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Mentre il tuo cuore batte ancora
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E-book302 pagine4 ore

Mentre il tuo cuore batte ancora

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Info su questo ebook

La tua storia inizia dalla fine. La fine della tua vita, il giorno in cui Tod, tuo marito, viene pugnalato al cuore su un autobus londinese. Quella fine ti lascia vuota, disorientata, senza scopo e senza emozioni. Smetti di lavorare, e d’impulso decidi di trasferirti a Praga. Non perché è lì che Tod ti ha chiesto di sposarlo, no. Piuttosto perché la ricordi come una città grigia, fredda, scolorita. Come ti senti tu.

Mentre vaghi per la città ti imbatti in un losco individuo che ti propone un lavoretto. È una cosa facile, pulita o almeno non del tutto illegale: devi prendere un’auto e andare in Ucraina, attraversare il confine con una valigia e tornare a Praga con un pacchetto. Solo una volta. Se farai tutto come ti dicono, “loro” ti ricompenseranno generosamente. E tu accetti. Perché non hai niente da perdere, o forse perché quello è stato l’unico momento in cui non ti sei sentita bloccata in quel limbo senza tempo che sono le tue giornate.

Ma quando arrivi a destinazione scopri che il prezioso pacchetto è un essere umano. Un bambino. E allora cambia tutto. Qualcosa nel tuo cuore ghiacciato si scioglie. Non puoi seguire le loro regole. Non vuoi. E ora sei in pericolo. Audace ed elegante, Mentre il tuo cuore batte ancora è un thriller adrenalinico e incalzante, che corre a perdifiato verso una fine che appare inevitabile. Ma è anche molto di più: è una riflessione sulla vita e sulla morte, sull’ineluttabilità del destino e sulle scelte che determinano la nostra esistenza. E sul cuore, l’organo che ci palpita nel petto e ci definisce come esseri umani, con tutta la sua depravazione, ma anche la sua inesauribile capacità di amare.
LinguaItaliano
Data di uscita12 mag 2022
ISBN9788830540491
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    Anteprima del libro

    Mentre il tuo cuore batte ancora - Tyler Keevil

    PRIMA PARTE

    UNA FINE

    È così che muore tuo marito: tra meno di quarant’anni, scosso dalla tosse, avvizzito e consumato dal cancro, tenendoti la mano e guardandoti negli occhi. Le iridi riflettono una vita insieme. Oppure tra una ventina d’anni, dopo che i figli che non avete ancora saranno cresciuti e andati via di casa, e non avranno più bisogno di lui, e nemmeno tu, o almeno non molto. Oppure tra meno di dieci anni, all’epoca in cui ti aspetti che abbia la crisi di mezza età e si compri una Ford decappottabile e si metta a flirtare come uno scemo con le cameriere dei bar.

    E invece no. Tuo marito non muore in nessuno di questi modi, ma adesso, stasera, in un lento, freddo, piovoso giovedì di fine novembre, a ventinove anni.

    Muore a Londra, una città che non gli è mai piaciuta, molto lontano da casa.

    Muore su un autobus, alle ventidue e trentaquattro minuti.

    Muore perché ti ama. Muore perché è coraggioso, o forse insicuro… a volte non è facile capire la differenza. Muore perché non vuole vederti soffrire, non vuole che tu abbia paura. Muore perché è stupido, perché non pensa. Muore perché crede sia compito suo proteggerti. Muore perché forse anche tu lo credi e te lo aspetti da lui.

    Non sai perché muore.

    Sai il come, ma non il perché.

    Il come è questo: dopo aver visto un film al cinema. Tod non ne aveva voglia (aveva passato il pomeriggio a insegnare Tolstoj a studenti del primo anno con il doposbronza), ma sapeva che tu volevi andarci, perciò si è fermato a bere un caffè mentre tu prendevi la metro fino a Trafalgar Square. Un viaggio di trentun minuti. Il film è un dramma domestico inglese, pesante come il tempo di questa giornata. Tod non vuole criticare, ma avverti il suo scetticismo, la sua resistenza: si muove sulla poltroncina, sposta continuamente il gomito dal bracciolo.

    Poi i titoli di coda, il pubblico che a poco a poco lascia la sala, le facce grigie alla luce del proiettore. Sembrano comparse del film appena finito. Fuori ci sono dei lavori in corso all’ingresso della metropolitana. Sta arrivando un autobus, grande, rigato di pioggia e sporco: lo prendiamo? Un’idea sua. Attraversate la strada insieme, i fari delle auto di passaggio scavano solchi nella pioggia. Una grossa pozzanghera prima del marciapiede. Lui la salta per primo e ti tende la mano. Tu la prendi, non perché ne hai bisogno ma per la stessa cortesia che ha spinto lui a offrirla.

    Dentro l’autobus il riscaldamento è acceso, i finestrini sono appannati dal vapore, il corridoio centrale è scivoloso per l’acqua che gocciola dalle scarpe e dai cappotti dei passeggeri. Non riesci a vedere la città oltre i vetri, solo un alternarsi confuso di luci e buio. Tra la pioggia e il freddo, vi sentite più allegri e sciolti. La cupezza del cinema è scivolata via come un mantello. Parlate del film come due persone che si sono appena conosciute, invece di digerirlo ciascuno per conto suo, d’accordo nel non essere d’accordo. Chiacchierate in modo animato: tu difendi testardamente il film, lui cerca di convincerti di ciò che c’era di sbagliato, in quello e in tutto il genere che rappresenta. La mancanza di struttura, il triste stoicismo, gli stereotipi sulla classe operaia. Se parla troppo forte, tu non ci fai caso. Se è troppo americano, rumoroso, sfacciato, competente, sicuro di sé, è quasi un sollievo, una liberazione. Lui è così, o almeno lo era. Il tuo marito americano con il suo nome americano: Tod. Prima che la vita in Inghilterra lo rimpicciolisse.

    In seguito ricorderai di aver pensato: Tod è un bell’uomo. E sembra felice.

    Poi le grida: «Silenzio! Silenzio!».

    C’è un uomo sul davanti dell’autobus. Non si capisce a chi si stia rivolgendo. Ma si è alzato in piedi. È un uomo pallido, nodoso, dal cranio rasato. Felpa con cappuccio e jeans strappati.

    «Ho detto silenzio!» ripete. Si guarda intorno con aria agitata.

    Istintivamente gli altri passeggeri abbassano gli occhi per evitare di incrociare il suo sguardo. Tu invece no. Più tardi ti chiederai perché. L’uomo ti nota, ti fissa e comincia ad avanzare lungo il corridoio, ripetendo come un mantra: silenzio, silenzio, ho detto silenzio. A quel punto tu sposti lo sguardo verso il finestrino, ma è troppo tardi: lo vedi riflesso sul vetro appannato, con i lineamenti deformati, il viso strano e contorto.

    E a un tratto è accanto a te, sopra di te. E urla. «Silenzio, stupida troia!» E senti spruzzi di saliva sui capelli, sul cuoio capelluto. Ha la schiuma alla bocca, come un cane rabbioso.

    Quello è il momento in cui Tod, tuo marito, si alza in piedi. Sorride, in quel modo imbarazzato di quando è nervoso. Perché è nervoso. Solleva le mani, i palmi in fuori, come per placare un cane. «Va bene, va bene» dice. «Calmati, eh?»

    L’uomo fa un passo indietro, sorpreso (non aveva fatto il collegamento tra voi due) e per un attimo sembra confuso. Poi i suoi occhi tornano a fuoco: su Tod.

    «Cosa credi di fare, amico?» dice. «Io ti rovino.»

    Tod ride, scuote la testa. «Senti, non vogliamo guai.»

    L’uomo ha le mani dentro il tascone della felpa. Tu l’hai notato, Tod sembra di no. Vorresti dirgli: «Tod, lascia stare». Vorresti dirgli di non farlo, di tornare a sedersi. Ma hai paura di parlare. Di muoverti. Di respirare. Sei paralizzata dalla paura. In seguito odierai questa reazione. Penserai a tutte le cose che avresti potuto dire, o fare, per scongiurare quel risultato.

    «Lasciala in pace» dice Tod. «Torna a sederti, per favore.»

    L’uomo sposta gli occhi da lui a te, come se ora vedesse la relazione tra voi, il legame che vi unisce. E questo sembra irritarlo ancora di più. Sputa nella tua direzione, questa volta in modo deliberato. La saliva ti colpisce sulla guancia. Calda, bagnata, rancida. Tod lo afferra, si mettono a gridare l’uno contro l’altro, mentre gli altri passeggeri si tolgono di mezzo. Nella corsia centrale di un autobus non c’è spazio per lottare. I loro movimenti sono goffi, quasi da adolescenti. Tod è molto più grosso di quell’uomo e lo domina. L’aria è calda, pervasa da un’energia violenta. Non avevi mai considerato Tod come un uomo fisicamente forte, prima d’ora. Inchioda l’uomo con un avambraccio e lo prende a pugni in faccia. Non impreca, non parla. È concentrato, furioso.

    Poi all’improvviso torna a sedersi. Sembra aver deciso che la rissa è finita, che ha vinto. L’uomo scivola a terra e si allontana strisciando, poi si rialza, barcollando. Percorre la corsia, scende i gradini. Batte con forza sulle porte, facendo rumore. O riesce ad aprirle, oppure è l’autista, prudente, che le apre, lasciandolo scendere.

    Tutte le facce si voltano a guardare te e Tod. Lui è ancora seduto immobile e guarda in basso. Allora vedi il manico. Non capisci nemmeno che è un coltello, all’inizio. C’è solo quel manico nero e lucente che gli sporge dal petto. Lui lo circonda con le mani, senza toccarlo, come se il fatto di toccarlo lo rendesse reale, facesse accadere ciò che è già accaduto.

    Ora il sangue gli inzuppa la maglietta, scuro sul cotone bianco. Sulla T-shirt c’è l’immagine di una Mustang e la parola Medusa. È un’auto da film. A te è sempre piaciuta quella maglietta, addosso a lui. Una macchina da macho e una donna forte, capace di trasformare le persone in pietra. Tod ora sembra trasformarsi in pietra. Ti inginocchi accanto a lui, pronunci il suo nome, premi la mano sulla maglietta insanguinata. Non estrai il coltello. Sai che non bisogna farlo. Chiedi aiuto, urlando. Chiedi che qualcuno tiri fuori il telefono. In realtà molti hanno già in mano il cellulare e filmano il tuo panico. Altri gridano, perché hanno visto il sangue. Forse uno di loro telefona per chiedere aiuto. Deve essere così.

    Una donna si inginocchia di fronte a te, ma nemmeno lei sa cosa fare. Tod ti guarda, impotente. I polmoni bucati, vuoti, senza più aria. Una spuma rosata sulle labbra. Niente ultime parole, niente Ti amo. Niente richieste di perdono. Niente rimpianti. Niente momenti da film. Ma alla fine sembra ancora cosciente e ti prende la mano. Le vostre dita sono scivolose di sangue e lui stringe forte le tue. Il calore della sua vita che se ne va, stretto tra i vostri palmi. E poi il lento fermarsi, il rilassamento, gli occhi che si velano.

    Quando lo lasci andare, quando ti costringono a lasciarlo andare, le dita sono già fredde. Una questione di pochi minuti. Ti conducono fuori dall’autobus, sotto la pioggia. Qualcuno ti getta una coperta sulle spalle. La tua mano è ancora rossa del suo sangue, e ancora curva come se tenesse la sua. Puoi ancora sentire la pressione della sua stretta. Non piangi. Intorno a te molti cellulari filmano e scattano foto. Alcuni di quei video appariranno nei notiziari, altri su YouTube. Potrai tornare a quel momento quando vorrai, per sempre. Il suono della pioggia, l’odore della città sporca: fumo diesel pioggia sudore odio paura. Quelle cose ti ricorderanno sempre questa notte, qui, quando l’uomo che amavi è stato pugnalato al cuore ed è morto ed è diventato freddo e immobile e anche una parte di te è diventata fredda, come se la lama avesse colpito anche te, attraverso lui. Una scheggia di ghiaccio, uno schizzo di morte. Sarà cruciale per il futuro che ti attende.

    IL PENDOLO DI NEWTON

    Dopo. Dopo che hai deciso per la cremazione al posto di una bara; dopo aver scelto l’urna argento e nera per le ceneri, che è finita in un loculo con una targa, circondata da decine di altre targhe con nomi e date; dopo la cerimonia funebre, celebrata in una sala pulita che sembrava un centro conferenze, con la moquette nuova e profumata al limone; dopo aver ascoltato gli aneddoti divertenti raccontati da colleghi, amici e familiari arrivati dall’America; dopo aver abbracciato ciascuno di loro e aver accettato condoglianze e complimenti per la tua forza; dopo il processo rapido ed efficiente, senza sorprese, perché era evidente fin dall’inizio che l’uomo era colpevole (c’era il video della telecamera di sicurezza dell’autobus): un tossico paranoico e probabilmente schizofrenico, molto pericoloso, che pugnala un giovane, un marito premuroso, un promettente studioso; dopo che l’interesse si è spento e gli articoli sui giornali sono diventati trafiletti, perché l’occhio dei media si è spostato altrove; dopo le vacanze di Natale, in cui sei andata a trovare tua madre e hai ricevuto regali avvolti in carta lucente e bigliettini di auguri; dopo che a mezzanotte del trentuno un anno è diventato un altro; dopo tutto questo, torni al lavoro come se non fosse successo nulla, come se ora la tua vita continuasse uguale a prima, solo senza di lui, senza tuo marito, senza Tod.

    Morte e perdita e lutto non ti esentano dalla banalità.

    Lavori in uno studio legale come segretaria specializzata. Non è il sogno della tua vita ma è quello che hai trovato dopo che Tod ha ottenuto quel posto di ricercatore e vi siete trasferiti a Londra dal Galles, il posto dove sei nata e dove vi siete conosciuti, all’università (lui studiava letteratura, tu teatro). L’agenzia di lavoro interinale ti aveva chiesto di riempire un questionario. Tu sei in grado di digitare al computer in modo rapido e accurato e qualcuno da qualche parte era in maternità. Così sei stata assunta temporaneamente da Bradley & Bradley, uno studio legale con una ventina di avvocati che si trova a Hackney. Poi, dopo due anni, il lavoro da temporaneo è diventato permanente.

    L’avvocato per cui lavori è un uomo di mezza età che indossa sobri completi blu, ti dà i bonus vacanza, si occupa soprattutto di eredità e proprietà immobiliari e non ha mai detto o fatto nulla di inopportuno.

    Tu te ne stai seduta alla tua scrivania, saluti i clienti, organizzi appuntamenti e riunioni, scrivi promemoria, fotocopi documenti legali, scansioni certificati di nascita, matrimonio, morte, correggi testamenti e revoche, organizzi i fascicoli e alla fine il lavoro ti piace, soprattutto per la sensazione di ordine. Ti ha sempre dato un’impressione di controllo, come se ci fosse un piano generale. Tutta questa storia di nascita, vita, matrimonio e morte ed eredità. Ci sono leggi per ciascuno di questi momenti, risposte a ogni domanda, e il tuo capo le conosce, oppure può cercarle nei suoi testi. Naturalmente, la morte di Tod ha cambiato tutto.

    Non molto tempo dopo il tuo ritorno, tre o quattro giorni, il capo ti chiama nel suo ufficio. È grande come il vostro soggiorno, tuo e di Tod (pensi ancora in termini di te e Tod), al settimo piano, con vista sul Tamigi, sullo Shard, su Londra. Scrivania di mogano grande e oblunga, come un tavolo da biliardo. Sopra, foto di moglie e figli del tuo capo. I figli ora sono grandi e vanno all’università: ragazzi ben integrati, diligenti, destinati a modesti livelli di successo.

    Sul lato sinistro della scrivania c’è uno di quegli oggetti con sfere d’acciaio sospese a cavi, un pendolo di Newton, e le sfere oscillano da un lato all’altro, urtandosi e scandendo il tempo. Clic. Clic. Clic.

    Dietro la scrivania, il tuo capo sorride gentile, con simpatia. Ha un neo al centro della fronte, i capelli corti e tinti di biondo per nascondere la calvizie incipiente. Ti chiede come va, come stai andando avanti. È un’espressione che ultimamente le persone usano spesso quando parlano con te. Dice che sa quanto deve essere difficile.

    Mentre parla, rigira una penna tra pollice e indice, un movimento costante, infinito, che ti dà le vertigini.

    Ti volti verso la finestra. Vedi un aeroplano nel cielo di un colore monotono, indefinito, grigio lavagna. L’aereo lascia una scia bianca come gesso. Quando torni a girarti, il tuo capo sta dicendo che ha ricevuto delle lamentele. Appuntamenti organizzati male, clienti che si presentano al momento sbagliato, o a cui sono state date informazioni errate. Tu sai che è vero, e non ti prendi la briga di spiegare, negare, giustificare. Fai solo un cenno affermativo.

    «Ha bisogno di più tempo?» ti chiede.

    Tu non rispondi e lui si affretta ad aggiungere che è disposto a concederti tutto il tempo di cui hai bisogno. È una frase ridicola. Come puoi dare del tempo a qualcuno? Come se il tempo fosse un oggetto, un pacchetto. Immagini una vignetta come quelle che pubblicano sui quotidiani: un tizio che consegna a un altro tizio una borsa con su scritto tempo. Ecco, prendine ancora un po’. Ma il tuo capo dice sul serio, ha buone intenzioni. Ormai hai esaurito il permesso per lutto e tutte le ferie per l’anno in corso. Ma lui è disposto a darti un permesso non retribuito, e a tenerti il posto.

    «Finché non si sentirà pronta a tornare» dice, e sorride di nuovo.

    Le sfere del pendolo di Newton continuano a urtarsi inutilmente tra loro. Il capo guarda l’orologio con discrezione. Un leggero ruotare del polso, un’occhiata rapida. È un gesto che ha imparato bene. Sono le nove e quarantacinque e ha un appuntamento alle dieci. Una riunione che questa volta non hai programmato in modo errato per trascuratezza. Sai che è questo il vero problema: la trascuratezza. La mancanza di cura. Non è che sei distratta o sei diventata sventata per lo shock. Semplicemente non ti importa più di fare bene il tuo lavoro. Tutte queste persone che vanno e vengono. Parlando di Michelangelo. Non ricordi da dove viene questa citazione. Solo che vuole indicare una mancanza di senso.

    Dici al tuo capo che forse è meglio se ti licenzi e non torni più. Lui drizza la schiena, prende un fascio di documenti e li sfoglia come un enorme mazzo di carte, poi torna a posarli. «Non intendevo questo» dice. «Non sto cercando di liberarmi di lei. È solo che ci sono delle cose da fare. Che ne dice di passare part-time? Potrebbe venire solo alcuni giorni alla settimana, per un po’ di tempo.» Si gratta il neo e ti guarda, speranzoso.

    Scuoti la testa, come se fosse già deciso. Ed è così. Gli chiedi se ha mai perso una persona cara. Non in modo accusatorio, ma con curiosità. Lui è così immerso nei postumi della morte (a chi vanno i soldi e quanti, o quale percentuale delle proprietà) e tu non hai mai avuto motivo di pensarci, prima. Era solo una parte dei tuoi compiti quotidiani, che svolgevi in nome di altre persone.

    Il tuo capo deve rifletterci un attimo. Si gratta il neo. «Be’, i miei genitori sono morti tutti e due» dice. Poi, forse rendendosi conto che è un commento trito, aggiunge: «Ma è una cosa diversa, naturalmente. Hanno vissuto bene e sono morti anziani». Guarda di nuovo l’orologio. «Non abbia fretta di decidere» dice. «Si prenda un po’ di tempo per pensarci. Io posso tenerle il posto, e contattare l’agenzia per farmi mandare una sostituta.»

    Ti chiedi se non l’abbia già fatto. Probabilmente sì. È un uomo gentile, ma anche efficiente. Non ti senti offesa dal fatto che stia già programmando la tua sostituzione. Non provi emozioni al riguardo, in un senso o nell’altro.

    «No» dici. «Va bene così. Qui ho finito.»

    Il tuo tono categorico suona reale. Finito non si riferisce solo a questo lavoro, ma anche a questa città, questa nazione, questa vita. Non è mai stata davvero tua, in ogni modo. Sbadigli, non riesci a evitarlo, e inarchi la schiena. Le sedie in quell’ufficio hanno lo schienale duro e ti fa male il coccige a stare seduta. Sei stanca di questa situazione e sai che anche lui lo è. Ma c’è un’etichetta da rispettare. Ci sono le convenienze sociali.

    «Cosa farà?» ti chiede.

    Una buona domanda. E un buon modo di avviare la conversazione verso la fine, mettendoti alla porta.

    «Andrò via» rispondi. Guardi il punto dove si trovava l’aereo. Ora è scomparso, ma la scia indugia ancora nel cielo, fondendosi a poco a poco con le nuvole. «A Praga.»

    Lui dice «Ah» come se capisse, ma aggrotta la fronte, incerto. Dice in modo esitante di aver sentito che Praga è bellissima, sperando in una spiegazione. Gli racconti che a Praga Tod ti ha chiesto di sposarlo, ed è la verità. Ma non è questo il motivo per cui in questo momento hai avuto l’impulso di tornarci. Il cielo, l’aereo. Il grigiore piatto. Ricordi Praga in monocromo, come uno schizzo a carboncino. Fredda e scolorita. Proprio come ti senti tu.

    «Forse è una buona idea» dice lui. «Andare via, allontanarsi. Non riesco a immaginare…» Si blocca. Guarda la foto della moglie, forse cercando di figurarsi la possibilità: una morte rapida e improvvisa, e lui è quello che resta vivo. Tu fissi il pendolo di Newton. Le collisioni delle sfere d’acciaio sembrano sempre più forti e riempiono la stanza, assordanti come cannonate. Boom. Boom. Boom. Ti risuonano nel cranio. Ti chini in avanti e tocchi l’ultima sfera con un dito, fermando il movimento. Il tuo capo ti guarda, sorpreso, poi guarda il pendolo. Le sfere sono in stasi. Immobili. Silenziose.

    «Ho sempre odiato quest’oggetto» dici.

    TRANSITO

    Il viaggio che ti sei riproposta ti dà uno scopo, delle cose da fare: scrivere una lettera formale di dimissioni dallo studio legale, prenotare un volo, trovare il passaporto, rescindere il contratto d’affitto dell’appartamento, preparare i bagagli, decidere cosa tenere (libri, ninnoli, fotografie) e cosa lasciare o buttare via (tutto il resto). È quello che si chiama mettere in ordine i propri affari. Ed è presto fatto e sei in viaggio, in transito, per strada.

    E poi questo: sull’aereo per Praga, la donna accanto a te ha un malore durante il volo. Sembra una cosa seria, forse un infarto.

    In seguito ti domanderai se ora questa è la tua maledizione, dopo aver permesso che Tod morisse: se sarai sempre circondata dalla morte ovunque tu vada. Pensieri deliranti, ombrosi. Il fato e le maledizioni si trovano nelle favole, non nella vita reale, giusto?

    Prima che succeda, c’è il solito video sulla sicurezza, la dimostrazione delle hostess, il decollo e un po’ di cortese conversazione: la donna ti fa delle domande in un momento in cui tu non vuoi che ti si chieda nulla. Dove sta andando? Quanto ci resterà? Rispondi in modo vago, evasivo, tenendo in mano gli auricolari del tuo lettore mp3 per comunicare il tuo desiderio di pace e privacy, ma lei non capisce l’allusione. Alla fine, per evitare altre chiacchiere, quando lei fa una pausa per prendere fiato ti infili gli auricolari nelle orecchie con un sorriso di scusa insincero.

    La donna incrocia le braccia e tiene lo sguardo fisso davanti a sé, chiaramente offesa.

    Il lettore mp3 è ancora pieno della musica di Tod. I suoi gusti erano tirannicamente alternativi e tu non ti sei mai presa la briga di aprire un tuo account personale per scaricare canzoni e album di tuo gusto, anche perché avresti dovuto sopportare il suo sarcasmo. Perciò hai ceduto. Si tratta di quelle piccole parti di noi a cui rinunciamo, di quelle concessioni che facciamo per mantenere un rapporto, quando crediamo di amare qualcuno.

    Tu amavi Tod. Ne sei sicura. Come sei sicura di tutto il resto, in questo periodo.

    Ogni tanto, la donna di fianco a te si muove, inquieta. Ha il posto accanto al finestrino ma si è stancata di guardare il buio fuori e non ha un libro, una rivista, nessuna distrazione. È anziana ma non troppo, sulla sessantina. L’età di tua madre, che sembra non manifestare alcun segno di cattiva salute: cammina, fa escursioni, corre la mezza maratona. Poco dopo il funerale ti ha raccomandato di fare tai chi, la sua ultima passione. Ha detto che ti avrebbe aiutata a superare il momento. Riferirsi al tuo lutto come il momento lo ha trasformato in un oggetto, una creatura, un incubo. Hai provato a vederti mentre eseguivi lentamente delle mosse tipo karate per difenderti dal momento e tenerlo a bada. È stato difficile anche solo immaginarlo.

    Quando hai chiamato tua madre per dirle di Praga, lei ha sospirato rumorosamente, facendo vibrare le labbra come un cavallo, e ha detto: «Hai sempre avuto la tendenza a piangerti addosso».

    Suo marito, tuo padre, è morto dieci anni fa. Loro erano già separati. Tua madre non si è nemmeno presa un giorno di permesso dal lavoro, ha organizzato una borsa di studio universitaria a suo nome, destinata ai giovani svantaggiati, si è ubriacata di Gimlet e ha ammesso con te, in privato, che secondo lei tuo padre aveva subìto abusi da bambino. Da parte di suo zio, quello con il pizzetto e le mani delicate. Non fidarti mai di un uomo dalle mani delicate, ha dichiarato in tono solenne. Uno strano consiglio materno, che ti ha stranamente colpita.

    La donna accanto a te non somiglia affatto a tua madre, ma non sembra nemmeno malaticcia. È snella e i suoi movimenti sono vigorosi. Senti l’aroma del suo profumo e della sua crema idratante. Si astiene dal drink alcolico in omaggio e opta per un succo di pomodoro. Non ci sono pasti in quel volo che dura solo un paio d’ore, ma quando distribuiscono gli snack lei viene servita prima di tutti gli altri, perché ha scelto l’opzione vegetariana o quella senza

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