Ha tanto amato il mondo
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Anteprima del libro
Ha tanto amato il mondo - Giovanni Maglioni
I.
L’abbandono del Figlio nelle mani del mondo
Ha tanto amato il mondo
Iniziamo: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito». Cosa significa questo dare, che per Giovanni rappresenta il massimo dell’amore di Dio? Dare qui significa consegnare, abbandonare nelle mani del mondo il Figlio perché venga innalzato, ossia crocifisso, per darci la vita eterna. La morte di Gesù in croce rientra nei piani di Dio, Gesù innalzato sulla croce è il suo strumento di salvezza come lo è stato il serpente innalzato nel deserto da Mosè su un bastone, per risanare quanti altrimenti sarebbero stati destinati alla morte (Num 21).
«Dio ha tanto amato il mondo». «Dio è amore», ci dirà poi la prima lettera di Giovanni (1 Gv 4,8.16).
Ma non ha avuto pietà per suo Figlio? Egli è stato in qualche modo toccato dalle vicende del Figlio? Certamente sì! Che amore sarebbe quello del Padre, se la morte crudele e abietta del Figlio non lo avesse coinvolto personalmente?
Vi sono nella Bibbia delle indicazioni che rischiarino un po’ questo mistero e ci aiutino a capire, per quanto ci è possibile, cosa è stata la croce per il Padre?
Il battesimo in Marco
Gesù viene
Cerchiamo di comprendere qualcosa di più allargando la nostra visuale ad altri libri del Nuovo Testamento, e andiamo a leggere appunto il racconto del battesimo in Marco. Marco e Giovanni sono il primo e l’ultimo dei Vangeli in ordine cronologico, distanti una quarantina di anni tra di loro. In questo periodo di tempo la visione teologica della Chiesa nascente è progredita con passi da gigante, riflessi in Giovanni, eppure questi due Vangeli rimangono i più simili tra di loro, in quanto entrambi sono essenzialmente cristologici. Questo significa che, per questi due evangelisti, Cristo è la sola nostra fonte di salvezza, che è un dono destinato a chi ha fede in lui e a lui si affida.
Luca e Matteo invece, pur considerando la salvezza come dono e la fede indispensabile, sono maggiormente preoccupati al riguardo del comportamento dell’uomo nella vita quotidiana, ossia delle opere, e ci offrono esempi e spiegazioni perché ci sia chiaro quanto noi dobbiamo fare se vogliamo ottenere la salvezza.
Data quindi questa visione del tutto cristocentrica tra loro condivisa, per capire certi brani di Giovanni è opportuno ricorrere a Marco, e viceversa.
Abbiamo sentito innumerevoli commenti sull’episodio del battesimo in Marco, che è la sintesi di tutto il suo Vangelo, ma riprendiamone l’esame, per cercare di vederlo nella prospettiva del brano di Giovanni appena esaminato.
Dunque Gesù viene - verbo usato nella Bibbia per la venuta del Messia tanto atteso - al Giordano per essere accomunato ai peccatori, e questo ci turba quasi quanto il Dio di amore che manda il Figlio a morire.
Cosa lo avrebbe atteso al termine della sua vita pubblica non era forse così chiaro sino a quel momento nemmeno a Gesù, vero uomo che ha dovuto arrivare poco a poco a comprendere appieno il disegno del Padre su di lui.
Gesù aveva intuito che doveva recarsi al Giordano e vi è andato, e ora il Padre gli rivela chi Egli veramente sia e quale missione gli venga affidata.
Contrariamente a come ci viene presentato il battesimo negli altri Vangeli, Marco ce lo narra come un evento che nessuno dei presenti nota, e il suo significato rimane quindi segreto per tutti coloro che vi assistono, restando strettamente confinato nell’intimità del rapporto tra il Padre e il Figlio. Nessuno dei presenti vede, sente o si accorge di niente, neppure il Battista: solo Gesù sente le parole che il Padre gli rivolge al Giordano e vede squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere.
Il Padre pronuncia delle parole che affidano a Gesù una missione, un mandato, e quindi, come avviene nei racconti biblici di conferimento di un mandato, Egli riceve pure un segno di conferma da parte del Padre: il dono dello Spirito. Il battesimo è infatti un episodio di chiamata, e a tutti i chiamati Dio offre sempre un segno perché sia loro chiaro che non sono vittime di allucinazioni o di auto suggestione, ma che si tratta di una vera, e del tutto inaspettata, chiamata di Dio.
Anche a Maria, che riceve l’annuncio di chiamata alla maternità, Dio offre un segno, un segno che Maria si affretta ad accogliere e verificare: la gravidanza di Elisabetta, fino a quel momento tenuta da quest’ultima strettamente segreta, non rivelata a nessuno, proprio perché doveva essere una sorpresa per Maria quando si fosse recata da lei.
Le parole del Padre. Il Messia
Cosa dice il Padre a Gesù sulla riva del Giordano, subito dopo il battesimo?
«E venne una voce dal cielo:
"Tu sei il Figlio mio, l’amato:
in te ho posto il mio compiacimento"». (Mc 1,11)
«Tu sei il Figlio mio» sono parole fuorvianti per chi non ha una conoscenza abbastanza approfondita dell’Antico Testamento. Qui non si tratta di una rivelazione o una conferma fatta dal Padre a Gesù della sua origine divina: i biblisti pensano che il Padre gli abbia concesso di rendersi sempre in qualche modo conto, pur se in maniera umana, del rapporto filiale che lo legava a Dio. Che significano allora?
Per comprenderne il significato occorre fare un grosso passo indietro nel tempo, sino alla caduta dei due regni tra i quali si era diviso il popolo ebraico (regno di Israele e regno di Giuda) dopo la morte di Salomone. La caduta di tali regni e le successive deportazioni sono una grande sciagura che mette a dura prova la fede, ma il popolo non si perde d’animo e crede alle parole dei profeti, i quali annunciano che l’amore di Dio non è per questo venuto meno.
Vi sarà un termine alle sofferenze, in quanto Dio intende dare al suo popolo una salvezza ancor più grande e completa di quella perduta: l’instaurazione di un regno assolutamente perfetto, sul cui trono sarebbe salito un re dal comportamento del tutto esemplare che avrebbe attirato per sempre i favori di Dio su di sé e sui suoi sudditi.
Questo re, che porterà pace, giustizia e prosperità durature, viene detto Messia. Messia in ebraico significa unto e conseguentemente designa anche i re, in quanto essi venivano unti con un apposito olio profumato prima di ricevere l’investitura ufficiale e sedere sul trono. Vi erano però altri termini più correnti per riferirsi a un re, direi persino più eleganti, tra cui figlio di Dio, più adatti all’uso in un contesto diplomatico.
Il popolo ebraico, che precedentemente non aveva mai avuto dei re, giunto il momento opportuno, ha copiato in tutto il modello di regalità dei popoli vicini, compreso per l’appunto l’espressione figlio di Dio per indicare il sovrano.
Per i pagani aveva un significato più stringente, mentre per gli ebrei il re, pur rimanendo della stessa natura umana dei suoi sudditi, era comunque più vicino a Dio di ogni altro uomo, in quanto scelto personalmente da lui non solo per governare il suo popolo, ma anche per occuparsi del tempio e organizzarvi il culto.
Il Salmo che leggiamo oggi in chiave prettamente cristologica e alla luce della nostra fede
«Voglio annunciare il decreto del Signore.
Egli mi ha detto: "Tu sei mio figlio,
io oggi ti ho generato"». (Sal 2,7)
era, con ogni probabilità, la formula che pronunciava nel tempio il sacerdote regale, parlando in nome di Dio, per designare ufficialmente un re come tale prima che egli si sedesse sul trono. Ricordiamo ancora:
«A te il principato
nel giorno della tua potenza tra santi splendori;
dal seno dell’aurora, come rugiada, io ti ho generato». (Sal 110,3)
Sino a qui non abbiamo difficoltà ad accettare quanto avvenuto, perché l’episodio del battesimo sembra iniziare nel migliore dei modi: Dio stesso, senza bisogno di intermediari terrestri, designa Gesù come re, il Messia tanto atteso chiamandolo figlio. Ne consegue quindi che gli promette implicitamente il trono e gli affida il compito di governare il suo popolo, restaurando il regno che un tempo appartenne a Davide.
Le parole del Padre. Il nuovo Isacco
Accenniamo con poche parole al significato del segno/dono dello Spirito che Gesù riceve.
Fare il re comportandosi secondo le attese di Dio, estremamente esigente a questo riguardo, era tutt’altro che semplice: allora si credeva che Dio desse al suo designato la forza sufficiente per ben esercitare il suo mandato; la forza dello spirito (minuscolo: potenza di Dio).
Al momento dell’unzione regale, Dio infondeva nel sovrano un po’ del suo spirito, ossia della sua forza, della sua potenza. Gesù che vede, ossia sente in qualche modo, scendere su di lui lo Spirito, riceve quindi il segno essenziale per confermargli la sua regalità che fra un istante gli sarebbe stata annunciata e la forza per condurre a termine la sua missione.
Ma qui la situazione si rovescia completamente a causa di una parola: l’amato. In edizioni precedenti della Bibbia CEI viene invece data come traduzione il diletto o altri termini analoghi.
Chi non ha sufficiente conoscenza dell’Antico Testamento la interpreta come una semplice dichiarazione di amore del Padre per Gesù. Siamo distanti mille miglia dal vero significato. Per comprenderlo dobbiamo nuovamente fare una digressione. Moltissimi ebrei, per mille motivi, inizialmente dovuti a eventi storici, ma poi anche per scelta dovuta a convenienza economica, vivevano all’estero ormai da parecchie generazioni, conservando integra la loro fede. Erano gli ebrei della diaspora, che parlavano la lingua dei paesi dove vivevano e non erano più in grado di comprendere la lingua ebraica nella quale la Bibbia era stata scritta, pur continuando a professare la fede dei loro padri. Si era quindi resa necessaria la traduzione della Bibbia in greco, in modo che tutti potessero comprenderne il significato, in quanto ai tempi di Gesù, e anche prima, la lingua greca era l’equivalente di ciò che è l’inglese oggi, ossia il linguaggio con cui comunicavano tra loro persone di lingua madre differente, usato anche nella diplomazia e nel commercio.
La Bibbia greca tutti erano in grado di comprenderla, qualsiasi lingua parlassero, anche se gli ebrei rimasti nella loro terra, ed erano ormai una netta minoranza, continuavano a usare la Bibbia ebraica, pur se con il supporto di traduzioni in aramaico.
Al di là delle leggende fiorite attorno alla versione greca della Bibbia (detta dei Settanta) i traduttori, pur restando fedeli al testo ebraico, ne avevano in qualche caso cambiato alcune parole per aderire maggiormente al contesto biblico generale, o vi avevano apportato aggiunte, sempre sotto l’ispirazione divina.
È il caso della parola amato, o diletto, che venne usata dal traduttore greco al riguardo di Isacco per sostituire il termine ebraico unigenito, usato nella narrazione di un evento fondamentale della vita di Abramo.
Per quale motivo l’unigenito ebraico è diventato amato, diletto, nella versione greca? Perché la Bibbia ci dice espressamente che Abramo aveva avuto anche altri figli, e dunque il traduttore greco non se la sente di usare il termine per lui inappropriato unigenito. Vuole però marcare una netta differenza tra Isacco e i fratelli: solo lui è il diletto, o prediletto, o amato, dal padre Abramo.
In che situazione siamo? Nell’episodio del mancato sacrificio di Isacco, l’angelo del Signore (ossia Dio stesso, in quanto l’angelo si limita a riferire le sue parole) dice:
«L’angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: "Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito [il tuo amato in greco], io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza». (Gen 22,16-17 della versione ebraica).
Le parole del Padre a Gesù gli dicono dunque che Egli è sì il Messia, ma con una regalità strana, diversa, in quanto è contemporaneamente anche il figlio incaricato di portare a compimento su di sé il sacrificio, lasciato interrotto, di Isacco.
Abramo amava tantissimo suo figlio Isacco, e certo accingersi al suo sacrificio era una cosa che gli procurava un dolore fortissimo.
Le parole del Padre. Il Servo di Jahvè
Forse il Padre, che da Marco viene accomunato ad Abramo, può non aver sofferto per la passione del Figlio diletto? E cosa sarebbe questo suo grande amore per il mondo se dare il Figlio non gli fosse molto costato? Ecco che ci viene spalancato il tema, difficile ma che si deve qui affrontare, della sofferenza di Dio.
Prima di entrare nel merito, affrontiamo un’altra domanda che probabilmente ci siamo già posti: perché il Padre, che sostiene di amare tanto il Figlio, manda lui a subire la passione e la morte, e non si sottopone invece alla croce in prima persona?
A questo punto dovremmo fermarci, perché si tratta del mistero di Dio. Tuttavia si potrebbero fare due considerazioni, tenendo conto che crediamo in un solo Dio, con tre persone distinte benché eguali.
Se si punta maggiormente sull’unità di Dio si può ipotizzare che quanto soffre il Figlio lo soffrano pure il Padre e lo Spirito Santo: è come se il Padre, offrendo il Figlio, offrisse se stesso e tutta la Trinità.
Essendo però il Figlio la manifestazione del Padre, e colui che agisce a suo nome (ad esempio per mezzo di lui tutte le cose sono state create
) era opportuno che si incarnasse il Figlio, per opera dello Spirito, potenza di Dio che dà la vita.
Se si considera maggiormente la diversità delle persone, e il forte amore trinitario, si può pensare che il Padre soffra maggiormente per la passione del Figlio di quanto avrebbe sofferto se si fosse incarnato lui stesso. Anche su questa terra le persone possono essere legate da un vincolo d’amore così forte che soffrono maggiormente per le pene dell’amato che per le proprie. Da questo punto di vista, se fosse andato sulla croce il Padre, il Figlio nel vederlo avrebbe sofferto ancor più di quanto ha patito nella sua umanità. Ecco quindi il perché della scelta del Padre.
Certo la sofferenza di Dio rimane un mistero in quanto, come tutte le cose che lo riguardano, non può corrispondere a quella umana e quindi non è per noi comprensibile. Occorre chinare la testa, e rendersi conto che tutto quanto riguarda Dio rimane per noi un inspiegabile mistero.
A questo punto si può passare alla terza precisazione fatta dal Padre a Gesù subito dopo il battesimo: «In te ho posto il mio compiacimento» (Mc 1,11).
Queste poche parole, collocate nel contesto biblico dell’Antico Testamento, ci riportano immediatamente alla figura del Servo di Jahvè, che genera il compiacimento di Dio per la sua accettazione di salvare il popolo tutto mediante le sue proprie sofferenze:
«Ecco il mio servo che io sostengo;
il mio eletto di cui mi compiaccio.
Ho posto il mio spirito su di lui;
egli porterà il diritto alle nazioni». (Is 42,1)
Il dono dello spirito, ricevuto da Gesù al battesimo, è dunque previsto anche per il Servo , oltre che per il Messia.
L’assunzione del ruolo del servo del Signore da parte di Gesù ci fa quindi comprendere come il Padre, pur soffrendo moltissimo, non ritirerà la mano all’ultimo momento per sospendere il sacrificio del Figlio, sacrificio che ci dona la salvezza e giustifica l’affermazione «Ha tanto amato il mondo». La passione del Figlio, che tanta sofferenza provoca al Padre, è destinata alla salvezza del mondo.
Molti biblisti affermano che qui il termine mondo si riferisce all’umanità, ma non dimentichiamo che la passione di Gesù salva, oltre l’uomo, anche la natura tutta, come ci dice espressamente san Paolo (Rom 8).
Molte persone non hanno mai sentito parlare di un Dio che soffre. Forse anche grazie all’immane tragedia della seconda guerra mondiale, in particolare nei campi di sterminio nazisti, si è dovuti arrivare a dare una risposta alla domanda che tanti hanno posto a Dio: ma tu, dov’eri mentre capitava tutto questo?
.
Di fronte a queste tragedie non possiamo sottrarci a una scelta nei riguardi di Dio: o Egli è rimasto indifferente, ma allora non parliamo di un Dio di amore, oppure Egli era lì, vicino a chi soffriva e moriva nei campi di sterminio, nelle trincee, nelle case distrutte dalla guerra, e soffriva assieme a loro.
Con una differenza: Dio conosceva quanto sarebbe avvenuto in quel periodo sin dalla creazione del mondo, e dunque la sua sofferenza per questi fatti è da sempre,