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Questione di coraggio!
Questione di coraggio!
Questione di coraggio!
E-book176 pagine2 ore

Questione di coraggio!

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Info su questo ebook

La vita di ciascuno di noi è un percorso attraverso l’ignoto alla ricerca della felicità. Quella di Caterina è un viaggio che parla di scelte, di paure, di sorrisi e di difficoltà vissute. Solare, energica ed entusiasta, si innamora del tennis sin da bambina e cresce osservando il mondo con il suo sguardo curioso ed originale. Ed è proprio coltivando la passione per lo sport che si imbatte in un incontro che cambierà la sua esistenza, tanto nel bene quanto nel male. Un incontro che la costringerà a maturare in fretta, un’esperienza che porterà per sempre impressa nel cuore, indelebile come un tatuaggio. Attraverso il suo stile fresco e genuino, a volte scherzosamente ironico e altre delicatamente introspettivo, l’Autrice ci invita ad indossare le sue scarpe e a percorrere la sua vita. Una storia che ci ricorda che tutto può succedere, che per ogni lacrima versata esiste sempre la curva di un sorriso, che in ogni momento possiamo riscrivere il nostro finale ed esprimere chi siamo davvero.

“Questo libro è per me tante cose, soprattutto un viaggio compiuto riempiendo una pagina dopo l’altra. Pur narrando del mio passato, ho vissuto ogni capitolo come fosse il mio presente”.
 
LinguaItaliano
Data di uscita31 dic 2021
ISBN9791220122047
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    Anteprima del libro

    Questione di coraggio! - Caterina Marusic

    cover01.jpg

    Caterina Marusic

    Questione di

    Coraggio!

    © 2021 Europa Edizioni s.r.l. | Roma

    www.europaedizioni.it - info@europaedizioni.it

    ISBN 979-12-201-0826-3

    I edizione settembre 2021

    Distributore per le librerie Messaggerie Libri S.p.A.

    Questione di coraggio!

    Nota per il lettore

    La curiosità è dentro ognuno di noi e se qualcuno di voi, come amo fare io, vorrà dare un volto e cogliere un piccolo scorcio di chi vi avrà rapiti (o, chissà, forse annoiati!) tra queste pagine, niente di più diretto di un hashtag - la nostra moderna briciola di Pollicino - vi potrà accontentare!

    Quindi… Buon viaggio ne #lospaziodiTeca

    #myuncomfortzone

    #conilcuoreacceso

    #fortiemozioni

    #questionedicoraggio

    #hurlo

    i

    Il piccolo grande terremoto

    Seduta al bar, finalmente senza pensieri e felice all’idea di ritrovarmi qui da sola, ordino il mio immancabile caffè mattutino e mi fermo ad osservare il mio quaderno con la sua coloratissima penna allegata. Mi abbandono per qualche minuto al vortice di pensieri che si sta scatenando dentro di me. Succede sempre così, all’improvviso la mia mente si sconnette dal mondo esterno per volare tra i meandri del passato. D’un tratto, proprio lì in mezzo al petto, all’altezza del cuore, sento nascere una sorta di ispirazione. Il respiro sembra accorciarsi, il cuore fa bizzarrie ed io, sorridendo, mi perdo tra le righe della mia infanzia.

    Coloro che sanno guardare oltre le apparenze – rara qualità che ho sempre apprezzato – mi dicono spesso che ho il sorriso di chi nella vita ha a lungo sofferto e più volte lottato da sola. Quando mi sento descrivere in questo modo non posso che annuire tra me e me, con quella smorfia, davvero simile a un sorriso, che sento tanto mia e che tanto mi piace.

    Il sorriso è la prima cosa che mi viene in mente pensando a mia madre. Lei, Rosanna, per tutti Rosy, è il sorriso fatto persona. Una donna piena di energia, dalla positività travolgente e contagiosa, sempre pronta a regalare una parola buona a chiunque. Da lei ho di certo ereditato il mio gran chiacchierare, il tono squillante della voce e la spesso eccessiva velocità nel pronunciare le parole. Una decina di anni fa alla

    tv

    faceva notizia un uragano abbattutosi in America e battezzato dagli esperti Kiril. In quei giorni, mia madre, nel riportarmi quanto sentito dal notiziario, chiamò la tromba d’aria Krilly; il suo errore mi fece ridere talmente tanto che le dissi che quel nome si addiceva più a lei che all’uragano e che, anzi, da quel momento in poi lei sarebbe stata Mamma Krilly. E così fu. Ancora oggi molte delle persone a noi care la chiamano così e lei, finalmente, sembra aver accettato di buon grado questo buffo soprannome.

    Sin da piccola ho avuto un grande entusiasmo naturale, un carattere impetuoso: volevo fare tutto, provare ogni cosa che stimolasse la mia curiosità. Un terremoto che si sposta e smuove ogni cosa al suo passaggio, una gran fretta di fare, dire, vedere, una gran voglia di provare tutto senza sapere nulla. Curiosa, allegra e frenetica, ma anche spensierata, furba, testarda: eccomi qui, nei quasi lontani anni Novanta. Caterina era sinonimo di iperattività, tanto che per mia madre persino portarmi a fare la spesa poteva trasformarsi in una vera lotta. Qualsiasi cosa lei mettesse nel carrello con i suoi tipici gesti rapidi e decisi, io la tiravo fuori con altrettanta velocità e prontezza. Sorriso sbarazzino, occhietto vispo, capello ribelle e corto, sempre rigorosamente corto, perché della femminilità neanche l’ombra in me in quegli anni.

    I miei genitori, mamma Krilly e papà Edoardo (o, per gli amici, Edi), sono persone semplici e di grande volontà, da sempre molto dedite al lavoro. Insieme hanno messo in piedi una piccola azienda di frutta e verdura all’ingrosso, che gestiscono in un modo che definirei complementare: mia madre, ex impiegata in un supermercato, si occupa della parte contabile, mentre mio padre, precedentemente manovale, della vendita. Anche nella vita il loro temperamento piuttosto differente fa sì che, in qualche modo, si completino l’un l’altra. Da una parte l’espansività e la gentile fermezza di mia madre, dall’altra lo sguardo serio e severo di mio padre. Uno sguardo carico di storie e di perché, come ho potuto capire crescendo. Non che lui non ridesse mai… direi piuttosto che ha sempre fatto di un sorriso un’occasione, tanto che per il suo carattere introverso gli valse il soprannome di Orso.

    Spalle ampie, baffi folti – non l’ho mai visto senza – e poche parole, schiette e sincere, pronunciate solo nel momento del bisogno. Due diversi caratteri, due modi diversi (ma ugualmente profondi) di approcciarsi a me. Mia madre è sempre stata più incline a manifestare apertamente il suo affetto, sia attraverso il contatto fisico sia a parole. Con lei, che è allo stesso tempo madre e amica, tuttora, nonostante la distanza, mantengo lo stesso affiatamento di sempre. Penso alle nostre frequenti telefonate, incalzanti e dense di cose da dire. Di mio padre, invece, conservo pochissime lettere che custodisco con grande cura. Ne avrò cinque in tutto, ma proprio per questo sono molto importanti. Le ho ricevute nei momenti salienti della mia vita: i miei diciotto anni, la mia laurea, la crisi del mio matrimonio. Il suo sostegno silenzioso non mi è mai mancato, ma preferiva scegliere con cura e parsimonia i momenti in cui esprimersi. Dopo tutto si sa, il papà di una figlia femmina interviene solo quando la sua entrata in scena è strettamente necessaria. Ho sempre apprezzato la sua discrezione, sebbene questa stessa caratteristica mi abbia un po’ destabilizzata, lo ammetto, in certi momenti della mia vita. Con lui, che per me è da sempre tata (dallo sloveno), non ho costruito nel tempo l’abitudine di sentirci spesso, ma quando ci capita di stare al telefono ci tiene sempre a precisare nel nostro caro dialetto di Gorizia, la mia città natale: «Te sa che anche se non te ciamo mi, ogni volta che te senti la mama è come se se sentissimo anche mi e ti, no?».

    Certo che lo so, so che lui si informa sempre su di me dopo che ho parlato con la mamma, e so anche che custodisce con gelosia le nostre poche telefonate, sono un piccolo innocente segreto tutto nostro.

    Il lavoro ha sempre impegnato gran parte della vita quotidiana dei miei e così, sin da piccola, sono stata spesso affidata alla cure dei nonni. Ho frequentato un asilo nido e sono stata seguita occasionalmente da una baby sitter. Per la mia famiglia l’unica possibilità di gestire il mio prorompente entusiasmo era quella di tenermi impegnata in più attività possibili. Fu così che conobbi il tennis. Mio padre, da sempre amante dello sport e della competizione, frequentava il circolo sportivo Associazione Tennis Campagnuzza, che si trovava a pochi chilometri da casa nostra, nell’omonimo quartiere di Gorizia.

    La familiarità di mio padre con l’Associazione e il mio desiderio di novità mi spinsero a provare questo sport. Perché di questo, di sport, sì che ne volevo sapere e se c’era qualche attrezzo da manovrare meglio ancora. Che poi, detto in altri termini: ho tormentato talmente tanto i miei genitori affinché potessi varcare le soglie di quei campi da gioco da averli condotti allo sfinimento. Era il 1991 ed io avevo quattro anni scarsi. Il tennis mi conquistò e nel settembre dell’anno successivo ricevetti una piccola targa, che ancora conservo, dedicata alla più giovane della scuola.

    La più piccola, ma anche la più peste. Ero una gran rompiscatole, devo dirlo. Andare, provare, correre, riprovare ancora, senza fermarmi mai, continuando sempre a sracchettare. Che poi, di palline prese davvero, quante ai primi tentativi? L’importante era uscire dal campo sporca di terra rossa, con una pallina in più in tasca e con la frenetica voglia di tornare il prima possibile. Mi facevano giocare poco, in realtà, perché disturbavo tutti. Ma quando finalmente entravo in campo lo facevo mettendoci il cuore. Questa è sempre stata la mia caratteristica principale, la mia essenza più genuina. Se dovessi descrivere la bambina che ero in tre parole, direi: cuore, testa e gambe. E la passione è ciò che ancora oggi porto in campo tutti i giorni. In quei primi anni la mia tecnica non era particolarmente raffinata, ma il mio impegno compensava qualsiasi altra lacuna. Per ore ed ore correvo su quella terra, cercando di tirare fuori il meglio di me e combattendo fino all’ultimo per portare a casa una partita. La mia tenacia e la mia resistenza creavano un certo disappunto nelle mie avversarie che spesso, guardando il tabellone dei tornei, si chiedevano disperate per quanto tempo le avrei tenute in campo. Sapevano che la mia indole era quella di correre, che le mie partite non duravano mai meno di un paio d’ore e che il mio obiettivo era non lasciarmi sfuggire una sola palla. Ero la più attiva e la più presente. Poveri i miei santi maestri! All’interno del circolo quello che mi seguiva di più era il maestro Bruno, una figura dalla quale ero affascinata. Era un insegnante severo, ma assolutamente onesto: mi sgridava, ma sempre in modo corretto e costruttivo.

    Col passare degli anni arrivarono i primi risultati, belli anche perché gioiosamente inaspettati. Nel 2002, all’età di quattordici anni, partecipai ai campionati italiani a squadre nella mia categoria insieme ad altre due compagne, Giorgia di Gorizia e Veronica di Trieste. Proprio Veronica da storica avversaria si trasformò in una grande compagna: queste sono le sorprendenti e bellissime magie del tennis, uno sport capace di stupirti con improvvisi cambi di prospettiva. Per la nostra città era la prima volta. Arrivammo in finale. Dopo una giornata di andata a dir poco disastrosa, in cui perdemmo con un netto 3 a 0, il ritorno ci concesse una rivalsa non indifferente, che ci permise di raggiungere il 3 pari. Fu il cosiddetto doppio di spareggio a cancellare il nostro sogno: dopo un’intera giornata trascorsa a lottare nei singoli e nei doppi, quella sera il trofeo lo vedemmo alzare… dalle mani delle nostre avversarie toscane.

    Di quella giornata ricordo il corridoio adiacente al campo colmo di un pubblico molto affiatato: soci di ogni età erano lì, per noi. Tra la folla anche mio padre che, sebbene schierato in prima linea, manteneva il suo solito distacco emotivo, il suo solito atteggiamento che non lasciava trasparire nulla. Stava in piedi, appoggiato con la schiena ad un palo, come faceva sempre quando veniva a vedermi ai tornei, e non pronunciava una parola. Guardando la partita la sua espressione non esprimeva mai né disappunto né esaltazione, ma non si perdeva un solo colpo. Quel suo modo rispettoso di essere presente mi ha insegnato molto sia in campo che fuori: gioco, lotto, posso vincere e posso perdere, ma alla fine posso sempre contare su me stessa; questo è il tennis e questa, in un certo senso, è la vita.

    Ad un certo punto mio padre si assentò inaspettatamente. Quando tornò – non lo scorderò mai –aveva con sé uno zainetto giallo della Napapijri: «L’ho portata», mi disse indicandolo. Si riferiva ad una bottiglia di vino Magnum che teneva in serbo per le occasioni speciali. Purtroppo quel giorno non venne stappata, ma il gesto di mio padre mi commosse profondamente. Era la chiara dimostrazione del suo sostegno e della sua fiducia in me. Del resto questa fiducia si manifestava già con la sua disponibilità a seguirmi la domenica nella preparazione atletica e, quando il lavoro lo permetteva, ai tornei. La sconfitta non aveva diminuito il nostro entusiasmo. Stavo vivendo una delle emozioni più intense della mia vita.

    Durante quel campionato abbiamo viaggiato molto per l’Italia e ricordo che il presidente del circolo organizzò un pullman per seguirci durante le trasferte più importanti. Fu una delle emozioni più forti della mia adolescenza e non esagero ammettendo che tuttora mi fa uno strano effetto richiamare alla mente quelle giornate strepitose. Certo, vincere piace a tutti, soprattutto se si tratta della finale dei campionati nazionali e se per conquistare quel risultato hai affrontato una giornata infinita fatta di lotta, sudore e tanta tanta voglia di farcela. Ma in fondo, anche senza trofeo da portare a casa, una finale resta una finale: eravamo vicecampionesse italiane e per il nostro circolo fu un risultato eclatante. Fu così che, in occasione dell’annuale cena sociale, noi ragazze ricevemmo un riconoscimento speciale: un orologio da polso con un’incisione sulla cassa, un prezioso ricordo che tuttora ho con me.

    Dopo la cena lessi una lettera che avevo scritto per ringraziare i soci del circolo, il presidente, che per me era come un nonno, il capitano, le mie compagne di squadra – senza le quali non sarei nemmeno partita per quell’avventura chiamata campionato – e la mia famiglia, in particolare il mio papà (non me ne voglia la mia amata mamma!). La lettera si concludeva con queste parole: «Ringrazio il mio maestro, ringrazio le mie compagne e tutti i soci, ringrazio i miei genitori ma soprattutto ringrazio la persona che, con pochi applausi e tanti sguardi significativi, mi ha sempre spronata ad andare avanti. Questa persona è mio padre». Riesco ancora a vederlo mentre, borbottando imbarazzato, prende il tovagliolo e se lo porta al viso per asciugare le lacrime. Quell’episodio ci legò moltissimo.

    Dopo quel campionato molte cose iniziarono a cambiare. Il maestro Bruno si rese presto conto che per crescere dal punto di vista tennistico avrei dovuto cercare un nuovo ambiente, trovare un’Accademia che potesse fornirmi nuovi strumenti e più opportunità. Con grande sincerità mi fece capire che mi aveva trasmesso tutto ciò che poteva insegnare e mi spronò ad andare avanti, a tentare di fare qualcosa in più. Purtroppo capii che non avrei potuto farlo lì. Lo ringrazierò sempre per la sua lealtà e la grande umanità. Elevare gli studenti avendo come unico interesse la loro realizzazione è la caratteristica di ogni autentico insegnante.

    Io stessa, comunque, avevo iniziato a considerare il tennis come una vera

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