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L'Amore e la merda
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L'Amore e la merda
E-book227 pagine2 ore

L'Amore e la merda

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Pensate che L’amore e la merda era il titolo che l’autore avrebbe voluto per la pubblicazione francese edita da Gallimard ma il collega ha avuto paura (forse aveva ragione) e ha scelto Robinson il nome del bambino protagonista di questo romanzo del quotidiano, in cui il padre ci restituisce dolori, incomprensioni e gioie.

Sì, perché Robinson è autistico e non sempre il suo mondo è compreso dal mondo adulto.

Robinson che piange e strilla ma non sa dire perché.

Robinson che non sa ancora andare al bagno da solo…

Pulire una persona è un gesto di profonda intimità, di profondo amore e questa è la chiave del libro.

Potete aprire una pagina a caso e leggere, non c’è una trama. Sono momenti, emozioni, difficoltà, quadri di purezza e felicità.

Pensate che L’amore e la merda era il titolo che l’autore avrebbe voluto per la pubblicazione francese edita da Gallimard ma il collega ha avuto paura (forse aveva ragione) e ha scelto Robinson il nome del bambino protagonista di questo romanzo del quotidiano, in cui il padre ci restituisce dolori, incomprensioni e gioie.

Sì, perché Robinson è autistico e non sempre il suo mondo è compreso dal mondo adulto.

Robinson che piange e strilla ma non sa dire perché.

Robinson che non sa ancora andare al bagno da solo…

Pulire una persona è un gesto di profonda intimità, di profondo amore e questa è la chiave del libro.

Potete aprire una pagina a caso e leggere, non c’è una trama. Sono momenti, emozioni, difficoltà, quadri di purezza e felicità.

Pensate che L’amore e la merda era il titolo che l’autore avrebbe voluto per la pubblicazione francese edita da Gallimard ma il collega ha avuto paura (forse aveva ragione) e ha scelto Robinson il nome del bambino protagonista di questo romanzo del quotidiano, in cui il padre ci restituisce dolori, incomprensioni e gioie.

Sì, perché Robinson è autistico e non sempre il suo mondo è compreso dal mondo adulto.

Robinson che piange e strilla ma non sa dire perché.

Robinson che non sa ancora andare al bagno da solo…

Pulire una persona è un gesto di profonda intimità, di profondo amore e questa è la chiave del libro.

Potete aprire una pagina a caso e leggere, non c’è una trama. Sono momenti, emozioni, difficoltà, quadri di purezza e felicità.
LinguaItaliano
Data di uscita27 set 2023
ISBN9782931144244
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    Anteprima del libro

    L'Amore e la merda - Laurent Demoulin

    Titolo L'amore e la merda

    Autore Laurent Demoulin

    Traduzione dal francese Thea Rimini

    Titolo originale Robinson Édition Gallimard

    © 2022 Mincione Edizioni

    Collana Narrativa

    ISBN 978-2-931144-24-4

    Illustrazione e cover Rosa Puglisi

    www.mincionedizioni.com

    Laurent Demoulin

    L'amore e la merda

    tradotto da Thea Rimini

    Mincione Edizioni

    Ai miei tre figli

    Mon Petit Robinson, qui près de moi t’affaires,

    Robinson au travail incessant et sonore,

    Au travail insensé, sans fin et solitaire,

    Mon Robinson aux cris d’intrépide ténor,

    De pinson, de dindon, de bison, de busard,

    De vent claquant en vain ses voiles indolores,

    Mon Robinson sans mot, sans surprise et sans fard,

    Sans sermon, sans surmoi, sans projet d’avenir,

    Sans bouteille à la mort au secours du hasard,

    Mon Robinson, parfois, je ressens le désir

    De rejoindre ton île au milieu de la mer,

    À la croisée du Temps qui mêle aux souvenirs

    Un présent immobile et pourtant éphémère.

    Ai piedi del trono

    Improvvisamente Robinson comincia a piangere. La sua tristezza non è in crescendo: sembra subito profonda, o meglio, senza fondo. Niente riesce a temperarla o ad attenuarla: è un diamante di dolore smisurato. Dato che non parla, che non ha mai parlato – non una parola, non una frase –, ho pochi strumenti per capire il motivo delle sue lacrime.

    Si annoia? Pensa improvvisamente che la vita sia assurda? Ha mal di denti? Fame? Sete? È attraversato da un pensiero oscuro? È invidioso? Ansioso? Preoccupato? Torturato da un’angoscia interiore? O dall’angoscia di suo padre? Mi avvicino per prenderlo in braccio, per stringerlo a me nello stesso modo in cui mia madre consolava le mie pene tanto tempo fa, nella mia altra vita. Ma Robinson si ritrae, mi respinge: alla mia tenerezza preferisce il suo dolore greve. Rintanato in un angolo, la schiena contro il muro, lascia che la miseria del mondo si concentri in lui.

    Una rapida deduzione mi fa supporre che abbia mal di pancia. Sono due giorni che non va in bagno - sì, certo, ci è andato: ce l’ho portato diverse volte, ma non ha prodotto molto. Nessun gran risultato, come diceva mia nonna. Non ha nemmeno sporcato i pannolini che continua a portare ancora giorno e notte nonostante l’età.

    Da autistico-no, ho in un certo senso la capacità di prevedere il futuro. Grazie al linguaggio, quella quarta dimensione in cui è così doloroso entrare (perché si incontra la parola morte e la parola mai) e da cui è impossibile uscire, grazie alla doppia articolazione, ai significanti, ai significati, ai fonemi e ai monemi, ai proverbi, alla filosofia fenomenologica e alla poesia bizantina, sono capace di formulare previsioni imbattibili, come se leggessi le stelle: Chi non caga per tre giorni avrà mal di pancia e mal di testa.

    Così pensa l’autistico-no. L’autistico-sì vive invece nel presente: è disperato di fronte al dolore.

    Sistemo allora Robinson sul trono bianco. E mi siedo ai suoi piedi sia per impedirgli di scappare - se lo lasciassi solo, se ne andrebbe in giro a culo nudo causando diversi danni - sia per sostenerlo nel suo calvario, perché ha molta difficoltà a espellere gli escrementi. Nel dedicarsi a questo compito è pervaso da un terrore difficile da definire, ma così forte che aspetta sempre l’ultimo minuto per espletarlo, con il rischio di bloccarsi gli sfinteri e subire il martirio. Per questo adesso sono qui a condividere la sua intimità, gli sto il più vicino possibile, sono di fronte a lui, ma un po’ più in basso: i nostri due volti separati solo da una decina di centimetri di aria di città e luce artificiale.

    E così, seduto ai piedi di questa divinità impenetrabile, innalzo una preghiera concreta: Cacca! Cacca!. Mi accontento di questo sostantivo, non aggiungo né un verbo, né un articolo, né un complemento: anche se non parla, l’autistico-sì capisce però una parola o una frase dell’autistico-no, a patto che sia corta e in relazione con il momento. Ripeto quindi instancabilmente quelle due sillabe che risuonano come un’eco, quel vocabolo che ci arriva dal latino, dal latino volgare, certo, ma pur sempre dal latino, come la parola libertà o la parola amore; più precisamente la parola viene dal verbo cacare che ha dato in francese anche il verbo chier e che a sua volta si ricollega, etimologicamente parlando, a un antico termine indoeuropeo disperso nei meandri della Storia che ha lasciato, per esempio, qualche traccia nel verbo greco kakkan, nel russo kakat o nel tedesco kakken. Ripetendo questo sostantivo dalle nobili origini seduto a terra ai piedi di un bambino di nove anni, penso alle studentesse e agli studenti che tra qualche giorno interrogherò all’università e che avrebbero molta meno paura di me se mi vedessero in questa posizione: conoscerebbero la mia vera natura.

    La situazione rischia di durare a lungo, cerco allora di trovare una posizione comoda in quello che dovrebbe essere un luogo confortevole e mi appoggio allo stipite della porta rimasta spalancata. Perché ahimè, che sia un giovane usignolo che piange nei boschi di notte nella tempesta, che sia l’archetto d’oro, l’arpa eolica, un sospiro celeste, una sofferenza umana, qual è l’uomo che, negli accenti di una voce morente, ... Robinson interrompe la lettura appena iniziata mordendosi nervosamente l’indice destro. Il Saule di Musset tratto dal Livre d’or de la Poésie française di Pierre Seghers, che ho lasciato in bagno per ogni evenienza e che ho appena aperto, lascia allora il posto alla ripresa dell’antifona: Cacca! Cacca!.

    Sfortunatamente la mia preghiera resta inascoltata. Il piccolo dio decisamente non si degna di farmi il regalo di un bello stronzo. Almeno però si è calmato: il dolore gli concede una tregua. Lo rivesto e gli restituisco la libertà. Torna subito in camera sua, esplora metodicamente la scatola dei giocattoli, e dispone con calma intorno a sé i suoi tesori: macchinine, trapani di plastica, mattoncini da incastrare, il tubo di un aspirapolvere (un vecchio aspirapolvere che ho disossato apposta per lui).

    Un quarto d’ora dopo lo colgo in flagrante: è in piedi in una posa strana, le gambe rigide un po’ divaricate, il petto leggermente piegato in avanti. Non potendo più trattenersi, preferisce farla nel pannolino, come se volesse tenere ciò che ha prodotto il più vicino possibile al corpo. A me invece non sta bene e gli dico di nuovo: Vieni, vai a fare la cacca. E lo prendo per mano per uscire dalla stanza. Mi segue, ma prima, obbedendo a un rituale tanto misterioso quanto imperioso, mette il piede in un angolo tra il vecchio camino e un tratto di muro, come fa di solito quando deve uscire dalla camera. Lo metto di nuovo sul water. Se lo lascia fare.

    Con il pannolino abbassato, seduto sulla seggetta nera sopra il water di ceramica bianca, è uno splendore. Tranne quando una smorfia gli attraversa il viso, è sempre bello, innaturalmente bello: come un angelo, dice chi lo vede per la prima volta, stupito, sconcertato.

    Ora è proprio occupato con il suo intestino: sa che non può più rimandare e cerca di cacare (allitterazione letterale). La sua attenzione sembra concentrarsi tutta su questa mansione intima. Non dice Allora, viene?, non pensa merda o costipazione, ma ascolta il suo corpo in un modo che noi parlanti autistici-no non riusciamo a fare. È tutto lì: nel suo intestino, nei tubi a fondo cieco del suo stomaco. Eppure mi guarda dritto negli occhi. Senza secondi fini, senza mediazioni. Senza la deviazione che impone il linguaggio.

    È bellissimo.

    Pronuncio allora il suo nome dolcemente per contenere l’emozione. Robinson. Come se stesse per rispondermi papà e pronunciare per la prima volta il mio nome di padre. Cambio subito idea: parlare, anche dicendo solo una parola, anche quella parola là, Robinson, equivarrebbe ad allontanarmi da lui. Mi ritaccio e lo guardo come lui mi guarda, in silenzio. Forse mi sto illudendo. Forse i suoi occhi sono persi nel vuoto e non nei miei. Ma mi sento attraversato dal suo sguardo, trafitto, trasportato al mio luogo originario in un contatto primordiale, spersonalizzante, mitico, celeste e disarmante. Cerco di fare una cosa sola: accogliere questo sguardo, come presto l’acqua del water accoglierà con un sonoro splash il dono di una splendida cacca marrone dorato.

    Ed è un sentimento di gioia pura quella che proviamo noi due insieme in questo momento di grazia senza tempo.

    Al supermercato (I)

    Robinson oggi compie dieci anni. Mentre lo infilo nel seggiolino scarlatto del carrello del supermercato, penso: Quanti anni ancora potrò metterti in questo seggiolino, mio bel Robinson? Finisco la manovra senza intoppi, facendo attenzione a non distruggermi la schiena e a non impigliare la tasca dei suoi pantaloni nel bordo metallico di questo abitacolo che sembra ristringersi sempre di più ad ogni nostro passaggio. Quando non ci entrerà più, mi ripeto, non sarà più possibile fare la spesa insieme.

    Una volta dentro, gli tolgo il passamontagna, accarezzo i capelli dorati e gli sorrido: lui risponde illuminando il viso con una luce breve, bionda e intensa sotto quelle bianche del neon. Per prima cosa mi dirigo verso il reparto bambini. Sono fortunato: il negozio sta liquidando le eccedenze di Natale e Saint-Nicolas, quindi tutti i giocattoli sono in saldo. Una marea fredda e preoccupante mi sta lentamente salendo addosso, ma la compenso con un’ondata d’affetto. Prima di abbracciarlo, rivolgo a Robinson qualche parola dolce – che subito dimentico – e, senza prestare attenzione agli altri clienti, gli dico che può scegliere il giocattolo che vuole. Mio figlio forse non ha capito la mia lunga frase, ma tende spontaneamente le braccia verso questo o quel giocattolo mentre vado lentamente su e giù per il corridoio.

    Me lo aspettavo: mette gli occhi su un peluche musicale che sulla scatola di cartone indica con un grande 0 l’età consigliata. Sei mesi. È stato indeciso, è vero, con certi mattoncini da incastrare adatti ai tre anni.

    Quando aveva dieci anni, Hadrien, il suo fratello acquisito maggiore, ha dovuto affrontare coraggiosamente il divorzio dei genitori con parole, pianti, domande e silenzi. Ed è sempre a dieci anni che Zoé, la sorella di Hadrien, ha trovato le lacrime necessarie per capire che i nonni paterni erano morti. A quell’epoca Robinson aveva cinque anni: nessuno sa se abbia dimenticato del tutto i suoi nonni né, nel caso in cui se ne ricordasse ancora, in quale nebulosa, in quali limbi immobili, stamattina, ieri o domani abbia registrato la loro assenza.

    Oggi Robinson ha dieci anni, ma questo non vuol dire niente. E questo non dire niente, come tutti i niente, è un roditore tenace: il non tempo che passa è ancora più implacabile del tempo.

    Metto il giocattolo nel carrello e continuo la spesa. Una signora anziana e piccolina si sposta leggermente per farmi passare, distogliendosi così per un attimo dalla contemplazione di un bel barattolo di verdure in scatola, e allora le dico: Signora, la prego di scusarmi!, espressione un po’ eccessiva per i nostri tempi e a cui lei peraltro risponde con un semplice Non c’è problema. In circostanze simili, con Robinson, mi capita spesso di sentire il bisogno di essere gentile con tutti e dichiarare il mio amore all’umanità intera.

    La nostra fragile barchetta approda alla pescheria del supermercato. Il pescivendolo, un giovane che indossa degli occhialetti alla John Lennon, ha l’aria intelligente nonostante il berretto di feltro e passeggia pigramente dietro un letto di ostriche giapponesi del Pacifico, di naselli, lamprede e persici del Nilo. Ci fermiamo e ordino il salmone: una buona idea per il compleanno di Robinson che ne va matto. Mentre il pescivendolo pesa le fette, mio figlio lancia un urlo inarticolato spinto da un’intima soddisfazione o forse da uno sfogo di energia. Io e il giovane facciamo finta di non sentire. E per permettere a questo professionista iperqualificato di parlarmi di una scienza che, data l’età, deve aver appreso da poco (e quindi è piacevole divulgare perché ci piace trasmettere agli altri le conoscenze appena acquisite), gli chiedo di spiegarmi cos’è lo skrei, un pesce di cui non ho mai sentito il nome e che scopro per la prima volta sul bancone.

    Si tratta di un merluzzo del Mare di Barents.

    Ah sì, certo, il Mare di Barents...

    Sì, esatto! Nel nord della Norvegia, precisa...

    La sua soddisfazione intellettuale è così contagiosa che per provarlo compro un pezzetto di questo pesce scandinavo e mentre lo incarta gli chiedo come cucinarlo, anche se probabilmente non sarò io a casa ad occuparmene. È di nuovo contento di rispondermi e mi consiglia di friggere lo skrei con una noce di burro piuttosto che di cuocerlo in acqua. O al forno con delle verdurine.

    Mentre riprendo la mia strada attraverso gli scaffali, tra gli yogurt e i formaggi confezionati, penso di nuovo alla scelta di Robinson di qualche minuto prima. I giocattoli per neonati che lo hanno attratto si trovavano tutti in scatole aperte per tre quarti o in parte trasparenti: perché li desiderino, i bambini più piccoli devono poter vedere i giocattoli. Non appena crescono, invece, le scatole vengono chiuse (cosa che facilita il trasporto e ha un minor costo di imballaggio): il piccolo consumatore scopre il contenuto da solo grazie a una fotografia stampata sulla scatola. L’immagine stimola così il suo desiderio, forse più del giocattolo realmente esposto.

    A casa, quando Robinson apre la dispensa, riconosce facilmente la scatola che contiene i suoi biscotti preferiti perché ha un’ottima memoria: ha già visto le lingue di gatto o i denti di lupo uscire dalla confezione. Può associare due informazioni e collegarle fra loro, ma è capace di leggere una nuova immagine? Non lo so.

    Nella corsia delle bottiglie d’acqua, un uomo con la barba accuratamente tagliata, vestito troppo bene per andare al supermercato (indossa persino una cravatta blu scuro che spicca sullo sfondo

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