco Sicuro, inviato speciale della redazione Esteri del Tg2, fa conoscere al lettore le realtà e le vicende umane di tre continenti: dal Perù dei primi casi accertati, alla Spagna in lockdown. Dalla Corea del Sud divenuta un modello di gestione del virus, al dramma di Messico e Brasile.
L’anno dell’alpaca è, anche, e soprattutto, un diario irripetibile, affidato a un personale filtro dei ricordi, nato dalle necessità e mosso da una passione: raccontare il mondo. È un diario scritto e vissuto in compagnia di due peluche: un alpaca e un lama, che finiranno per trasformarsi in un prezioso, folle e surreale appiglio nei momenti più drammatici e dolorosi, ma anche in quelli, necessari, più spensierati e sorprendenti.
LinguaItaliano
Data di uscita10 dic 2021
ISBN9788831318525
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    Anteprima del libro

    L'anno dell'alpaca - Giammarco Sicuro

    Prefazione

    di Lucia Goracci

    L’anno dell’alpaca è il sapidissimo racconto di un lungo viaggio che comincia in Perù, nel febbraio 2020; anche se il libro non seguirà un ordine cronologico, ma quello, irripetibile, dell’emozione e del ricordo.

    L’epidemia in Cina è appena scoppiata, ma l’attenzione mondiale, complice l’opacità di Pechino, è ancora rarefatta. Siamo alla vigilia di qualcosa che, invece, si rivelerà epocale e porterà la nostra generazione a misurare il passato, tra un tempo prima e uno dopo la pandemia.

    Giammarco Sicuro si ritrova, per caso, dall’altra parte del mondo, quando l’ Organizzazione mondiale della sanità ne annuncia l’inizio. Il libro racconta tre continenti: il Perù, dicevamo; la Spagna della primavera 2020, prostrata dai contagi proprio come l’Italia; la Corea del Sud, modello di gestione del virus, e luogo di un’opprimente quarantena, nel corso della quale l’autore non smetterà mai di raccontare. Poi, ancora, il Messico, il Brasile dell’autunno successivo: la loro prima vera ondata, devastante, che non è ancora finita.

    Nel libro, il tempo è scandito come in un diario di viaggio. Questo nostro tempo, pur così veloce e resiliente, su cui la pandemia lascerà un segno, al momento sfocato. Scrive Sicuro: «rifletto su quanto assurdo sia tutto questo: la pandemia, la mascherina che indossiamo (e che Gabriel porta ancora sotto al naso) e questo mio viaggio iniziato otto mesi prima in Perù e che ora continua, questa volta a rincorrere storie di indios contagiati e braccati». Cogliendo, dunque, dentro al ritmo crescente della pestilenza, il suo vero volto, presto svelato: quello di emergenza umanitaria dei più fragili. Che colpisce tutti, lasciandoci smarriti; ma che affonda i suoi più irrimediabili segni dove la democrazia è claudicante, la corruzione dilaga, la presenza dello stato rimane asimmetrica, con ampie zone di sottosviluppo anche all’interno di paesi da primo mondo.

    Avventurandosi nella selva di un morbo inesplorato, che coglie impreparato il contemporaneo, l’autore si muove tra Cacciatori di fuochi che evocano il realismo magico latinoamericano e poi asciutte, quasi cliniche, descrizioni. Senza dimenticare il racconto sociale: la sosta sul sacrificio della Foresta amazzonica, divorata dalle colture estensive della soia destinata alla Cina, rievoca sin dalle sonorità dei nomi dei protagonisti – Gabriel, Teresa, Odulia – certi personaggi del Canto Generale di Neruda, con la loro battaglia per sopravvivere, che si fa comunità e diventa epica.

    Cronista per caso – perché tutto era cominciato con una vacanza – tanto che l’alpaca che regala il titolo al libro nasce souvenir, ma diventerà muto compagno di un viaggio fatto anche di solitudine. Certo, non casuale è la scelta dell’autore di esserci per raccontare: mentre il mondo si chiudeva in casa, trasformando lo schermo del computer in un Aleph borgesiano da dove affacciarsi sull’ignoto. Giammarco Sicuro non ha paura di guardarlo in faccia, l’ignoto, pure così disarmante e brutale.

    La pandemia viene spesso accostata a una guerra, perché della guerra ha avuto i numeri spaventosi (la Spagna dell’epoca del libro conta già quarantacinquemila vittime, il Brasile ne annovererà molte di più). E più della guerra, dove chi fugge si fa carico dei propri anziani, prendendoli sulle spalle e portandoli in salvo, il Covid sottrae anche l’estremo diritto di affiancare i propri cari, nell’ora più buia.

    Direttamente dalla medicina di guerra, viene il Triage estremo, racconto dalla località spagnola di Aranjuez: «Scegli chi curare e gli altri restano fuori», rivela Cinzia, italiana, primario di terapia intensiva del locale ospedale. I posti letto esauriti e la metà dei medici contagiati a casa costringono a dedicarsi a chi ha più possibilità di farcela.

    Il volo semivuoto, gli scali deserti, poi l’arrivo a Seul, con le prime dirette al telefono, ancora prima di aver superato il controllo passaporti: un andare controcorrente e a ritmi che, noi inviati, conosciamo bene.

    In Corea del Sud, attende lo scrittore anche una lunga quarantena senza finestre. Eppure, il tono della narrazione cerca di conservare, anche nei momenti più cupi e drammatici, una sua levità: sempre leggero il battito sulla tastiera dell’interminabile trasferta per la RAI, premessa del libro. Perché anche così sono i racconti delle grandi crisi: capacità, o bisogno, di allentare la presa sulle emozioni, di farsi beffa della paura con improvvise, fragorose risate. È un tenersi per mano con immortali compagni di viaggio, sapendo di essere al cospetto della storia, con il privilegio di farsene testimoni.

    Una storia di storie: quei volti, molti dei quali Sicuro non può vedere per le mascherine e, forse, non vedrà mai. Ma che ti si sedimentano nella memoria, oltre il racconto televisivo, per sempre.

    Il cacciatore di fuochi

    14 ottobre 2020

    Per essere sani mentalmente, si devono attraversare molte follie.

    Osho Rajneesh

    « Se você abrir a janela, pode sentir o cheiro da Amazônia!».

    Gabriel parla in portoghese e io annuisco facendo finta di capire. Poi, di nascosto, chiedo a Joelma una rapida traduzione.

    «La janela è la finestra e cheiro è il profumo… annusa!».

    Credo di aver spiegato più volte al nostro autista che non capisco la sua lingua. O meglio, decifro qualche parola qua e là, con la complicazione di un suono ovattato dalla mascherina che Gabriel indossa rigorosamente sotto al naso. Mentre annuso l’aria carica di umidità, lui mi descrive i profumi elencando una lunga lista di piante e fiori dai nomi esotici che, ovviamente, non comprendo. Informazioni preziose che si perdono.

    Siamo in viaggio, insieme, da soli tre giorni, eppure sembra una vita. Succede sempre con le persone che sanno metterti subito a tuo agio. Quelle che ti chiamano per nome fin dal primo momento. E che ti sorridono, anche quando non capiscono cosa gli stai chiedendo.

    È stata Joelma, la mia collaboratrice brasiliana, a metterci in contatto qui in Amazzonia: «È un cacciatore di fuochi, ma soprattutto è super entusiasta di lavorare con noi», così me l’aveva presentato, convincendomi all’istante.

    Adoro le persone entusiaste e così mi era apparso fin dal primo momento, presentandosi all’aeroporto di Porto Velho in camicia hawaiana a mezze maniche e pantaloncini corti color kaki.

    «Cosa significa essere un cacciatore di fuochi?», era stata la mia prima domanda.

    «Es bedeutet, auf der Seite des Verlierers zu stehen», aveva risposto in un sorprendente tedesco, la lingua dei suoi antenati che Gabriel ogni tanto tirava fuori con orgoglio pensando, chissà perché, di facilitarmi la vita.

    «Vuol dire stare dalla parte del perdente», aveva poi tradotto Joelma, chiedendogli di ripetere in portoghese.

    In realtà, in quei tre giorni, il nostro cacciatore si era fatto capire eccome, scovando per noi decine di incendi illegali che subito avevamo documentato mentre lui osservava soddisfatto e allo stesso tempo preoccupato.

    «Prima disboscano e poi bruciano…», mentre spiegava, le sue braccia mulinavano nell’aria con grinta e passione, «vedi: avanzano di cento metri in cento metri…», continuava.

    Il primo incendio lo avevamo trovato dopo pochi chilometri di viaggio, non appena la foresta amazzonica aveva preso il posto del cemento di Porto Velho, città in grande espansione e capitale dello stato brasiliano di Rondonia.

    Mi ero avvicinato da solo a quelle fiamme. Troppo caldo per Gabriel che già sudava nella camicia hawaiana extralarge mentre Joelma aveva preferito tornare, rapidamente, in auto dopo aver visto, (o creduto di vedere) qualcuno muoversi nella foresta.

    « Cuidado, Giammarco!». Fai attenzione, mi aveva detto Joelma un attimo prima di scappare veloce e silenziosa come un gatto selvatico, lasciandomi solo con un’ansia immotivata e un grande punto interrogativo in fronte.

    «Spesso chi appicca questi incendi ne segue poi l’evoluzione in qualche angolo nascosto».

    «Sarà qualche animale in fuga», mi ero ripetuto più volte, a bassa voce, quasi per autoconvincermi.

    Ad attirare la mia attenzione, però, erano soltanto quelle fiamme che, ormai, lambivano le cime più alte di enormi alberi amazzonici e il crepitìo del rogo assomigliava a un fischio quasi umano, un urlo acuto della foresta che moriva pezzo dopo pezzo, mentre il calore si faceva insopportabile e il fumo toglieva colore a quel verde brillante a cui da giorni mi ero abituato.

    « Giammarco, é tudo soja, entende? Você está vendo?». Gabriel scuote la mia spalla col solito entusiasmo che questa volta mi risulta piuttosto fastidioso. Devo essermi di nuovo addormentato: capita spesso viaggiando per ore sulle strade in terra rossa che tagliano dritto per dritto questa immensa pianura.

    La parola soja la capisco bene ma suona strano associarla a queste località di frontiera, dove il bosco cede spazio ai pascoli di bestiame.

    «Da qualche tempo gli allevatori hanno capito che guadagnano di più coltivando la soia».

    «E a chi la vendono?».

    «China… tudo vai para a China», e il tono è di chi sta dicendo qualcosa di molto ovvio.

    La recente guerra dei dazi tra Washington e Pechino, da una parte, ha alzato il prezzo della soia, rendendo più redditizia la coltivazione su larga scala e dall’altra ha spinto il gigante asiatico a cercare nuovi mercati per soddisfarne il fabbisogno. Un’occasione irripetibile per i grandi latifondisti amazzonici, diventati rapidamente i primi produttori al mondo di soia. Un risultato ottenuto grazie a migliaia e migliaia di ettari strappati rapidamente alla foresta. Terreni pregiati grazie al clima tropicale che garantisce ben due raccolti l’anno. Un ritmo di produzione che terrorizza gli ambientalisti come Gabriel, ma che entusiasma gli speculatori.

    «Serve per gli allevamenti intensivi e il mio Paese si è subito offerto per colmare la domanda. Vedi? Quei campi sono già pronti per la semina e il 75% della produzione totale è già destinato ai cinesi».

    L’auto sfreccia veloce tra immense distese pianeggianti e a Gabriel le buche grandi come crateri non sembrano interessare molto. Sullo sfondo, vediamo decine di grandi ruspe e mezzi meccanici che sistemano il terreno. «Marco», aggiunge il Cacciatore di fuochi accorciando il mio nome con un tono netto e deciso, «se torni a trovarmi tra cinque anni, qui non vedrai nessuna foresta, ma soltanto soia», e sull’ultima parola agita ancora una volta le braccia, abbandonando il volante al suo destino.

    Se non ti calmi, non ci arriviamo vivi a cinque anni, penso mentre Gabriel aggiunge qualcosa di incomprensibile nel suo ottimo tedesco.

    La destinazione è ancora lontana. Secondo il nostro cacciatore restano da percorrere circa trecento chilometri lungo la famigerata Rodovia 319 che da Porto Velho conduce a Manaus, la capitale dello stato di Amazonas. Fu grazie a questa striscia di terra rossa che i primi speculatori iniziarono l’opera di disboscamento, trasformando quest’area in una frontiera.

    «La tribù dei Mura ci attende per domani, all’ora di pranzo», dice Gabriel e dal modo in cui lo dice intuiamo che ha fame.

    Intanto immagino come sarà visitare una terra indigena minacciata prima dagli incendi e ora dalla pandemia di Covid-19. Su di loro, in questi ultimi giorni, ho letto cose terribili: contagi in crescita e malati che muoiono nei villaggi senza alcuna assistenza sanitaria…

    Dentro l’auto, si diffonde un forte odore di legna appena tagliata. Si tratta di un profumo intenso che apre le narici e sveglia dal torpore del lungo viaggio. In un attimo, la foresta ha lasciato spazio a una distesa infinita di enormi tronchi. Gabriel mi sta dicendo qualcosa, ma non lo sento e comunque sono sicuro che farei fatica a capirlo. Forse, mi sta spiegando che quelle sono le imprese del legno che stanno disboscando il grande cuore dell’Amazzonia, ma il rumore delle seghe elettriche è troppo forte per tentare di capire. Così, mentre annuisco perdendomi in quella distesa monocolore di giganteschi tronchi, rifletto su quanto assurdo sia tutto questo: la pandemia, la mascherina che indossiamo (e che Gabriel porta ancora sotto al naso) e questo mio viaggio iniziato otto mesi prima in Perù e che ora continua, ininterrotto, sempre in Sudamerica, ma questa volta a rincorrere storie di indios contagiati e braccati.

    Quando il frastuono finalmente scompare, ascolto Gabriel elencare cibi succulenti a Joelma. Per me, invece, è il momento di controllare l’attrezzatura dentro lo zaino. All’interno, appoggiati sopra la macchina fotografica ci sono due peluche. Il primo ha l’aspetto di un lama. Il collo lungo, lo sguardo fiero e orgoglioso. Un fiocchetto bianco e rosso al collo e un pelo corto e folto. L’altro è un alpaca. Ha un’espressione indecifrabile, le zampe marroni e un pelo bianchissimo e cotonato.

    Li sistemo con cura e delicatezza sul sedile accanto a me, con un gesto quasi involontario e automatico. Mentre lo faccio, vedo che Gabriel mi osserva dallo specchietto retrovisore con la faccia stupita. Penserà che sono pazzo e forse ha pure ragione.

    Bienvenida Isabela!

    29 febbraio 2020

    In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli:

    «Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me».

    Vangelo secondo Giovanni (15, 18-21)

    L’autobus si arrampica con fatica sulle montagne che circondano la città peruviana di Arequipa. L’odore acre di benzina bruciata mi riempie i polmoni e un reggaeton a tutto volume finisce di stordirmi. Non credo che questo simpatico e colorato pezzo di ferraglia mi porterà a destinazione…

    Ricordo che in Guatemala chiamavano chicken bus questi vecchi mezzi di trasporto, carichi di decorazioni e simboli religiosi random. «È perché ci trasportiamo i polli», mi aveva risposto un signore panciuto e piuttosto infastidito dalla mia inutile e scontata domanda.

    Non so se questi vecchi bus peruviani abbiano un nome altrettanto curioso. Di sicuro i polli non mancano e neanche gli alpaca, a quanto pare. Quello seduto accanto a me è il primo che vedo in tutta la mia vita.

    Di lui, o lei, intravedo solo il muso. Ha il pelo bianco e credo che sia un cucciolo; sicuramente è affamato a giudicare dal modo in cui si attacca a un biberon della sua stessa grandezza.

    La padrona lo tiene avvolto in un awayu: in Perù chiamano così i grandi panni colorati dentro ai quali le donne proteggono i neonati e gli animali, indifferentemente.

    La signora porta un poncho colorato e una gonna a pieghe dalla forma ampia e circolare: le chiamano polleras e sono indumenti tradizionali andini, ispirati agli abiti delle nobildonne spagnole del XVI secolo. La parola deriva dalla struttura in ferro e legno che sosteneva queste gonne e che emulava, e da qui il nome, il recinto del pollame.

    Quelle peruviane sono particolarmente colorate, opere d’arte in lana di pecora o alpaca e composte da vari strati: dal fuste, ossia la gonna superiore, alle quattro o cinque sottogonne, tutte finemente ricamate.

    La signora la indossa con leggerezza ed eleganza, nonostante gli otto metri di tessuto di cui è composta. Ha il naso adunco, la fronte piena di rughe e uno sguardo fisso e all’apparenza indifferente: credo che sia molto anziana e credo anche che la mia presenza la metta un po’ a disagio.

    Provo a rompere il ghiaccio: «Mi chiamo Giammarco e sono italiano!», dico, sporgendomi un pochino verso di lei.

    Fa un salto di lato, facendo cadere a terra il povero alpaca, con un’inaspettata agilità: d’accordo, il lungo viaggio intercontinentale mi ha costretto a indugiare un po’ troppo a lungo sulla stessa maglietta, ma questa reazione mi sembra un po’ esagerata!

    La donna mi lancia un’occhiata di traverso e mi chiede: «Tu, Coronavirus?».

    Non mi sono ancora abituato a questo nuovo ruolo di untori-del-mondo riservato a noi italiani e ogni volta faccio fatica a cogliere certe reazioni.

    «Signora, in Italia c’è il Coronavirus, ma io sono partito prima del contagio… non si preoccupi».

    La risposta ormai rodata sembra tranquillizzarla e tranquillizza anche il povero alpaca, tornato al suo posto sulle gambe della donna.

    «Come si chiama?».

    «Isabela», risponde chiudendo lì la conversazione e tornando a fissare chissà quale punto dritto di fronte a lei.

    Mi trovo sulle Ande peruviane da tre giorni e da allora non ho avuto modo di consultare le ultime notizie. Ho lasciato l’Italia una settimana fa. Il nostro Paese è alle prese con i primi casi di questo nuovo Coronavirus e le autorità hanno dichiarato zona rossa alcune aree del Nord Italia: tra queste, i comuni di Codogno, in Lombardia e Vo’, in Veneto. Dicono che questo virus sia molto contagioso, in Cina sembra che stia facendo seri danni e la preoccupazione è che possa arrivare anche tra questa gente.

    « Hoja de coca, mast í cala…».

    Mi offre delle foglie di coca. Sulle Ande, questo rimedio naturale viene utilizzato da gran parte della popolazione per limitare gli effetti dell’alta quota. Un gesto affettuoso da parte della donna che deve aver notato su di me i primi sintomi del mal di montagna.

    Metto in bocca quel mazzetto di piccole foglie verdi e poi mastico, imitando la mia vicina di sedile che già da un’ora gusta, con evidente e immotivato piacere, quell’intruglio così benefico a queste altitudini.

    La mia destinazione è il canyon del Colca, una zona remota dove spero di avvistare il famoso condor andino. Il bus si ferma in prossimità di un passo di montagna e io ne approfitto per sputare quelle disgustose fogliette.

    In questo punto, si superano i quattromilaottocento metri: l’aria è rarefatta e ogni movimento a questa altitudine mi fa sentire una specie di novello Neil Armstrong.

    «Un piccolo passo per l’uomo, un grande passo verso il bagno pubblico», e corro verso una specie di latrina di pietre gialle con vista su El Misti.

    Questo enorme vulcano di quasi seimila metri è il simbolo dell’antica città di Arequipa. Un perfetto cono sormontato da nevi perenni e da un curioso sbuffo di fumo bianco sulla sommità.

    La zona è prevalentemente desertica e un forte vento rende ancora più eroica la mia passeggiata spaziale. In realtà, mi gira la testa e mi domando se la signora abbia rifilato all’infetto italiano delle foglie difettose.

    Mentre mi lamento, inutilmente, osservo distratto i tanti souvenir caldeggiati da una moltitudine di signore vestite con grandi poncho colorati e polleras dai ricami elaborati: calamite di dubbio gusto, bracciali fatti-a-mano-made-in-Cina e una serie infinita di alpaca di peluche. Li guardo incuriosito. Ce ne sono di vari tipi e sembrano tutti fissarmi: deve essere l’altitudine!

    Uno di questi assomiglia al piccolo cucciolo del bus: ha il pelo arruffato e bianco, due orecchie piccole e sporgenti e una specie di sorriso disegnato sul muso.

    «Il pelo è di vero alpaca», ci tiene a sottolineare la venditrice peruviana seduta a terra, di fronte a me.

    «Di dove sei?».

    «Europeo», glisso furbescamente. «La compro», aggiungo decidendo in maniera arbitraria anche il sesso di quel peluche dal pelo cotonato che intanto mi fissa coi suoi occhi disegnati con due semplici puntini tondi e neri.

    Lo regalerò a mia nonna al ritorno, tra un paio di settimane. Lei ama questi soprammobili pelosi. Di solito li sistema in fila nella vetrinetta, tra una mia foto venuta male, alcuni souvenir e la cornice della comunione di mia sorella Margherita.

    Prima di ripartire appoggio l’alpaca di peluche sopra una roccia: scatto una foto e approfitto di una debole e ritrovata connessione per inviarla a un’amica.

    «Ma è meravigliosa, sei riuscito ad accarezzarla?», risponde lei. «Ha un pelo stupendo, sembra quasi finta per quanto è bella», insiste. Deve aver capito che è un vero alpaca.

    «Certo. E si è messa anche in posa con uno sguardo serio e distinto», rispondo stando al gioco.

    In Italia sono le 22 di un venerdì sera e la mia amica deve essere evidentemente ubriaca per aver scambiato il peluche nella foto per un vero alpaca. E ora me la immagino intenta ad allargare l’immagine con un occhio chiuso e l’altro mezzo aperto.

    «Aspetta, ma è finto!», risponde con un altro messaggio.

    Caro peluche, se ti scambiano per un vero alpaca, devo darti un nome.

    Il motore del chicken bus peruviano si accende e la signora interrompe la riflessione, urlando: «Italiano!».

    Ormai deve avermi adottato. La ringrazio e salgo, accomodandomi su un sedile marroncino chiaro.

    «Questa è Isabela mentre si pavoneggia a quattromilaottocento metri. Isabela è il mio alpaca. Tanto per capirci, gli alpaca sono quelli fighi, tutti bianchi, coccolosi e un po’ snob. Insomma, sono lama che ce l’hanno fatta».

    Scrivo questa frase come didascalia della foto appena scattata e prima di rimettermi a masticare le inutili foglie di coca, pubblico il post su uno dei vari social.

    « Mamacita, qué bonita…».

    L’autista accende la radio: un vecchio marchingegno incastrato sopra la sua testa. È un tipo dall’aspetto curioso e simpatico; guida muovendosi al ritmo di un orrendo rap peruviano e osservandolo meglio mi ricorda un improbabile mix tra Bobby Solo e il capo di una tribù Sioux.

    Mi lamento, ma ancora una volta inutilmente. I vicini di posto, invece, sembrano apprezzare e anche la signora, e il suo alpaca, adesso ondeggiano al ritmo di quella tremenda canzone. Speravo di dormire ma lo farò all’arrivo, confidando che il chicken bus regga anche questa ennesima fatica ad alta quota.

    Mamma Rufina

    2 marzo 2020

    Mi sarebbe bastato un cavalcavia, non una salita vera,

    per staccare Van Steenbergen e Kübler

    che invece mi batterono allo sprint.

    Fausto Coppi

    «Insomma, li hai visti i famosi condor andini?».

    «Sì, certo. Erano una ventina. Enormi, eleganti, giganti che danzavano nel vento», rispondo a George con l’espressione di chi non aspettava altra domanda da almeno un’ora.

    «Soltanto venti? Io ne avevo avvistati almeno il triplo: erano di quella specie rara di cui ora non ricordo il nome». George è la classica persona che ha sempre qualcosa di più figo da raccontarti.

    Da circa un’ora, mi ha praticamente sequestrato in un’infinita conversazione che mi sta procurando più fastidio dei continui colpi all’osso sacro provocati dalla barca in navigazione.

    L’errore è stato mio: facciamo amicizia col vicino di posto, mi ero detto poco prima mentre lasciavamo il porto di Puno, sul lato peruviano del lago Titicaca.

    «Cosa stai scrivendo su quel diario?».

    Da quel momento, George si era sentito in dovere di raccontarmi gli ultimi sei anni della sua vita, compresa una disastrosa relazione sentimentale con una tipa di nome Darlene.

    «… ma a letto era una bomba!», ripete dall’inizio del viaggio picchiettandomi ogni volta il costato in cerca di approvazione maschile.

    «Vado in bagno!», mi sottraggo a quel gesto fastidioso ed esco sul ponte della nave con la scusa perfetta.

    Tra l’altro, ho appena letto le ultime notizie dall’Italia. Marzo è iniziato molto male: il Covid-19 avanza e le zone rosse create nei primi focolai di Codogno e Vo’ sembrano non bastare a fermare il contagio. Anche per questo, voglio evitare al massimo i contatti, anche se in Perù non risultano ancora casi di questo Coronavirus.

    L’acqua del lago Titicaca è mossa e riflette la luce brillante del sole appena sorto. L’aria è frizzante ai tremilaottocento metri di questo grande mare: luogo sacro per molte popolazioni, tra cui i Quechua e gli Inca.

    « Come here, italian…», George richiama la mia attenzione con ampi gesti e io faccio un po’ lo gnorri.

    In realtà, questo allegro e prolisso signore canadese di mezz’età è un gran viaggiatore. Sta girando il Sudamerica da circa sei mesi e vorrei approfittarne per ricavare preziosi consigli.

    Sono diretto in Bolivia, dove conto di arrivare per cena, ma più avanti tornerò in Perù. Quindi mi faccio forza e mi siedo di nuovo accanto a lui, con una buona dose di consapevole masochismo: «Hai qualche consiglio da darmi su cosa vedere in questa zona al mio ritorno?».

    La domanda fa brillare gli occhi al mio compagno di viaggio che inizia un lunghissimo monologo col suo strano accento canadese. Uno slang del quale perdo sistematicamente quasi la metà dei vocaboli.

    Annoto sul diario l’esistenza di un fantomatico sentiero inca con una meravigliosa vista su Cusco. Sembra essere un luogo isolato e soprattutto privo di esseri umani come George: ci andrò!

    Il nuovo amico canadese mi mostra anche una pagina con disegnato il profilo di una piccola isola.

    «Si chiama Amantanì e ci vive una comunità indigena che parla quechua. Si tratta di una lingua precolombiana, utilizzata ancora oggi sulle isole del lato Titicaca assieme all’ aymara. Tra poco ci arriviamo…».

    Amantanì compare all’orizzonte, un paio di ore più tardi, e avvistarne il profilo mi regala la splendida opportunità di sganciarmi per la seconda volta da George.

    «Vado a vedere la tua isola», e mi dileguo abbandonandolo nel mezzo di un racconto con protagonista Charlotte, seconda moglie da cui è stato da poco mollato.

    «Chissà perché caro George?», dico a bassa voce mentre osservo un gruppo di donne radunarsi sul pontile di fronte a me. Indossano tutte lo stesso abito: una sorta di divisa che le fa assomigliare ad una classe in gita.

    Certo potrei fermarmi qui per una notte: eviterei altre ore di traversata con il mio temporaneo compagno di viaggio e, allo stesso tempo, potrei visitare quest’isola di cui tutti dicono un gran bene.

    Il tempo di afferrare lo zaino e salto giù dalla barca salutando George con un gesto quasi affettuoso, ricambiato da una serie di cose che lui cerca di dirmi mentre la barca se ne va. Parole al vento che, ovviamente, non capisco.

    Amantanì sembra un pezzo di Mediterraneo al centro delle Ande. L’acqua del lago, all’ora di pranzo, ha un colore blu intenso. Un meraviglioso contrasto con il verde acceso della vegetazione.

    È lunga pochi chilometri e non ci sono auto. Ci si muove a piedi, su sentieri che si arrampicano in alto, verso il centro dell’isola.

    Una decina di signore vengono incontro al gruppo di visitatori appena sbarcato dal piccolo traghetto. Come detto, vestono tutte in abiti tradizionali. Una lunga e ampia pollera verde, una camicia bianca, una sorta di gilè con motivi floreali, una

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