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La Madonna dei sette dolori
La Madonna dei sette dolori
La Madonna dei sette dolori
E-book179 pagine2 ore

La Madonna dei sette dolori

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Info su questo ebook

Suor Raffaella si trova al capezzale di Maria Fraela, esanime nel proprio letto, con lo sguardo perso fuori dalla finestra e il corpo scosso dai tremori. Ha inizio così tra le due donne un percorso di introspezione, un lento scoprirsi e raccontarsi a vicenda accompagnato dalla consapevolezza che il dolore, a volte, è tutto ciò che rimane della felicità. -
LinguaItaliano
Data di uscita19 set 2022
ISBN9788728309827
La Madonna dei sette dolori

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    Anteprima del libro

    La Madonna dei sette dolori - Mario Mariani

    La Madonna dei sette dolori

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1926, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728309827

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    I.

    LA CONDANNA

    Maria Fraele dal suo letto di pena guardava fuor dei finestroni, estatica.

    Era una mattina di marzo, limpida. Il sole era fresco e vibrante sul cielo di cristallo blù. Ai limiti dell’orizzonte, il turchino del cielo era ragnato da convolvoli d’ovatta leggeri e volubili. I prati a novale eran verdi d’un verdolino tenero, gialliccio, biancastro, avvivato dagli strilli candidi delle margheritine e aurei delle primule.

    Gli alberelli avevan sui rametti, ancora un po’ intirizziti, in luogo di foglie, fiori: fiocchi rosati, scarlatti, bianchi.

    Nella corsia dell’ospedale il sole stendeva una grande stola di calomelano.

    Un asolo di vento veniva di fuori, profumato con tutti i profumi della primavera, a cacciare l’odore acre del cloro.

    Suor Raffaella tolse il termometro alla paziente, lo guardò:

    — Vedete… soltanto trentasette e sette… va meglio… e poi… adesso viene la primavera… Oggi fa bello…

    — Per gli altri, suor Raffaella; non per me. Voi tentate invano d’illudermi… Voi e il dottor Ottonieri. La vostra pietà, la vostra bontà non riesce a ingannarmi. Io so che debbo morire. Ma poi, suor Raffaella, io non desidero illudermi. Io non vorrei guarire. Una cosa soltanto mi fa paura: la sofferenza… Dio! Dio! Dio! Patire. Patire tanto. Patire ancora. Questo è terribile, suor Raffaella. Ma morire?! Che cosa volete che sia per me, che muoio da dieci anni, morire? Una liberazione. Io aspetto la pace dell’agonia come la pace del paradiso. Guarire?! Tornare nella vita, tornare all’inferno?! Io non desidero questo, suor Raffaella.

    Quel che mi conforta a sopportare l’atrocità dei miei mali è la sicurezza della mia prossima fine, della mia prossima liberazione, il sapere che l’inferno è chiuso per sempre dietro me: con tutti i suoi dolori e tutti i suoi terrori.

    Io m’addormento ogni sera con la secreta speranza di non risvegliarmi mai più. E per questa secreta speranza mi sento pervasa da un sentimento di bontà, di calma, di serenità. Mi sento leggera, leggera! Mi sembra di volare con ali invisibili, di andare, traverso tenui scenarî di profumi, su strade di stelle e d’ascoltare, andando, note lunghe, tenute di violini in sordina…

    — Povera figliuola! Quello che dite sembra il presentimento del paradiso…

    — Io non spero nel paradiso, suor Raffaella; è soltanto il presentimento della morte, ma la morte è il solo paradiso concesso a noi disgraziate…

    — Non disperate, Maria, non disperate…

    — Lo so, lo so, suor Raffaella, che la misericordia di Dio è infinita, ma mi manca ancora la fede… —

    Suor Raffaella, dopo aver rassettato coltri e guanciali e messe in bell’ordine le boccette degli anodini s’era seduta sulla seggiola di ferro, accosto al letto… Disse:

    — Anche la fede verrà. Io spero che voi possiate guarire. E anche il dottor Ottonieri lo spera, ma se la scienza non potesse salvarvi, credetelo, Maria, la Fede s’accosterebbe a voi con la Morte. Camminano di pari passo… —

    Maria Fraele pensò un po’, poi disse dolcemente:

    — Io vorrei che voi riusciste a farmi credere, suor Raffaella. Sarebbe così bello! Ma, per adesso, delle due che vengono di pari passo, una soltanto mi consola… —

    Guardava di nuovo fuori dai finestroni spalancati e parlava in quella specie di tenue delirio che le dava la febbre, come a sè stessa.

    — Se non avessi questa tanaglia nelle viscere… che le abbranca, le torce, le stritola, le gonfia… le strazia. Pensate che io sono stata giovane, e bella, anche, dicevano. La luna aveva il colore della mia carne, il pallore e la forma del mio piccolo ventre. E un uomo che mi voleva bene mi ha detto una volta che il ventre di noi donne è una conchiglia destinata ad accogliere il miracolo di una perla umana: forse il pensiero di Dante, la sensibilità di Shelley, la lucida disperazione di Leopardi, la profondità abissale di Enrico Ibsen… —

    Rideva adesso d’un sorriso sarcastico che era uno spasimo.

    — E io ho formato la mia perla!… Mio figlio è un fungo mostruoso che m’assassina: un cancro. —

    La suora l’interruppe:

    — Non pensate… e sopratutto non ridete così; sapete che vi fa male…

    — No. No. Sono buona… Del resto, non importa di che male si muore. Pur di morire! Quando s’ha questa certezza!… Ogni minuto ci accosta al Sempre. Ormai io ho ricevuto il mio colpo di maglio nella nuca; ho sul petto il ginocchio del Destino. La mia vita dolora, ma il dolore è un barbaglio vertiginoso nel quale tutti i pensieri si disfano, si liquefanno, si dissolvono. Talvolta mi sembra di non essere mai nata e di non poter mai morire; di vagabondare soltanto, e senza volontà, e senza meta, in quel barbaglio di dolore che invecchia nel tempo e ch’è pur sempre eguale. Tal’altra corro per una strada maestra senza poter contare i cipressi che la fiancheggiano e che scappano via come una lunga teoria di monaci frettolosi; sono attonita, trasmortita, obliosa: in fondo alla strada maestra c’è un cancello nero, lontana una cupola bianca: la Casa di tutti.

    Le ore sono tutte eguali.

    I giorni han tutti lo stesso volto.

    Il mondo è una cadenza monotona.

    E un solo pensiero, quando la tanaglia abbranca le viscere, le tórce, le strazia, un solo pensiero traverso il barbaglio vertiginoso del dolore picchia come un martello argentino sull’incudine della monotonia: morire.

    Un pensiero che torna con i giorni, con le ore, con i minuti: sempre.

    E colora il mondo del suo colore.

    E quel pensiero è la mia unica speranza, la mia sola ed ultima poesia.

    — C’è, in questa rassegnazione, una disperazione cronica che anch’ io non saprei come curare… Dovete aver molto sofferto, figliuola!… Iddio v’aiuti; io prego per voi. Che altro posso fare io, povera donna?…

    — Iddio!… Pregare!…

    — Non ripetete queste parole sante con quel volto e con quel tono di sconsolata ironia. Iddio! Pregare! Pregare Iddio. Credetelo: noi, povere creature, non possiamo far altro e non possiamo far di meglio. Io so che dal vostro corpo guasto e malato potrebbe rinascere come una rosa dalla spina, la vostra anima schietta, vergine e beata nel bacio del Signore. Se io potessi operare tale miracolo per voi! Se avete commessi infiniti peccati, figliola, parte per incoscienza e per stordimento, parte per debolezza e parte nel colpevole intento di ribellarvi alla miseria e al dolore e di conquistare col vizio un vano bene terreno, non commettete oggi, nel vostro letto d’espiazione, il più orribile dei peccati; quello di disperare nella divina clemenza, nella infinita misericordia d’Iddio, nel dono della grazia…

    — Dovete aver sofferto molto anche voi, suor Raffaella. Soltanto il dolore insegna la bontà… E voi siete tanto buona!…

    — Non sono buona, figliola! ho trovato la mia pace. Per poter vivere tranquilli bisogna aver l’anima lustra come acqua viva zampillata da una roccia e accolta in un cristallo nitido e l’anima non si fa così tersa senza operare il bene. Ma la mia bontà non è mia; mi viene da Dio. Bisogna che noi facciamo il bene, ma bisogna che sentiamo che questa nostra forza di fare il bene da altri ci viene: da qualcuno ch’è più grande e ch’è più in alto di noi. Questa coscienza d’esser noi soltanto ministri di un sovrumano potere non deve umiliarci; è coscienza della nostra piccolezza, ma, al tempo stesso, coscienza di potere noi essere strumento della divinità. Oh! Maria, se poteste ritrovare il vostro cuore bambino, con il suo balbettio, direi quasi con il suo pigolìo d’implume caduto dall’albero del nido! Potreste essere ancora felice; anche nel vostro letto di pena. Bisognerebbe che voi dimenticaste tutto il male che vi hanno fatto e che avete fatto, che vi dimenticaste la vita. Bisognerebbe che voi sentiste che il bene è in tutte le cose e in tutte le creature; anche in quelle che più si sforzano — secondo il parere della nostra povera mente, incapace, del resto, d’intendere i supremi voleri — anche in quelle che più si sforzano di fare il male. Bisogna dimenticare, perdonare, lenire…

    C’è tanto male nel mondo — per l’oscura potenza del demonio — che noi possiamo soltanto o addolcirlo o scordarlo. Vincerlo non possiamo noi perchè la sconfitta finale del cattivo spirito, sarà opera dello Spirito Santo: non può essere opera umana… M’ascoltate? —

    Adesso Maria Fraele aveva gli occhi sui dadi del pavimento assolato. Si riscosse:

    — Perdonatemi, sorella. M’ero disviata col pensiero. Colpa vostra. Avete detto: «se poteste ritrovare il vostro cuore bambino, con il suo pigolìo di nidiotto caduto dall’albero fiorito»… Avete ragione: in quel tempo ero veramente felice, è stato l’unico tempo della mia vita nel quale ho saputo la felicità. E badate che mangiavo fette di polenta mal cotta e torsi di mela raccolti nei rigagnoli… E badate che il cane di casa pigliava meno calci di me. Eppure, se mi ricordo il mio borgo con la sua torre di mattoni rossi rosicchiati dalle parietarie e la meridiana sul fianco della chiesa e le campane dell’Avemaria, mi sembra di ricordare un luogo di sole e di pace… Avete ragione: a quel tempo nessuno m’aveva fatto male e io non avevo fatto male a nessuno. Dopo?… Più ci si allontana dalla terra vergine, dall’albero e dal solco, più si diventa cattivi… —

    Adesso la voce le tremava in gola, una lacrima luccicava trasparente sul rosa della caruncola.

    Suor Raffaella le passò piano la mano morbida e bianca sulla fronte.

    — Piangete, figliola… Fanno tanto bene, le lacrime. Alleviano. Sono il viatico della futura serenità. E non vergognatevi di me. Ho pianto anch’io: molto. —

    Maria Fraele ringhiottì la commozione e il singhiozzo del pianto.

    — No. Perdonatemi. Non è nulla. Mi passa. Forse è la debolezza, è il male. Piangere? A che pro? Se le lacrime potessero cancellare… Allora tornerebbe il conto di piangere a torrenti. Malinconie! Adesso è finita. È l’ultimo capitolo. I prati e gli alberi fuori cominciano a rinverzire; non per me. Sui tigli e sulle betulle cantano i fringuelli; un’orgia di canto che spezza la gorgia; non per me. Per me c’è questo letto in cui sono inchiodata aspettando che m’inchiodino la cassa e questa corsia che, così coi finestroni aperti e l’impiantito a scacchi, fa pensare al peristilio d’un cimitero. Il sole ingialla gli scacchi del pavimento e la garza delle fasciature e l’aria che viene di fuori spazza via l’odore del cloro… Si muore bene: dolcemente. Non c’è niente da dire. C’è una sola tristezza; questa: morire senza aver vissuto. Perchè a me la vita non ha mai dato nulla. Io vorrei che voi sapeste la mia vita; sono certa che mi guardereste con altri occhi…

    — Raccontatemi. Anche il confidarsi fa tanto bene.

    — Sì, vi racconterò. All’ora del tramonto quando sedete qui, vicino a me, con il vostro ricamo o con il piccolo rosario di turchine… Vi racconterò. E capirete che cosa è la vita di noi maledette… Nessuna sa. Credo che se sapessero, invece di cominciare, morirebbero di crepacuore. Nessuna sa. Accade… così… a poco a poco… non ci se ne accorge… e, dopo, sembra una cosa naturale… Questa è la spiegazione d’ogni infamia e d’ogni eroismo. Si scende o si sale, nella vita, al modo istesso: così… a poco a poco… non ci se ne accorge e, dopo, sembra una cosa naturale… —

    Maria Fraele tacque. Entrava nella corsia il prof. Ottonieri, seguìto da un assistente e da una infermiera, per la solita visita del mattino. Era un bell’uomo alto e robusto, con i capelli grigi e la barba grigia, il naso leggermente aquilino, un sorriso mite sulla bocca un po’ larga, ma ben disegnata e gli occhi azzurri, profondi, stanchi, di chi ha molto studiato il dolore sui libri e sulla carne.

    Si soffermò presso ai lettucci bianchi a leggere sulle tavolette di lavagna le annotazioni delle infermiere della notte, a osservare lingue, sclerotiche, cicatrici, a interrogare con pazienza e con buon cuore le ammalate.

    La sua serenità, la sua sorridente bonomìa portava sempre un raggio di conforto e di speranza a ogni capezzale.

    Quando giunse al letto di Maria Fraele — numero ventisei — si fermò un momento ai piedi del letto:

    — Buon giorno, suor Raffaella… Come va la Maria stamane?…

    — Trentasette e sette. La febbre è diminuita.

    — Bene, bene… Speriamo. Bisogna lasciar fare la natura… la natura è un gran medico. Adesso viene la primavera… —

    E s’allontanò.

    Maria Fraele scosse il capo, con

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