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Non tocchiamo questo tasto: Musica classica e mondo queer
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E-book279 pagine3 ore

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«Perché dovrebbero interessarmi i gusti sessuali di un compositore?»
Ecco quale potrebbe essere la prima reazione di fronte a uno studio che affronta il tema LGBTQ dal punto di vista della musica classica. Questo libro sfida decenni di divulgazione eteronormativa, talvolta ipocrita e parziale, e getta una luce sugli aspetti censurati o edulcorati di compositori e compositrici che oggi potremmo annoverare nell’ambito queer, secondo l’ipotesi critica che conoscerli più a fondo sia indispensabile per comprendere meglio la loro arte.
Dalle antiche tracce del periodo barocco al Novecento “liberato” di John Cage e Leonard Bernstein, passando per le tempeste romantiche e i turbamenti fin de siècle: una appassionante galleria di personaggi, squarci di vita e atmosfere che, senza cedere al gossip, offrono al lettore prospettive inedite sulla storia culturale dell’Occidente e, al musicofilo, strumenti nuovi per un’esperienza di ascolto più consapevole. L’intreccio tra arte e vita si nutre di desideri, sensazioni e stati d’animo che, come scrisse Hans Werner Henze, «dovevo provare e sperimentare su di me, prima che potessero diventare musica».
Luca Ciammarughi (Milano, 1981) si dedica al concertismo in veste di pianista, alla condu¬zione di trasmissioni radiofoniche, all’attività di scrittore. Ha scritto importanti saggi, spesso incentrati sul rapporto fra musica classica e società, e dal 2007 è quotidianamente in onda su Radio Classica: la sua trasmissione “Il pianista” è un riferimento nel panorama italiano. Ha collaborato con le principali istituzioni musicali italiane, dal Teatro alla Scala all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Dal 2020 è direttore artistico del Festival PianoSofia alla Casa degli Artisti di Milano e dal 2021 di PianoLab a Martina Franca (TA).
LinguaItaliano
Data di uscita13 mag 2022
ISBN9788863953923
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    Non tocchiamo questo tasto - Luca Ciammarughi

    ANTICHI SEGNALI

    PRELUDIO: LAMENTO SUL RODANO SEVERO

    Le tracce antiche di compositori o compositrici dall’identità sessuale eccentrica non sono molte: i casi in cui l’omosessualità veniva citata erano perlopiù quelli in cui tale condizione determinava un’infrazione della legge o del buon costume, una condanna, uno scandalo. L’amore che non osava dire il proprio nome, sebbene certamente praticato, emergeva soltanto al negativo. Così è per esempio nel caso di Johann Rosenmüller (1619-1684), che ricopriva la carica di Kantor nella celebre Thomasschule di Lipsia, dove Bach avrebbe assunto il medesimo ruolo circa settant’anni dopo: accusato di aver sedotto diversi ragazzi del coro, e arrestato nel 1655 per delitto contro il costume, Rosenmüller riuscì a fuggire e si rifugiò a Venezia, dove fu dapprima trombonista nella Basilica di San Marco e poi maestro del coro di orfanelle all’Ospedale della Pietà, istituzione poi divenuta celebre grazie a Vivaldi.

    Esiste però anche qualche traccia, seppur isolata, di una visione al positivo della tematica omosessuale: la più evidente è opera di una donna, Barbara Strozzi (1619-1677), compositrice dilettante (nel senso più alto del termine) che nel suo Lamento sul Rodano severo mise in musica la liaison fra Luigi XIII di Francia e il suo favorito, il giovane marchese Henri de Cinq-Mars. Una donna che mette sulla partitura l’amore di due uomini, in pieno Seicento? Non c’è da stupirsi eccessivamente, se consideriamo che la compositrice, figlia adottiva dell’intellettuale veneziano Giulio Strozzi, faceva parte di un sottogruppo (l’Accademia degli Unisoni) di quella Accademia degli Incogniti che propugnava, nella libertina Serenissima, la libertà di amare persone dello stesso sesso.

    Suonatrice di viola da gamba (Ritratto di Barbara Strozzi), Bernardo Strozzi, 1640 ca.

    È in questo clima culturale che Monteverdi può inserire un episodio omosessuale nell’Incoronazione di Poppea: la scena fra Nerone e Lucano, favorito dell’imperatore, evoca esplicitamente un amplesso erotico⁰¹. Nello stesso ambiente veneziano, Francesco Cavalli mette in scena una passione lesbica nella Calisto, in cui la ninfa che dà il titolo all’opera rifiuta il corteggiamento di Giove, almeno finché questi non si tramuta in Diana: è allora che Calisto cede, concedendosi alla dea della caccia. La straordinarietà del Lamento sul Rodano severo non si limita però all’esplicita tematica omosessuale. Solitamente, i lamenti erano affidati a una voce femminile: dal Lamento d’Arianna di Monteverdi, sorta di archetipo del genere, si dipana tutto un filone in cui la donna, secondo un luogo comune considerata più debole dell’uomo, si affligge per una qualche ragione, solitamente amorosa.

    Stavolta, invece, la deplorazione è tutta nella voce di un ragazzo e del suo fantasma. Già questo aspetto introduce un ribaltamento della prospettiva usuale. Ma c’è un altro elemento: l’autore del testo (probabilmente Gian Francesco Loredan, sempre della cerchia degli Incogniti) e la compositrice prendono un tema d’attualità politica e lo declinano mettendo l’accento sugli aspetti privati e amorosi. La vicenda è quella di Henry d’Effiat (1620-1642), marchese di Cinq-Mars, assassinato a soli ventidue anni per aver preso parte a una congiura contro il Cardinale Richelieu e Luigi XIII di Francia. Era stato proprio Richelieu a presentare il giovane, appena diciottenne, al sovrano notoriamente omosessuale, che fece immediatamente dell’affascinante ragazzo il suo favorito. Spirito ardito, coraggioso e ambizioso, Cinq-Mars salì presto la scala sociale e, ben lungi dal manifestare riconoscenza per il Cardinale, iniziò a tramare contro di lui. Il giovane marchese si trovava inoltre in contrasto con le posizioni anti-spagnole del re e di Richelieu, propugnando una pace che il sovrano non aveva alcuna intenzione di favorire. Pur mosso da nobili ideali, il giovane scudiero spinse troppo oltre la sua tracotanza: la congiura venne sventata e Cinq-Mars andò incontro all’esecuzione capitale, insieme ai suoi compari (solo Gastone d’Orléans, fratello del re, venne risparmiato).

    Barbara Strozzi non soltanto metteva in musica un fatto di attualità, distaccandosi dalla consuetudine di declinare il genere del lamento in chiave mitologica⁰²: lo faceva senza nascondere, e anzi evidenziando, la componente omoerotica della vicenda. L’incipit mette subito l’accento sul corpo del giovane: un corpo ormai privo di vita, che giace come tronco infelice sul fiume Rodano. La nota Do ribattuta dalla voce all’inizio dà l’idea dell’immoto cadavere del dolente garzon, ma poco dopo la linea melodica si anima, sul verso «Enrico il bel, quasi annebbiato sole»: sulla parola sole, in particolare, Strozzi inserisce il primo di una serie di madrigalismi atti a sottolineare le parole-chiave. Allo stesso modo vengono posti in evidenza l’aggettivo vezzose, riferito alla bellezza delle guancie del giovane, e il sostantivo oro, riferito ai capelli biondi di Cinq-Mars, ormai macchiati di funeste brine. E un salto d’ottava ascendente marca drammaticamente il diluvio di sangue che irrora il candido petto di Henri. A questo recitativo iniziale segue una sorta di arioso, in cui Cinq-Mars ammette la propria colpa (Non mi chiamo innocente) e l’offuscamento della ragione che ha causato la sua rovina, ma sottolinea anche di essere stato bersaglio dell’invidia. Barbara Strozzi ci fa partecipi, attraverso la retorica degli affetti, dei vari sentimenti di Cinq-Mars (senso di colpa, rabbia, rimpianto, dolore per l’ingiustizia, odio, amore): la sottigliezza psicologica è straordinaria. Culmine emozionale del Lamento è una sezione Adagio, introdotta da un dolente refrain strumentale, in cui emerge con plastica evidenza il rapporto amoroso fra Luigi XIII e Cinq-Mars: non platonicamente, come sentimento, ma come evocazione sensibile dell’amplesso erotico.

    Mentre al devoto collo

    tu mi stendevi quel cortese braccio,

    allor mi davi il crollo,

    allor tu m’apprestavi il ferro e ‘l laccio.

    Quando meco godevi

    di trastullarti in solazzevol gioco,

    allor l’esca accendevi

    di mine cortigiane al chiuso foco.

    Il fantasma di Cinq-Mars non si capacita di come il re abbia potuto far assassinare il suo favorito, al cui devoto collo stendeva il cortese braccio, e con il quale si trastullava in sollazzevol gioco. Su tutte le parole-chiave del godimento sessuale (godevi, trastullarti, sollazzevol, e più avanti gioivi) la compositrice si sofferma lungamente, con melismi elaborati che sottolineano il legame erotico fra l’uomo e il ragazzo. Nelle strofe finali, invece, salti discendenti evidenziano il passar del giovane «dal tutto al niente»: dalla sensualità di suoni che evocano gli amplessi si passa alla cupezza, ai silenzi. Così avrebbe potuto terminare il Lamento. Ma il finale propone una versione che oggi definiremmo romanzata della love story (che fu più probabilmente una sex story). Si dice infatti che, con crudo sadismo, Luigi XIII abbia detto, al momento dell’esecuzione capitale del suo favorito: «Vorrei proprio vedere la smorfia che starà facendo a quest’ora su quel patibolo» («Je voudrais bien voir la grimace qu’il fait a cette heure sur cet echafaud»). L’autore del testo e la compositrice, invece, cercano di eternare il legame fra i due attraverso un finale pentimento del re:

    Luigi, a queste note

    di voce che perdon supplice chiede,

    timoroso si scuote

    e del morto garzon la faccia vede.

    Mentre il re col suo pianto

    delle sue frette il pentimento accenna

    tremò Parigi e torbidossi Senna.

    Il Lamento si chiude così sul pianto del re pentito, ben più di un sentimento di pietas: la disperazione per aver perso il suo amante. Il tremar di Parigi e l’intorbidarsi della Senna – del sangue dell’amato – vengono genialmente rappresentati in musica da un impetuoso tremolo appoggiato su rapidi ribattuti del basso: una figura musicale che chiaramente dà rilievo anche allo sconvolgimento interiore di cui il sovrano è preda.

    Barbara Strozzi avrebbe potuto trattare l’episodio in modo distaccato o astratto: donna cresciuta in un ambiente intellettualmente illuminato, seppe invece trasformare un fatto di cronaca in una sorta di sublime rievocazione di un amore tragico e diverso.

    HÄNDEL, QUEL SASSONE COSÌ CARO AI CARDINALI

    Ancora prima di leggere studi che ipotizzassero l’omosessualità di Georg Friedrich Händel (1685-1759) mi ero accorto del magnetismo che la sua musica aveva sulle melochecche (altolà: non è un insulto, ma la parola coniata da Alberto Arbasino con spirito affettuoso e giocosamente autoironico per indicare il tipico melomane gay). Nelle opere del caro sassone, più che in quelle di qualsiasi altro compositore del Settecento, la melochecca barocca trova la sua estasi. Il perché appartiene all’ineffabile, ma si può tentare una spiegazione: da un lato le opere e le cantate di Händel sono popolate di quelle eroine tragiche e passionali che esercitano un magnetismo indubbio sulla sensibilità queer; dall’altro, all’intensa e dolente passionalità di quelle eroine (e talvolta eroi) fa da contraltare un virtuosismo pirotecnico – gorgheggi ovvero colorature – che rappresenta il contraltare felicemente maniacale di quella melancholia. Non c’è solo questo, però. Ritroviamo Mania (nel senso più alto del termine: una sorta di esaltazione creativa) e Melancholia in gran parte del repertorio barocco, con i suoi contrasti accesi e la predilezione per la categoria del meraviglioso, del fantastico, del bizzarro. In Händel, però, a queste dimensioni si aggiunge un quid sentimentale, un tipo di languore al contempo nostalgico ed erotico, talvolta rilucente e talaltra oscuro, che ritroviamo in pochi altri compositori dell’epoca; per esempio – ma in maniera molto diversa – in certe arie espressive di Vivaldi (un buon esempio potrebbe essere Sovente il sole, area di Perseo dall’Andromeda Liberata). Non si tratta di affermare che Händel sia più espressivo di Bach o Rameau, ma che la sua espressività sia di natura diversa, più diretta, quasi sfacciata, oggi diremmo: più pop. Ed è ciò che infatti è stato rimproverato a Händel dalla fazione avversa di ascoltatori: troppo sentimentale, meno logico di Bach, meno complesso nelle architetture (anche se la polifonia la conosceva, eccome!), meno virile. Sono accuse molto simili a quelle che ritroveremo tra i sostenitori di una superiorità morale di Beethoven su Schubert.

    George Friedrich Händel, 1710 ca.

    Ma da dove Händel aveva tratto questo quid languidamente sentimentale, che lo differenziò ben presto da attitudini più nordiche? Era già nel suo sangue o fu un’acquisizione? Natura o cultura? La questione è aperta, ma la cosa certa è che il viaggio in giovane età in Italia fu determinante. Händel ebbe la fortuna di entrare in contatto in maniera diretta con la musica di Alessandro e Domenico Scarlatti, Bernardo Pasquini, Agostino Steffani, Giovanni Bononcini, Nicola Porpora, Arcangelo Corelli e molti altri. Si abbeverò alla fonte di quell’italica stravaganza barocca che al Nord era emblema di grandeur artistica ma anche di effeminata rilassatezza dei costumi, opposta al controllo di stampo anglopatriarcale. Il sassone arrivò nello Stivale presumibilmente nel 1705 o 1706. Secondo il biografo John Mainwaring, Händel, appena ventenne, era stato invitato dal principe di toscana Ferdinando de’ Medici; altre fonti dicono invece che l’invito era partito dal granduca Gian Gastone de’ Medici, ultimo sovrano della casata e fratello di Ferdinando. Entrambi potevano certo apprezzarne le qualità, non soltanto musicali: Ferdinando era noto per la sua bisessualità e si circondava di favoriti come i castrati Petrillo e Cecchino, suo amante di lunga data; Gian Gastone, malgrado un matrimonio tormentato e privo di figli con Anna Maria Francesca di Sassonia-Lauenburg, fu apertamente omosessuale, al punto da viaggiare non con la consorte ma con Giuliano Dami. È certamente ad Amburgo, in viaggio con Dami, che Gian Gastone conobbe Händel e quasi sicuramente ne ascoltò l’opera Nero (Nerone), andata in scena il 25 febbraio del 1705⁰³. Gli storici sono concordi nell’evidenziare la dissolutezza di Gian Gastone, che si abbandonava agli eccessi più sfrenati tanto nelle capitali d’Europa (Praga, soprattutto) quanto in patria⁰⁴. Qui, Dami reclutava ragazzi del popolo (detti ruspanti perché pagati con i ruspi, le monete del Granducato di Toscana) affinché movimentassero le sue giornate – si narra che amasse anche essere insultato e strapazzato⁰⁵. Secondo Luigi Gualtieri, staffiere del granduca e autore di una Storia della nobile e reale famiglia de’ Medici, Gian Gastone avrebbe approfittato dell’attività di mecenate del fratello per avere rapporti extra-artistici con musicisti come Baldassarre Galuppi (il Buranello) o il castrato Gaetano Majorano (il Caffarelli). Non conosciamo con esattezza la natura del rapporto di Händel con Ferdinando o Gian Gastone, ma certamente i due sapevano benissimo che il giovane di Halle era già abituato ai circoli omoerotici: nel suo secondo viaggio a Berlino aveva rinsaldato l’amicizia – non sappiamo quanto stretta – con il compositore Attilio Ariosti⁰⁶, noto omosessuale, il quale fu rimproverato immediatamente dopo dai suoi superiori e costretto a lasciare la corte per traferirsi a Vienna. Ma i rapporti fra Ariosti e Händel di certo non si guastarono: sappiamo che Ariosti si esibì alla viola d’amore negli intervalli dell’Amadigi di Händel al King’s Theatre di Haymarket il 12 luglio 1716, e che collaborò con lui nel 1719 per le audizioni di nuovi cantanti per la Royal Academy. La corte fiorentina aveva stretti legami con le corti romane, e non c’è da stupirsi se ritroviamo Händel nei pomposi palazzi dei cardinali Pamphili, Colonna, Ottoboni e Ruspoli. Il 14 gennaio 1707, Francesco Valesio, nel suo Diario di Roma, scrive che «è giunto nella nostra Città un Sassone, eccellente suonatore di cembalo e compositore, il quale oggi ha fatto gran pompa di sé suonando l’organo nella Chiesa di San Giovanni, con stupore di tutti i presenti».

    Se a Firenze l’omoerotismo non mancava, a Roma impazzava. A quanto narra Salvator Rosa nella satira La musica, Roma era già nel Seicento la mecca del vizio sodomitico. Non c’è da meravigliarsi che il giovane Händel, bello e talentuosissimo, mandasse in brodo di giuggiole mecenati che certamente erano estimatori non solo della sua arte. Il contesto culturale in cui il sassone si immerse era quello dell’Accademia d’Arcadia, fondata da Cristina di Svezia, sovrana dalle predilezioni saffiche⁰⁷. Il personaggio-chiave, fra i musicisti arcadi, era Arcangelo Corelli, che – secondo le ricerche di Clive Paget – sviluppò una relazione a lungo termine con il violinista Matteo Fornari. Corelli fu anche fra i favoriti del Cardinal Pietro Ottoboni, il quale, secondo la colorita descrizione che nel 1740 ne fece Charles De Brosses, era «senza morale, senza rispettabilità, debosciato, decadente, amante delle arti e fine musicista»⁰⁸. Mecenate anche nel campo dell’arte figurativa, scultorea e dell’architettura, Ottoboni amava i fasti, la prodigalità e i piaceri erotici: il suo favoritissimo era il castrato Andrea Adami, maestro di cappella alla Sistina dal 1700 al 1714. A Ottoboni è attribuito il testo della Cantata HWV 150 di Händel, che mette in musica con accenti languidi e tragici il mito di Ero e Leandro (per inciso, notiamo che questo amore infelice colpì l’immaginario di molte figure queer, da Marlowe a Byron, fino ad August Von Platen).

    Ritratto del cardinale Pietro Ottoboni, Francesco Trevisani, 1689 ca.

    Ancora più importante di Ottoboni, nei tre anni cruciali che Händel passò a Roma, fu il Cardinal Benedetto Pamphili, poeta, librettista e amante della musica e delle arti. Egli manteneva a corte cinque cantanti e almeno dieci strumentisti, scrivendo di persona i testi di cantate e oratori. Il paradosso è che, in questa società così libertina e artisticamente vivace, le rappresentazioni operistiche vere e proprie erano vietate poiché considerate immorali. È per questo che Händel a Roma scrive cantate e oratori, ma non opere. Fra le maschere dell’Arcadia, in cui ogni arcade porta un nome fittizio, l’erotismo rimosso dalle rappresentazioni pubbliche può avere invece libero corso: il nickname (diremmo oggi) di Ottoboni è Crateo Ericino Pastore, quello di Pamphili è Fenicio Larisseo, quello di Ruspoli, altro importante protettore di Händel, Olinto Arsenio. Le pastorellerie e le vicende mitologiche che affollano le cantate del caro sassone rappresentano un mondo altro rispetto a quello dei dogmi cattolici. In questo mondo fittizio, fatto di loci amoeni e situazioni che richiamano le figure omoerotiche (Ganimede, Alexis, Coridone) che popolano i versi di Anacreonte, Teocrito o Virgilio, gli omosessuali del tempo potevano avvalersi di un sistema di codici di riconoscimento ben precisi. Del resto, un meccanismo analogo era già riscontrabile a fine Cinquecento nel duplice mondo evocato da Torquato Tasso⁰⁹: da un lato quello controriformistico (ma anche torbido e passionale) della Gerusalemme liberata, dall’altro quello liberatorio della favola pastorale Aminta, in cui il poeta si abbandona a una voluttà gioiosa e sfrenata, vagheggiando un’età dell’oro di innocente edonismo («S’ei piace, ei lice»: se piace, è lecito)¹⁰.

    Il Cardinal Pamphili non si limitò a proteggere Händel, ma lo omaggiò esplicitamente nei suoi versi: nell’oratorio Il trionfo del tempo e del disinganno, in cui le allegorie di Piacere e Verità competono per conquistare l’anima della Bellezza, è inserito un intermezzo strumentale all’organo che certamente fu eseguito dal caro sassone, evocato nel libretto di Pamphili con queste maliziose parole: «Un leggiadro giovinetto, / Bel diletto / Desta in suono lusinghier. […] Ha della destra l’ali, / Anzi fa con la mano / Opre più che mortali». Ma c’è di più: il leggiadro giovinetto mise in musica anche una cantata che Pamphili gli aveva esplicitamente dedicato: Hendel non può mia musa, in cui il poeta si dichiara impossibilitato a scrivere versi che siano degni della lira del giovane musico. Come ha sottolineato la studiosa Ellen T. Harris nel volume Handel as Orpheus, il compositore viene paragonato nei versi di Pamphili a Orfeo, figura che non era soltanto simbolo del potere della musica, ma che rappresentava anche un mito fondativo per gli omosessuali: è il poeta ellenistico Fanocle, nel III secolo a.C., a dirci che Orfeo fu il primo, in Tracia, a desiderare gli uomini e a disdegnare le donne, una volta tornato dagli inferi dove aveva perduto Euridice (Virgilio riprende poi questa tesi nella quarta delle Georgiche). E Poliziano, nella sua Favola di Orfeo, faceva dire al cantore – in realtà ormai sprovvisto dei connotati tipici dell’eroe virile – che Giove «si gode in cielo il suo bel Ganimede, / e Febo in terra si godea Iacinto» e che perfino Ercole cedeva, con il bello Ila, a questo santo amore. L’insistenza di Pamphili nel qualificare Händel come un giovane Orfeo non era casuale. Fra le cantate su testo del Cardinal Pamphili ve n’è una particolarmente significativa fin dal titolo, Delirio amoroso, in cui si narra di una sorta di ménage à trois fra due giovani uomini (Tirsi e Fileno) e Clori, graziosa pastorella che finisce per perdere entrambi quando essi scoprono la sua volubilità.

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