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Verso il mistero
Verso il mistero
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E-book208 pagine2 ore

Verso il mistero

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Info su questo ebook

Valentina è un giovane medico che un giorno trova il marito tra i pazienti in cura. Carlotta sospetta di avere un "sesto senso" che negli anni l'ha portata a saper reagire con prontezza a una serie di tragedie familiari. Giulia vuole salvare il nipote dal manicomio dove una matrigna avida e senza scrupoli lo ha fatto ricoverare. Dotate di una sensibilità fuori dall'ordinario che permette di percepire l'occulto e il paranormale, le donne protagoniste di questi racconti finiranno al centro di eventi inspiegabili in cui i confini tra incubo e realtà si faranno sempre più sfumati. -
LinguaItaliano
Data di uscita23 feb 2022
ISBN9788728151433
Verso il mistero

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    Anteprima del libro

    Verso il mistero - Virginia Tedeschi Treves

    Verso il mistero

    Translated by

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1905, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728151433

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    Una tragedia in un cervello.

    I.

    Valentina seduta accanto alla finestra era immersa nella lettura della Nevrosi e neurastenia del professor De Giovanni.

    Era laureata da un anno in medicina e amava la scienza coll’ardore della giovinezza, colla fede d’un credente. S’era dedicata alla specialità delle malattie del sistema nervoso, e studiava indefessamente coll’entusiasmo di un neofita.

    Fu scossa dalla voce della madre, la signora Paola Verganti, che le disse:

    — Valentina, ti prego, lascia per dieci minuti i tuoi libracci, e ascoltami.

    — Parla, mamma, — rispose Valentina chiudendo il libro.

    — Dà retta a me, — riprese la signora Verganti, — rinuncia al tuo matrimonio. Quando ti ho concesso di frequentare l’Università, lottando coi pregiudizi degli amici, fu per farti forte e capace di vivere anche senza maritarti, ed ecco che la tua scienza non serve che a renderti indipendente da me, e a farti scegliere uno sposo che non mi persuade.

    — Mamma, tu non sei ragionevole, io non ti riconosco più, non mi sembri più la donna superiore che mi permise di dedicarmi a studii severi e virili. Perchè vorresti togliermi ora quell’indipendenza di volontà che tu stessa m’hai insegnato ad apprezzare? È vero; la mia scienza avrebbe potuto consolarmi della mancanza della famiglia, e non avrei pensato a scegliermi un marito, nè accettato il primo venuto, se il caso non mi avesse fatto conoscere l’ingegnere Lodovico Arcelli. È un uomo superiore, ricco, simpatico, intelligente, e lo amo con tutta l’anima mia.

    — Tu che hai studiato medicina, sai meglio di me a qual pericolo ti esponi, — disse la signora Verganti, — tu sai bene che Lodovico è pazzo.

    — Mamma, non è vero, e mi meraviglio che tu raccolga questa vile calunnia dei suoi nemici. Una mente così equilibrata, che scioglie i problemi di matematica più difficili, che ora sta studiando un metodo nuovo e semplice per trasportare la energia a grandi distanze, via: non è possibile! Io, vedi, ho frequentato le case dove regna la pazzia e credo di saperne qualche cosa; se Lodovico è pazzo, lo siamo tutti!

    — Allora è ammalato, — soggiunse la signora Verganti; — hai udito quello che hanno detto di lui i tuoi colleghi; m’hanno fatta la descrizione di quel suo male misterioso, terribile, che fa tremare i più forti, pensa a quello che fai.

    — Io non ho paura.

    — Almeno, Valentina, fallo per la mia tranquillità, rinuncia a questo matrimonio.

    — No, mamma, sono decisa, e tu non inquietarti inutilmente, mostrati forte, come quando il babbo partiva per andare alla guerra, che lo salutavi colla faccia sorridente, per non togliergli il coraggio, e pure avevi il pianto nel cuore; io mi sento oiglia del colonnello Verganti e non tremo. Mamma, su allegra; ti assicuro che non ci saranno nè morti, nè feriti, ed ora non parliamone più.

    Riprese il libro, ma il suo pensiero era molto lontano. Pensava alla decisione presa, all’uomo al quale era alla vigilia di legarsi indissolubilmente, contro il consiglio delle amiche, della madre, di tutti! Infatti una malattia incomprensibile, fatale, tramutava il più compito degli uomini in una belva furibonda; quel male lo coglieva sempre alla medesima ora, poi si dileguava improvvisamente senza lasciare alcuna traccia. I medici non erano riusciti a spiegarlo e nemmeno a dargli un nome. Chi diceva trattarsi di sonnambulismo, chi di epilessia, ma non sapevano nulla di preciso; avevano tentato molte cure, fra le altre, l’idroterapia, l’ipnotismo, l’elettricità; tutto inutilmente.

    Valentina conobbe l’ingegnere Arcelli quando faceva la cura elettrica nel gabinetto del suo professore. Sentì subito una viva simpatia pel giovine, e un forte desiderio di studiare quel male misterioso e tentarne la guarigione.

    Egli non ignorava il suo male, e ciò lo rendeva malinconico, avvilito, quasi umiliato; parlava poco, viveva solitario, tutto immerso negli studii, che avevano già fatto conoscere il suo nome nel mondo; era alto, pallido, aveva la voce melodiosa, i modi signorili, e un’espressione di dolcezza diffusa intorno agli occhi stanchi che lo rendeva simpatico.

    Valentina lo vide la prima volta seduto, isolato sulla poltrona elettrica, mentre il professore, toccandolo coll’elettroforo, faceva scattare scintille da tutto il suo corpo, ed essa era incaricata di regolare l’intensità della corrente.

    Pei primi giorni si scambiarono poche parole, poi la giovane medichessa gli chiese del suo male, tentò d’infondergli qualche speranza di guarigione.

    — È terribile, — egli diceva, — è come una morsa di ferro che mi soffoca e mi strazia, un incubo da cui non posso liberarmi. Sono molto ammalato. — E crollava il capo come chi non ha più speranza.

    Valentina incominciò a provare per lui una gran compassione, volle visitarlo minutamente e lo assicurò che nessuna lesione aveva nell’organismo, e si convinse che il male era legato a quei fili misteriosi che si chiamano nervi e che sarebbe guarito.

    Le parole della fanciulla erano per lui una musica soave che più della corrente elettrica faceva vibrare tutto il suo essere, e il pensiero che finita la cura non l’avrebbe più riveduta, era per lui altrettanto spaventoso, quanto l’idea della sua malattia.

    Valentina, senza essere una bellezza perfetta, era molto piacente, aveva il viso aperto, gli occhi vivi, intelligenti e un’aria di bontà e di energia in tutta la persona che la rendeva affascinante. Essa leggeva nel cuore di Lodovico come in un libro aperto, sentiva la di lui ammirazione crescente e aspettava che le rivelasse il suo amore. Egli sospirava, si faceva sempre più triste, ma non aveva coraggio di parlare.

    Solo un giorno egli disse che ogni gioia gli era negata, anche la speranza di formarsi una famiglia, perchè nessuna donna avrebbe voluto dividere la sua triste sorte.

    — Dite delle sciocchezze, — gli aveva risposto Valentina, — ne volete una prova? Io sarei pronta ad essere la vostra compagna.

    Il pallido volto del giovane s’illuminò a quelle parole, ebbe un lampo di gioia, poi crollò il capo, e porgendole la mano disse:

    — Grazie, le vostre parole m’hanno fatto un gran bene, ma è un sogno che non può realizzarsi.

    — Perchè? Vi amo, ammiro il vostro ingegno; se avete per me un po’ di simpatia, perchè non si dovrebbe unire la nostra sorte e tentare di essere felici?

    — Ma la mia malattia non vi spaventa? Non mi maledirete di rattristare la vostra fiorente giovinezza, collo spettacolo del mio male? Voi non conoscete l’orrore delle mie notti, gli spasimi del mio corpo straziato, i sussulti del mio cervello infermo, non datemi un’illusione fallace, una speranza che non potrà realizzarsi; pensateci. Valentina, voi siete bella, sorridente, siete nata per la gioia e non per unire la vostra sorte a quella di un uomo che ignora per qual colpa è stato maledetto dal cielo.

    — Non dite così che mi fate pena, — rispose Valentina, — mi sono dedicata all’umanità, sofferente, ho frugato nelle viscere dei cadaveri per scoprire il segreto della vita; anch’io, perchè ho fatto quello che poche donne hanno il coraggio di fare, in molti ispiro la ripugnanza, il ribrezzo. Veramente volevo dedicarmi soltanto alla scienza, ma vi ho conosciuto, vi amo, e mi offro a voi.

    — Voi siete un angelo, e mi è impossibile rifiutare il vostro dono generoso, — rispose Lodovico, — l’accetto come se mi venisse dal cielo e giuro che tutto tenterò per rendervi felice.

    — Come amerei la mia scienza se potessi darvi qualche sollievo! — esclamò Valentina.

    Lodovico crollò il capo come un incredulo, e disse:

    — Non è più il tempo dei miracoli; è vero, voi sapete molte cose, ma non potrete riuscire dove non sono riusciti i migliori medici. Temo d’esser condannato per tutta la vita ed ora ne sono più addolorato per voi, che mi sarete compagna.

    — Forse la scienza sarà più potente unita all’amore, ed ho la fede e la speranza.

    Lodovico era commosso, gli mancava la voce, ma da quel momento sentì che non avrebbe più potuto vivere senza Valentina.

    II.

    Un bellissimo sole d’aprile illuminava la città di Torino, e l’aria, piena di profumi nuovi, avvolgeva uomini e cose.

    Gli sposi, ritornati appena dal municipio, erano circondati dai parenti e dagli amici.

    Il convegno era tutt’altro che lieto. Pareva un funerale, la preoccupazione della malattia dello sposo stava nel pensiero di tutti.

    La signora Verganti tratteneva a stento le lagrime e si sentiva tanto triste, come non era stata mai, nemmeno il giorno in cui suo marito era partito per la guerra d’Africa, dove aveva trovato la morte. Lodovico sorrideva, ma si mostrava preoccupato. Valentina soltanto era allegra, raggiante, e si sforzava d’infondere in tutti il suo coraggio e la sua gioia.

    Essa sorrideva allo sposo e abbracciava la madre rassicurandola.

    Tutto sarebbe andato bene, diceva. Anche la natura in festa e il sole che entrava dalle finestre aperte rallegrava la casa piena di fiori e d’amici.

    Fu un momento solenne, quando vennero a dire che la carrozza attendeva gli sposi per condurli alla villa che Lodovico possedeva nei dintorni di Torino e doveva ospitarli in quei primi giorni del matrimonio.

    Valentina si staccò con uno sforzo dalle braccia di sua madre, che non avrebbe voluto lasciarla partire, salutò gli amici, e discese in fretta le scale seguita da Lodovico.

    Finalmente erano soli.

    La carrozza correva per le strade lunghe, dritte, popolate da una folla allegra, uscita per respirare la brezza della primavera nascente. Correva pei lunghi viali fiancheggiati dagli alberi che si vestivano di foglie novelle, avanti avanti per l’aperta campagna, salendo sui poggi che ridevano davanti al nuovo sole. Gli sposi si tenevano per mano in silenzio: si sentivano vivere e pensare, come sentivano il battito dei loro cuori che la gioia rendeva più rapido.

    Egli temeva che la sua felicità si dileguasse come in un sogno, e che l’amore di Valentina non avrebbe potuto resistere quando avesse assistito ad una delle crisi del suo male; tremava pensando a quello che gli preparava l’indomani e la stringeva a sè fortemente come per impedire che gli sfuggisse.

    Essa indovinava il pensiero di Lodovico, ma non temeva nulla, era sicura di sè stessa e del suo amore. Quasi desiderava affrontare la realtà di quel male sconosciuto, per conoscerlo e tentarne la guarigione; voleva studiarlo con tutta la forza della sua mente, colla divinazione del suo cuore innamorato, e forse sperava di comprendere quello che agli altri era rimasto incomprensibile.

    Sapeva quel male misterioso appartenere al genere di malattie alle quali essa specialmente si era dedicata; e il poter studiare il soggetto, sempre, tutti i giorni, con intelletto ed amore, le dava la speranza di riuscire.

    Già la sua fantasia andava andava, come la carrozza che correva per l’aperta campagna, e si vedeva felice e vittoriosa. Furono distolti dai loro pensieri dalla scossa della carrozza che si fermò davanti alla villa.

    Scesero in fretta sorridendo e, stanchi pel lungo silenzio, ripresero la conversazione interrotta.

    Il sole volgeva al tramonto e tingeva d’una tinta rosea le montagne ancora coperte di neve.

    La casa bianca risaltava sopra uno sfondo verde-cupo, formato da un bosco di abeti; i rododendri in fiore mettevano una nota gaia sul verde.

    — Quanto è bello! — esclamò Valentina. — Come saremo felici in questo nido!

    — Ti piace? — chiese Lodovico col volto illuminato dalla gioia.

    — Ma è un incanto!… E come hai pensato a tutto; sei un vero mago. Fino la tavola preparata, e un bel fuoco nel caminetto. E quante belle rose! Eppure non siamo ancora di maggio; e queste violette! Che profumo!

    E sì dicendo si chinò ad odorare un bel mazzo di viole poste in un canestro sopra un tavolino.

    Lodovico ordinò ai domestici di servire il pranzo; la lunga corsa e le emozioni della giornata gli avevano eccitato l’appetito; poi, rivolto alla moglie, soggiunse:

    — Cara la mia dottoressa, mi pare che si potrebbe mettersi a tavola; dopo pranzo avrai tutto il tempo per ammirare la tua villa.

    — Nostra, vuoi dire.

    — No, sei tu la padrona, te ne faccio un dono; spero che non mi negherai l’ospitalità.

    Valentina si mise a ridere.

    — Hai voglia di scherzare, — disse.

    — Parlo seriamente; sono lieto di cederti lo scettro; da domani la padrona sarai tu, ed io sarò tuo schiavo.

    E chiacchierando allegramente si sedettero a tavola dove venne loro servito un buon pranzo, e gustarono per la prima volta il piacere di trovarsi soli, lontani dal mondo, seduti alla stessa mensa, avendo nel loro cervello pensieri spumeggianti come il vino di cui erano piene le coppe di cristallo.

    Dopo il pranzo, Valentina volle continuare il suo viaggio di scoperta e girare per la villa, divertendosi a toccare i ninnoli sparsi sulle mensole, ad osservare i mobili, i quadri, i tappeti.

    Nel piano superiore v’erano le camere da letto, una coi parati rosei per lei e l’altra più cupa e severa per Lodovico; accanto una sala spaziosa contornata da biblioteche piene di volumi.

    — Hai proprio pensato a tutto, — disse Valentina, avvicinandosi alle biblioteche per osservare i volumi ben rilegati. — Da una parte i libri di matematica per te, dall’altra quelli di medicina e di scienze naturali per me; mi par di ritrovare i miei amici, eccoli tutti schierati: Biswanger, La neurastenia; Beard, Una malattia nuova; La neurastenia di Arndt; come sono difficili questi nomi russi! E che belle ore passeremo a studiare qui tutti e due, tu da una parte ed io dall’altra! Perchè da sposi moderni, da personaggi del secolo ventesimo, non ci si potrebbe contentare di star tutto il giorno a guardarci negli occhi ed a filare l’amore perfetto. Noi abbiamo bisogno anche del cibo dello spirito, e così il nostro amore non passerà come una meteora fuggente, ma durerà sempre, non è vero?

    — Ne ho speranza, dipende da te, — disse Lodovico, sedendosi sopra un divano accanto a Valentina.

    — Non temere, — rispose questa, — sono sicura di me stessa, i miei sentimenti non muteranno; ma, perchè ora una nube è passata nella tua mente?

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