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Giuly per sempre: Pensieri, gioie, malinconie di una donna vissuta a cavallo di due millenni
Giuly per sempre: Pensieri, gioie, malinconie di una donna vissuta a cavallo di due millenni
Giuly per sempre: Pensieri, gioie, malinconie di una donna vissuta a cavallo di due millenni
E-book305 pagine4 ore

Giuly per sempre: Pensieri, gioie, malinconie di una donna vissuta a cavallo di due millenni

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Info su questo ebook

Questa storia, in parte autobiografica, vuole contribuire a smuovere le coscienze, pur con la delicatezza che ritenevo necessaria, affinché in questa nostra "apparentemente moderna" società possa vincere ancora l'idea di amore come donazione, complicità, condivisione, non come possesso. Il mio “Io” di artista, attraverso l'obiettivo della mia fotocamera, ha registrato quelle immagini di tenera, dolce, ma decisa sensualità, che può snodarsi lungo il racconto di una vita. Ho così cercato di esprimere quel pathos attraverso il quale gli amanti, a qualsiasi età, sanno cogliere e mostrare; quella visione “innamorata”, capace di leggere, nella bellezza esteriore, la più nascosta bellezza interiore. Raccontando il mio modo di amare Giuliana, la mia Giuly, una donna piena di sensualità, di fascino, di acuta intelligenza, io spero di aver dato il mio contributo per liberare da questa società alcuni ingiusti stereotipi. foto di copertina di Paolo Stara Serafin

L'AUTORE

Paolo Stara Serafin nasce a Bassano del Grappa (Vicenza)  nel 1948. Fotografo, naturalista, mineralogista e paleontologo. Eclettico, dotato di ampio senso artistico, attraverso un percorso di studi molto diversificato, si è laureato in Scienze Naturali e specializzato in Scienze e Tecnologie per l'Ambiente. Nel 1995 ha vinto il 1° premio al Concorso per documentari “Festival delle Arti in Sardegna” con il cortometraggio: “Le Pietre del Passato”. Ha pubblicato nel 2000 il libro di racconti "Nostalgie". Ha fondato il Museo di Storia Naturale "Aquilegia" di cui è stato Direttore per dieci anni. Ha pubblicato sei volumi sulla Mineralogia e sulla storia     delle Miniere in Sardegna. Oggi vive e opera a Capoterra (Cagliari), dove ha ripreso l'attività di autore di racconti.
LinguaItaliano
Data di uscita25 gen 2022
ISBN9791220890670
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    Anteprima del libro

    Giuly per sempre - Paolo Serafin Stara

    prefazione

    Se riuscire a vivere l’amore possiamo considerarlo un dono, raccontarlo è un atto di generosità che lo rende eterno.

    Paolo Stara, un giorno sistemando il garage riesce, forse, anche a fare ordine nel suo cuore: un cuore ferito, ma ricco di ricordi.

    Tra le tante cose conservate, scopre una borsa, che lui definisce chiusa da una vita.

    Dentro ci sono lettere d’amore.

    Scrivere una lettera è uno straordinario strumento di autoanalisi e di riflessione, ma è anche donare, raccontare e, in questo caso, tenere viva la memoria.

    Protagonista in questo romanzo è la vita vissuta dall’autore che, con grande sincerità, apre al lettore i suoi momenti più intimi, più veri: il lavoro, la quotidianità, i viaggi, l’amore.

    Ci fa anche  conoscere una donna straordinaria, vera, capace di un amore infinito, coinvolgendo ciascuno di noi in una storia importante, d’amore e di vita.

    In Giuly per sempre, ci fa capire che ha ancora senso scrivere una lettera, perché dilata il tempo e lo moltiplica, ma soprattutto, che è meraviglioso essere se stessi, spontanei e onesti raccontandosi.

    Carmen Salis

    Prologo

    Sono andato, come tante volte, per un sentiero nel parco di is Olias, su, verso le montagne, fino alla sorgente di acqua fresca dove mi disseto e mi siedo a riflettere nel lieve rumoreggiare della corrente e delle fronde dei lecci al vento. Da lassù vedo il Campidano di Cagliari, con i paesi e alcune delle spiagge che mi hanno visto crescere, gioire, soffrire, vivere.

    Al ritorno, giù in paese, lungo la via di casa, ho incontrato Laura. Mi ha abbracciato teneramente, come solo chi ti vuole bene sa fare: i visi vicini, gli sguardi persi nei ricordi. Ci siamo scambiati dei banali convenevoli, non avevo voglia di soffermarmi a lungo. Le ho porto un lieve bacio sulla guancia e ho ripreso il mio cammino raggiungendo la mia casa.

    In questi mesi sto riordinando il garage che negli anni era diventato il ripostiglio dei ricordi. Ho aperto una cartella di disegni, i miei vecchi bozzetti dell’Artistico: scoloriti, macchiati da larghe ombre fungine ma con ancora vividi i disegni a matita e carboncino delle giovani modelle di quei tempi. Ho trovato i ritratti disegnati negli ultimi anni della mia adolescenza, avevo una buona mano e un certo estro artistico, che mi ha accompagnato per tutta la vita.

    Ho aperto scatole zeppe di lettere. Le mie lettere d’amore di tanti, tanti anni fa per Ada, per Giuliana. Ho scoperto una borsa chiusa da una vita, anch’essa piena di documenti e di lettere. Lettere d’amore indirizzate a Giuliana che, forse, voleva che un giorno io leggessi.

    Quanti ricordi!

    Ho preso a leggere i suoi e i miei manoscritti, i dattiloscritti: annotazioni, pensieri, che hanno segnato il tempo della nostra esistenza.

    Capitolo I

    Giuliana

    C’eravamo conosciuti quando avevo iniziato a lavorare presso un Istituto universitario, nel lontano 1985. Giuliana, Giuly per amici e parenti, ebbe un’infanzia che, vista da fuori, potremmo definire normale per quei tempi, vissuta in una famiglia di undici figli, sorretta da una madre coraggiosa e forte. Suo padre, Dario Di Francesco, se ne era andato a causa di un infarto quand’era relativamente giovane e per lei, la mamma aveva svolto i ruoli di amica, madre e padre. Tuttavia, per Giuliana, un po’ ribelle, come si può essere in giovane età, non doveva essere sempre stato facile crescere in una famiglia numerosa, con sei sorelle, tra le quali, le più grandi prediligevano i fratellini più piccoli e tranquilli.

    Non conosco molto della sua adolescenza, del suo affacciarsi ai primi amori. Leggeva molto e, vivere nella fantasia delle storie lette in giorni interminabili, acuiva la sua sensibilità.

    Mentre ci si avvicinava al ‘68, in anni di ribellione e di emancipazione, ci si sentiva più liberi. In una piccola città provinciale com’era Cagliari, la ribellione diventava quasi personale e non era molto accettata da una società ancora bigotta e tradizionalista.

    La sua vera storia personale cominciò nel ‘67, quando ebbe una figlia da una breve ma intensa relazione con un suo compagno di studi. A quell’età aveva venticinque anni, era una bella (anche se lei non si riteneva tale) e sensibile ragazzona dallo sguardo buono e la testa fra le nuvole. Fu allora che dovette sperimentare, suo malgrado, cosa significasse avere un figlio fuori dal matrimonio in quei tempi e in quel tipo di società che pur a cavallo tra due millenni, persisteva nella propria arretratezza.

    Mentre la piccola cresceva, coccolata dalle numerose zie, Giuliana cominciò la sua attività lavorativa presso un’azienda metalmeccanica che operava nel cagliaritano, come impiegata amministrativa. Vi lavorò due soli anni, ma furono comunque terribili: era vista come un oggetto del desiderio dal capo ufficio e da altri dirigenti importanti, i quali, ai ripetuti rifiuti di sottostare alle loro attenzioni, cominciarono una vera e propria persecuzione. Ai rifiuti e a ogni minima mancanza seguivano velate minacce, telefonate fuori orario di lavoro... Fu un’esperienza tremenda che Giuliana tenne nascosta per non compromettere il posto di lavoro di Bella, sua sorella maggiore, ignara di tutto, che vi lavorava da tempo senza lamentarsi.

    Fuggì da quell’incubo quando fu assunta, dopo aver partecipato ad un concorso, presso l’ufficio di amministrazione di un istituto di Medicina presso la locale Università.

    Non si può proprio dire che la fortuna l’assistesse, dato che anche là, nel nuovo impiego, dovette combattere a lungo per essere accettata dai colleghi. La necessità di percepire uno stipendio per tirare su al meglio la piccola che nel frattempo cresceva, imponeva che ingoiasse ogni offesa, ogni risatina di scherno e ogni danno al suo lavoro, quando i suoi cosiddetti colleghi le si accanivano contro. Uno in particolare, protetto a quanto pare da un influente cardinale romano, la opprimeva.

    All’Università

    Giuliana annotava, già da quegli anni, pensieri e malinconie in fogli che poi conservava; dev’essere stato difficile lavorare fianco a fianco con uno che la riteneva l’usurpatrice di quelle che per lui erano le proprie e solo le proprie funzioni. Così lei, in un momento di disperazione, aveva scritto:

    1983

    Vorrei odiarti ma non ci riesco.

    Vorrei dimenticarti ma non ci riesco.

    Vorrei strapparmi il cuore dal petto e gettarlo alle ortiche.

    Quando penso a te, a come ti sei comportato e a come ti stai comportando, mi si rivolta lo stomaco e sento il disprezzo che sale, sale, sino a soffocarmi.

    Odio il tuo comportamento attuale, questo modo vile e subdolo di comportarti. Odio questi tuoi sotterfugi, questi pettegolezzi che mi giungono da tutte le parti e che ti rendono ai miei occhi un essere viscido da dimenticare.

    Non hai dimostrato il benché minimo rispetto per me.

    Dovrei odiarti per tutto questo e invece..."

    E invece non era capace d’odio, perché nel suo DNA si trovava scritto solo il termine opposto: amore!

    Come le era già capitato in precedenza, certi colleghi o superiori la ritenevano oggetto di conquista e di sottomissione. La sua ribellione che a quei tempi era inaccettabile all’uomo, era considerata quasi un oltraggio di lesa maestà al genere maschile. A Giuliana, però, della loro maestà non era mai importato nulla.

    Due anni dopo quell’annotazione disperata avevo preso servizio nello stesso Istituto Universitario in cui lei operava e avevo subito trovato le resistenze in parte confesse del collega anziano che riteneva di aver diritto d’intervento su tutto e tutti. Mi chiedevo, spesso, come potessero esistere persone così grette, prive di effettiva cultura, egoiste e prepotenti. Eppure, in numerosi posti pubblici che poi avrei conosciuto, incrostati da un’inutile quanto dannoso apparato burocratico, com’era a quei tempi l’Università, esistevano e ogni giorno ne avevo la prova.

    Subito il collega mi aveva messo in guardia avvertendomi che non avrei dovuto fare nulla di più di quanto non mi competesse e, se possibile, non avrei dovuto fare neanche quello.

    Per chi, come me, aveva in precedenza operato in diverse realtà aziendali private, questa imposizione pareva un’idiozia, quindi mi comportai di conseguenza. Così egli trovò in me un valido avversario, per cui, pian piano, si convinse che sarebbe stato meglio evitarmi accuratamente. Ciò lo spingeva, però, a prendersela ancora di più, con dispetti, ripicche e sberleffi, con Giuliana, che non sapeva reagire in modo sufficientemente forte e cattivo, soccombendo e avvilendosi. In quell’assurda situazione, divenni un sicuro alleato per lei, tanto che diventammo buoni colleghi e ci avviammo a diventare anche buoni amici.

    E lei, come sempre faceva, annotava nel suo block notes:

    1985

    Aver voglia di esplodere, e non poterlo fare!

    Aver voglia di sbattere, pestare, urlare e non poterlo fare!

    Aver voglia di piangere e non riuscire a farlo!

    Aver voglia di dormire, non pensare, morire e non poterlo fare!

    E i giorni passano così, in una cortina nebbiosa che non si dirada, in una cortina che, anzi, diventa sempre più cupa e nera e densa.

    E cercare di sgombrare la mente e cercare di capire, di ragionare e di sdrammatizzare.

    E cercare di non vedere in tutte le più piccole contrarietà, con una specie di morboso compiacimento, un motivo di adombramento e di seccatura.

    E non pensare, soprattutto, che il mio collega mi vede come il fumo negli occhi e che si comporti di conseguenza.

    E, soprattutto, non considerare importanti certi atteggiamenti di Matteo nei miei confronti. E, ancora, non sperare nella sua attenzione: non sperare che mi trovi gradevole e che me lo dica o almeno me lo faccia capire. Mi sento persa, mi sento in balia di sentimenti contrastanti che mi fanno male. Ho paura di me, di quello che provo, della rabbia, dell’impotenza; ho paura che il groppo che staziona quasi continuamente dentro il mio petto, sotto la gola, possa un giorno farmi esplodere e provocare un’inarrestabile flusso di dolore che mi accecherà e porterà la mia mente lontano, in un mondo fatto di nebbie nel quale, fatalmente, mi perderò.

    E allora non esisterò più! La mia mente vagherà e vagherà e anche se in qualche istante la ragione, risvegliata, cercherà di farmi recuperare memorie e tempi oscuri, sarà tutto inutile perché non riuscirò più a tornare me stessa. Forse sembrerà una esagerazione la mia; forse, come mio solito, rendo terribilmente importanti fatti ed avvenimenti che non lo sono per niente. Forse la mia voglia di essere sempre al centro dell’attenzione e, soprattutto accettata, sta raggiungendo livelli esagerati.

    E a proposito di me annotava: "Il mio nuovo collega si chiama Matteo, ma ho capito subito che si tratta di un’altra stoffa. Si era presentato una mattina mandato dalla sede centrale, senza (come capitava spesso) che ci comunicassero prima alcunché. Lui è una persona gentile, educata, colta, doveva fare il fotografo ed il grafico ed è stato subito simpatico al nostro Direttore e, perché no, anche a me. I primi periodi in cui il suo ruolo all’interno dell’equipe, che operava nel nostro istituto, costituita da medici, tecnici, studenti e da noi impiegati, gli lasciava molto tempo libero e quando il mio lavoro ce lo consentiva, veniva da me a chiacchierare, approfondendo la nostra conoscenza. Anche se per me era un ragazzino, il suo fare, la sua presenza, le sue storie, mi incuriosivano e mi piacevano".

    La mia collega bionda

    In effetti, uno dei lati piacevoli del mio lavoro era il tempo libero che in certi periodi dell’anno mi lasciava; tempo che io qualche volta occupavo con Giuliana. Chiacchierare con lei dava sfogo al disagio che nel corso degli anni era andato aumentando nella mia vita. Lei pareva ascoltarmi con così tanto piacere che col trascorrere del tempo mi divenne naturale confidarle ogni cosa. Mi lasciavo trasportare dal piacere della sua vicinanza, così le raccontavo fatti e ricordi della mia infanzia, della mia gioventù, dei primi anni vissuti nell’Isola, del loro intenso sapore d’Africa, dell’indelebile impronta che lasciarono nella mia mente. Mi ascoltava prima con attenzione, poi con sempre maggiore affetto e trovò in me un valido quanto insperato sostegno nella situazione conflittuale col collega nel quale si era, suo malgrado, venuta a trovare.

    Con il passare dei mesi, poi, cominciai a sentire una certa attrazione, una curiosità sempre più forte per lei, tanto che per stare un poco di più insieme, quando il mio lavoro me lo consentiva, la invitavo ad una pausa caffè, oppure trovavo una scusa per soffermarmi presso il suo ufficio qualche minuto ancora.

    Anche lei mi raccontava della sua vita attuale, delle sue sorelle, delle sue passioni, come quella per la lettura, per l’opera lirica, o per il mare. Non parlava volentieri, se non sollecitata, e comunque con un po’ di ritrosia, delle sue relazioni, delle sue amicizie, che io avrei trovato ovvie e normali per una persona della sua età, lasciando talvolta intendere di essere libera. D’altra parte, io ero sposato e avevo due figlie, quindi non potevo certo chiedere più che un’amicizia e offrire più che un sostegno.

    Anche se in modo molto frammentario, un poco imbarazzato, forse per la paura di sentire giudizi sulla sua vita trascorsa e su quella presente, Giuliana ogni tanto mi accennava della sua figlia, Gaia, a cui aveva dedicato, sempre, lungo gli anni della sua crescita, ogni momento della propria vita.

    I mesi passavano e per me l’amicizia cominciò, giorno dopo giorno, ad assumere un calore che sapeva più di altri sentimenti. Il malessere esistenziale che mi stringeva come in una morsa, stimolandomi a cercare nuovi affetti, mi spingeva con maggior forza verso di lei che, d’altra parte, pareva accettare che io entrassi nella sua vita. Così cominciò ad acconsentire che io le telefonassi fuori dall’orario di lavoro e che le lunghe chiacchierate si protraessero oltremodo, fino a creare aspettative che lei, e lo faceva capire, non si sentiva di appagare.

    Io ero un giovane che si avviava alla quarantina, ma fino a poco tempo prima mi sentivo già troppo maturo - non vecchio - questo no, ma troppo maturo per la mia età anagrafica. Avevo trentasette anni e Giuliana ne aveva quarantaquattro, non dimostrandoli. Anzi, quando ci trovavamo insieme e il cuore le si allargava, pieno di gioia, pareva molto più giovane di me.

    Neanche io avevo avuto una vita facile, soprattutto gli anni dell’adolescenza non erano stati molto felici. La sfortuna e la povertà che aveva attanagliato la mia famiglia per molti, troppi, anni, non mi aveva consentito un corso di studi regolari e mi aveva costretto a interromperli precocemente per lavorare. Non che non avessi potuto sperimentare la vita, ma avevo dovuto maturare prima del tempo, obbligandomi a lasciare molti dei miei sogni nel cassetto.

    Avevo conosciuto Ada, quella che sarebbe diventata la mia futura moglie, una giovane piccolina ma molto carina, quando non avevo neanche diciotto anni e lei ne aveva appena sedici. Anche la condizione familiare della mia fidanzatina non era delle migliori, e le due sfortune si incontrarono e si supportarono, facendo sì che l’amicizia si trasformasse ben presto in affetto e poi in amore. Un amore sereno e mite, che ci avrebbe accompagnati per molti anni. Da quell’unione nacquero due belle bimbe, che parevano coronare e dare un senso profondo alle nostre vite. Ma i sogni messi nel cassetto, qualche difficoltà economica, avevano aperto una falla in quell’apparente perfezione, accentuando le crescenti difficoltà che si creavano col trascorrere del tempo.

    Era così trascorso un anno e l’amicizia per Giuliana, per me, si stava trasformando in amore. Un amore tormentato dall’idea che lei non volesse o potesse corrispondermi. Così le avevo scritto alcune lettere, confessandole il mio sentimento. E nonostante apparentemente Giuliana non mostrasse un reale interesse verso di me, annotava i pensieri nel suo quaderno segreto. Spesso lo faceva in terza persona, come se volesse scrivere una storia che un giorno avrebbe pubblicato.

    Aspettando con ansia una telefonata, un invito a prendere un caffè. Arrivava poi la telefonata che la riempiva di gioiosa aspettativa. Uscivano dai rispettivi posti di lavoro, si incontravano, andavano al bar, chiacchieravano e poi tornavano in ufficio. Andava tutto bene, no? Ma, allora, perché sentiva affiorare un senso di sottile delusione? Perché, quando uscivano si aspettava che lui le dicesse qualcosa di carino, un complimento qualsiasi che avrebbe accettato con gioia e gratitudine? Perché lui non riusciva a capire che lei, in particolare, aveva bisogno, ogni tanto, non sempre, di una frase che la tirasse un po’ su di morale. Perché non si accorgeva che il suo morale, ultimamente, era sempre a terra. Perché non vedeva la sua insoddisfazione, la sua tristezza, la sua malinconia..."

    Ovviamente io avevo paura di avvicinarmi troppo e soffrire davanti a un’eventuale retromarcia di lei. Perché spesso mi pareva fredda e lontana. Inoltre, a tormentarmi, erano le mezze frasi che mormorava, su un suo spasimante che le scriveva lettere d’amore dall’estero e che ogni tanto lei incontrava, quando lui soggiornava in città.

    Anche in quell’estate ognuno di noi era andato in vacanza con la propria famiglia, e io, dopo aver trascorso un apparentemente lunghissimo mese lontano da lei, alla fine di quell’agosto le scrissi ancora in modo accorato, pensando di farlo per l’ultima volta.

    Cara Giuliana,

    Ti scrivo quest’ultima volta pregandoti di accettare questa lettera come lo sfogo di un amico che non sa a chi altri rivolgersi in questo momento.

    Puoi, già da adesso, strapparla, oppure leggerla e burlarti di me, ciò dipende dal grado di amicizia che senti nei miei confronti (credo poco), oppure puoi leggerla per quello che vuole essere: uno sfogo, una confidenza a un’amica.

    Avrei voluto dirti queste cose a viva voce anche dietro quel freddo che ci separa, ma mi è mancata l’occasione. In fondo io ho sempre meno coraggio di chiederti appuntamenti di fronte ai tuoi forse oppure vedremo. Sapessi quante volte ho messo mano al telefono e quante volte ho riabbassato la cornetta.

    Ho sempre capito, sai, che nei miei confronti non c’è mai stato un centesimo dell’amore che io sto provando per te. Tuttavia ho sperato, sempre più fievolmente, che succedesse qualcosa nel tuo cuore e avevo giurato di obbligarmi a dimenticarti. Ma purtroppo, mentre la mia testa sfornava giustificazioni, il mio cuore le respingeva.

    La lettera proseguiva, anche in modo crudo, sfornando paragoni con storie romanzate e finiva con una constatazione:

    Ora, cara amica mia, mi sento più leggero e tutta questa storia che mi è passata davanti, mi lascia comunque contento. Contento di essermi accorto che il mio cuore palpita ancora. Oh, se palpita!

    Capitolo II

    Autunno 1987

    Era trascorso un anno da quando avevo scritto quella lettera, il cui contenuto aveva colpito e sconcertato Giuliana per la sua cruda sincerità, e io, non riuscendo più a sopportare le gelosie e i litigi con mia moglie e i pianti che ne conseguivano, mi ero separato dopo numerosi e ripetuti tentativi di riconciliazione. Avevo lasciato la mia casa per accettare ospitalità da mia sorella Susanna che abitava a Monastir, un paesino non distante dal mio.

    Era arrivato l’inverno, un inverno più lungo di molti altri e senza vento, fatto di brume mattutine vinte da una pioggerella persistente e noiosa. Anche il lavoro, in quella triste stagione, solo raramente riusciva a darmi giornate un poco interessanti.

    Un giorno, uscendo dall’Istituto, col pensiero rivolto alle difficoltà di trovare nuovi affetti che sostituissero quelli persi e quelli desiderati, camminando con passo svelto tra la gente distratta, incontrai Giuliana. La salutai, passando oltre velocemente, ma la sua voce mi raggiunse vivace.

    Vuoi un passaggio? Piove, vieni sotto l’ombrello! accolsi l’invito dopo un attimo d’incertezza. Camminammo in fretta, nel mio cuore riprese il tumulto che avevo un poco dimenticato, così, in prossimità dell’automobile mi ritrovai a chiederle un appuntamento. Perché non ci vediamo una di queste sere? dissi, poi aggiunsi: Così, da amici, beninteso. Mentivo, ma ne sorrisi, lei stette in silenzio finché, seduta dentro la sua automobile, non s’affacciò un poco dal finestrino per rispondere, sorridendo con espressione maliziosa. Perché no? Chissà. Ne possiamo riparlare.

    Partì. Seguendola con lo sguardo mi parve di vederle, disegnato in viso, un largo sorriso complice mentre la pioggia, prima fastidiosa, pareva essere diventata leggera posandosi piano sulla fronte, sulle spalle, amichevolmente.

    Ci vedemmo una sera, sul tardi, il buio ci accompagnò fino in riva al mare, dove ci fermammo ad ascoltare le voci della risacca e dei nostri cuori. Le cose banali, quelle di tutti i giorni, nei nostri discorsi parvero assumere un’importanza insolita e mi accorsi così, in sua compagnia, che la mia tristezza svaniva, lasciando una gioia intensa, disturbata solo un poco dalla realtà.

    Da allora gli incontri si ripeterono, non frequenti ma desiderati e piacevoli, e all’inizio del nuovo anno, in una sera di quel lungo inverno piovoso, mi ritrovai ancora una volta nel solito posto vicino al mare, sulla collina di Sant’Elia, appartato con lei.

    Nel tepore che s’era formato dentro l’abitacolo dell’automobile, il mio desiderio si trasformò in eccitazione furiosa, mentre il senso d’intimità e di estraneità alle cose del mondo che parevano scomparire dietro i vetri appannati, s’accentuò col ritmo del tamburellare della pioggia sulla lamiera. Ci accostammo quanto possibile: gli occhi sugli occhi, le labbra vicine e un calore improvviso ci prese, a partire dall’anima, quando le trasmisi la mia eccitazione furiosa. In quell’impellenza che ormai ci assaliva entrambi e nonostante lei cercasse di ritrarsi con sempre minor forza, la coprii di baci, di carezze, di parole dolci, finché, al culmine dell’ardimento, mi parve d’avvertire l’alito di una presenza inopportuna accanto a noi, e nella mia mente formarsi il ricordo degli occhi scuri di Ada: quello sguardo che m’aveva rapito in circostanze che credevo lontane e che ora invece parevano presenti, e l’effetto fu terribile. Sentii ogni forza svanire dentro di me e le pulsioni, che mi avevano sostenuto fino allora, si allentarono come per una magia beffarda. Mi sentii morire e mi ritrassi. Lei mi accarezzò, coprendomi e cercò di rasserenarmi con parole di consolazione.

    Tuttavia, nonostante i miei sforzi, l’immagine di Ada persisteva beffarda.

    E di nuovo Giuliana parve farsi dura e tagliente, Comunque, soggiunse, dopo un breve silenzio imbarazzato, credo che sia meglio che non c’incontriamo più. La situazione ci sta sfuggendo di mano, ed è meglio lasciar perdere, prima che non possiamo più tornare indietro. Soprattutto tu, ti stai complicando l’esistenza".

    La pioggia pareva scrosciare con maggior vigore, rendendo difficile la comprensione dei nostri impacciati discorsi. La riaccompagnai e poi, lungo la via del ritorno, la disperazione mi assalì. Mi maledii, piangendo di rabbia, e le lacrime si aggiunsero alla pioggia che scrosciava finché, davanti a me, la strada non scomparve.

    L’incidente fu terribile e l’automobile rimase completamente distrutta. Nonostante ciò io ne uscii miracolosamente indenne, ma con la convinzione di aver subito un meritato avviso di ciò che mi sarebbe potuto succedere.

    Così, con l’idea di dover espiare le mie colpe, il tempo era trascorso, tra lavoro e altri interessi che cercavo di coltivare per riempire i giorni vuoti che mi si succedevano. E benché timidamente, i rapporti con Giuliana si erano ristabiliti, più cauti, meno frequenti, ma erano proseguiti, anche se in me tanta, troppa, incertezza ancora permaneva.

    Barbara

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