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L'opera italiana del Novecento
L'opera italiana del Novecento
L'opera italiana del Novecento
E-book806 pagine12 ore

L'opera italiana del Novecento

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Info su questo ebook

Checché se ne creda o dica, il teatro d’opera gode ottima salute, in Italia e fuori. Il repertorio ottocentesco popola le stagioni di tutto il mondo, mentre gli Autori del Novecento devono ancora fare i conti con un pubblico poco affezionato. Come dire: con la Turandot di Puccini (peraltro postuma), basta così; è finita, gli autori sono troppi ed eterogenei.
Invece no, perché da quel 1926 è passato quasi un secolo e il tanto materiale accumulato piange, o forse, meglio, reclama considerazione larga, assiemistica, veramente o anche semplicemente storiografica. Si prova a consolarlo e onorarlo questo libro, che i cent’anni li introduce, incornicia, suddivide e riassume; e mentre li sospende fra estetica e cronaca ma anche fra dischi e libri, li percorre con molti nomi e cognomi, titoli e personaggi, compositori e librettisti, direttori e orchestre, registi e scenografi, critici e cantanti. Troppi? Sarà breve per certi motivi arcinoti, il Novecento, ma per la quantità dei prodotti e delle testimonianze d’arte e di musica è lungo, lunghissimo, inevitabilmente finito e tuttavia reso quasi infinito da giovani musicisti comparsi verso la sua fine e ben proiettati a lavorare e produrre nel Duemila.
LinguaItaliano
Data di uscita15 ott 2020
ISBN9791220208178
L'opera italiana del Novecento

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    Anteprima del libro

    L'opera italiana del Novecento - Piero Mioli

    Piero Mioli

    L'opera italiana del Novecento

    UUID: 991a779f-2fc9-46ff-9c6c-c9a98d01b43a

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

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    Indice dei contenuti

    Premessa

    Prima parte: Panorama

    I. Qual risorta fenice novella

    II. Locations

    III. Premières

    IV. Due RAI

    Seconda parte: Tra vero e simbolo

    I. Dalla nebbia alla tempesta (1901-1922)

    II. Sinfonico Smareglia

    III. Puccini novellatore

    IV. Il resto di Mascagni

    V. La tenacia di Alfano

    VI. Il Medioevo di Zandonai

    VII. Con il capolavoro

    Terza parte: Per un modernismo

    I. Ventennio (1923-1945)

    II. Le fiabe di Busoni

    III. L'altro Respighi

    IV. Pizzetti drammaturgo

    V. Le metamorfosi di Malipiero

    VI. Il lustro di Casella

    VII Antichi e moderni

    Quarta parte: Avanguardia d'Italia

    I. Miracolata e contestata (1946-1968)

    II. Ghedini o dell'equilibrio

    III. I folli voli di Dellapiccola

    IV. Due volte Petrassi

    V. La satura di Maderna

    VI. Nono il messaggero

    VII. La diloga di Togni

    VIII. Operisti in scena

    Quinta parte: Teatri d'idea e di vita

    I. Il paese per moto contrario (1696-2000)

    II. Berio come Proteo

    III. Manzoni da Marx a Max

    IV. Bussotti e i suoi teatri

    V. Musicisti in scena

    VI. Quadrilatero e triangolo

    VII. Nel mezzo del cammin

    Sesta parte: In scena

    I. Maestria concertante

    II. Cantanti tutto

    III. Contesti

    Settima parte: Pagine

    I. Mediante

    II. King James

    III. Discobolìa

    Bibliografia

    Premessa

    Cento Anni: così Giuseppe Rovani volle intitolare il suo grande romanzo storico–ciclico, narrando vicende comprese fra il 1750 e il 1849 e fra l’altro largheggiando di curiose situazioni e riflessioni musicali (l’edizione definitiva del libro è del 1868–69); e così dovrebbe pur chiamarsi questo sommario panorama del ’900 teatro–musicale italiano, nonostante tutti gli imbarazzi che presiedono a tali quadrature cronologiche e tutti i rischi che esso corre fornendo forse più dati che idee. Cent’anni, un secolo, un lungo segmento temporale tutto sommato finito da poco: ma se la fine di questo fatidico ’900 si trova a sfumare nell’inizio del secolo seguente, il ’100 del Duemila che è in corso, altrettanto si deve riconoscere oggi e si sarà asserito allora del suo inizio sfumato dalla fine del secolo precedente. Nell’impossibilità, dunque, di fissare un avvio riferibile a un preciso fattore di carattere sociale, civile, culturale, per non dire artistico e musicale, sarà provvedimento modesto e rassegnato ma almeno utile e chiaro quello che accetta di dare l’inizio al semplicissimo 1901 e la fine all’altrettanto schietto 2000, permettendosi il credibile lusso di procedere qualche anno ancora. L’imbarazzo non viene a mancare, s’intende, né s’abbassa il rischio, ma da parte sua, almeno, la matematica non ammette né repliche né sfumature.

    Prima di pervenire al corpo del discorso diacronico, descrittivo, impostato insomma come una giusta suddivisione in periodi, è però sembrato bene fornire degli schizzi storico–culturali che sappiano inquadrare degnamente, si spera, le fasi storiche del genere, un genere significativo ma assai esigente come il teatro d’opera italiano: dunque il diverso panorama sincronico promesso dall’indice comprende gli elementi generali, alcuni fenomeni particolari, i luoghi teatrali nel loro complesso e qualche teatro in vista più di altri, ovviamente e principalmente le prime culle della nuova produzione operistica.

    Ma ecco l’attesa serie degli autori e delle opere, cioè la parte più tradizionale, sostanziosa, importante della trattazione. Dal vecchio Puccini ai giovani compositori che hanno appena fatto capolino sulle finestre del palcoscenico, la serie vuole essere semplicemente temporale, determinata soprattutto dall’anno di nascita, con tutti gli andirivieni voluti dalla varia maturità e operosità dell’uno e dell’altro. Sono quattro le parti del discorso centrale, molto all’incirca corrispondenti a quarti di secolo, che si presentano tutte come segue: un folto notiziario prima storico e poi cultural–artistico, una cronologia operistica nuda e cruda (nascite e morti, premières e riprese, fatti ed eventi diversi), alcune monografie sui grandi compositori, alcuni schizzi su altri compositori. In un percorso così lungo e prevedibilmente ricco, complesso, accidentato, va da sé che si riproponga il problema insolubile della suddivisione, dell’inizio e della fine delle singole parti e particelle, né le brevi somme di due o tre decenni corrispondenti alle generazioni vanno esenti dalle incertezze delle somme maggiori costrette nei limiti del secolo.

    Per cominciare a tirare le somme, un’altra parte di carattere generale riguarda quei tanti personaggi del mondo dell’opera che sono i mediatori, gli interpreti, gli esecutori, dai direttori ai cantanti, dai registi alle case discografiche eventualmente devote all’opera del ’900. Per finire sul serio, una doppia bibliografia: una, che costituisce la settima e ultima parte del libro, è commentata, resa essenziale dallo schiacciante cumulo di informazioni oggi usuale che comporrebbe da sé un volume, e dopo un saggio panoramico si sofferma a lungo su Puccini (per sfumare poi in una discografia quanto mai essenziale, in fortunata linea con tutto quanto sia postverdiano e non pucciniano); e un’altra tradizionale, lunghetta sì ma non ragionata.

    E ora qualche riserva. Si dice sempre che la materia contemporanea sia la più vissuta e quindi anche la più scottante di tutte, da trattare: è verissimo, e tanto più in un ambito teorico, poetico, artistico come quello della musica classica che però è sempre anche pratico, quotidiano, inevitabilmente spettacolare. Inoltre, mentre la corrente storiografia musicale, più o meno vaga di antichità e barocchismi, si ritiene già meritoria se raggiunge il ’900 pieno, storico, viennese, francese, russo e altro senza procedere oltre, un’esposizione più specifica come questa, ridotta di spazio (all’Italia) e di genere (al teatro), un tale lusso non se lo può permettere affatto e deve oltrepassare Stravinskij e Webern (dopo averli geograficamente aggirati) per raggiungere capisaldi chiamati Maderna, Nono, Berio, Manzoni, Bussotti, Sciarrino e Tutino; e siccome Nono è scomparso, prematuramente, nel 1990, nemmeno Nono deve considerarlo fra gli ultimi (nel tempo) e quindi procedere ancora, aggirandosi fra i compositori delle generazioni seguenti, quelle apparse fra gli anni ’40 e ’70. Sui musicisti del secondo e specie del tardo ’900 il materiale informativo è molto, si sa, addirittura troppo e quindi disorientante: abbondano notizie biografiche, con nomi e date, luoghi e iniziative, ma scarseggiano le riflessioni critiche, e gli stessi compositori, chiamati a esprimersi a parole, sono spesso più generosi o fascinosi di parole allusive e generiche che di utili dati tecnico–estetici (per tacere di certi teatri, editori, rassegne concertistiche, festival, associazioni, gruppi che non diffondono capillarmente i loro cataloghi o programmi né corrispondono facilmente alle legittime aspettative di pubblico e critica).

    Cresciuto sopra una prima e diversa edizione del 2006 non abbastanza divulgata, questo libro, giova ripeterlo e precisarlo, è un testo che racconta la storia di un genere d’arte e (perché no?) d’uso lungo tutto un secolo in un paese piuttosto produttivo: nulla di meno e nulla di più. Come ha confini ideali coatti, così ha obbiettivi limiti di spessore, dicasi pur di pagine, onde cerca, perlustra, tratta, descrive ciò che ha trovato più chiaro e creduto più significativo (certo prendendo qualche cantonata, al positivo e al negativo); inoltre tenta anche dei collegamenti, delle suddivisioni, delle scelte, anche se qui deve arrendersi all’ardua sentenza dei posteri (non sulla qualità, effimera, ma sulla varia quantità del suo operato). Una soddisfazione? quella di aver compreso in un unico volume Puccini e Malipiero, Mascagni e Togni, Respighi e Battistelli, l’Adriana Lecouvreur di Cilea e l’Ulisse di Dallapiccola. Tanto, è sempre teatro, sempre musica, sempre Italia, sempre Novecento.

    P. M.

    Prima parte: Panorama

    I. Qual risorta fenice novella

    1. Un'espressione d'Italia

    Non c’è verso, non c’è verso del mappamondo che riesca a confondere la posizione o la forma dell’Italia: piccoletta ma oltremodo caratteristica, copertissima dalle Alpi e bagnatissima dal Mediterrano, la penisola italiana è un’unità geografica indiscutibile. Ma al decisionismo della natura come è seguita la collaborazione dell’uomo? ovvero, fatta da sempre l’Italia, quando si sono fatti gli italiani? come si sono sentiti, costoro, uniti o disuniti? in che maniera si sono comportati, segnalati e distinti (in ogni senso)? Domande note, porte talora con ingenuità, talaltra con apprensione, talaltra ancora con ironia da uomini di stato e movimenti politici più o meno entrati nella leggenda e nella manualistica, nella conversazione e nella chiacchiera; e risposte ormai altrettanto note, anche se nella sua libera articolazione molto raramente il discorso ha saputo chiamare in causa un fattore come la musica classica, il teatro d’opera, Bellini e Puccini, la Semiramide di Rossini e la Lucia di Lammermoor di Donizetti, la Marcia trionfale di Verdi e la Danza delle ore di Ponchielli. Il qual fattore, invece, ha avuto una funzione davvero importante e determinante, eventi e opere e autori alla mano con la massima chiarezza ed evidenza.

    Un’espressione geografica, disse sprezzante il principe Metternich, e un’espressione letteraria, corresse più tardi il professor Carducci, per definire un paese appena unito in politica ma secolarmente unito in una tradizione poetica di origine almeno dugentesca e di clamorose fortune dantesche, petrarchesche, boccacciane e così via fino a tutto l’800 (e oltre). Diversa la situazione della lingua italiana e specie di quella parlata, che anzi era avvertita proprio come una questione e nonostante tutte le proposte di priorità toscana o di varia interregionalità si doveva risolvere solo alla metà del ’900, grazie — notoriamente — al modello linguistico fornito dalla televisione che era e più o meno è rimasto un campione non di eleganza stilistica (né forse doveva esserlo) ma di sufficienza grammaticale.

    Prima regnavano i dialetti, nella vita quotidiana del popolo come della nobiltà, e anche in qualche settore regionale di una letteratura appunto non tutta nazionale. Del resto i dialetti erano lo specchio linguistico dell’eterna divisione politica, della quale gli stranieri invasori (francesi, spagnoli, austriaci) si approfittarono facilmente, e la frammentazione in stati e staterelli andava parallela a una certa mancanza di idee, di valori, di usi e costumi comuni.

    La quale mancanza almeno in parte era compensata da una presenza e vicinanza religiosa, quella cattolica appunto, che oltre ad appellarsi a Roma e allo stato della Chiesa non aveva mai subito i traumi e gli scismi di tanti altri paesi europei, ma era anche aggravata da antiche forme di scetticismo, sfiducia, disinteresse a loro volta sconfinanti in pigrizia e fannulloneria, in disinvoltura e astuzia eccessiva, insomma nella tipica e mitica arte di arrangiarsi denunciata da molti viaggiatori e riflessa in tanta narrativa contemporanea quanta cinematografia successiva. Inoltre il Risorgimento, che portò all’unificazione del paese, a un’Italia che non era più un bel nome da invocare poeticamente ma una realtà anche dura da vivere (e magari criticare), fu mosso e condotto da più dai ceti alti, borghesi o aristocratici e comunque numericamente scarsi, che da quelli bassi, meno consapevoli della lingua come più lontani da una mentalità nazionale, e poi non fu una rivoluzione drastica intenzionata a distruggere e ricostruire tutte le condizioni di vita degli italiani. Però il Risorgimento ebbe un eccellente alleato nel teatro d’opera, dal Maometto II di Rossini alla Norma di Bellini, dal Nabucco alla Battaglia di Legnano di Verdi (era nell’ Attila dello stesso che il tenore Foresto cantava Cara patria, già madre e reina / di possenti magnanimi figli e finiva apostrofando profeticamente qual risorta fenice novella, / rivivrai più superba, più bella / della terra e dell’onde stupor!): italiano di lingua, di spirito, d’azione senza dubbio. E quando queste opere e i loro cori, i personaggi relativi e le loro arie passavano dalla Campania al Piemonte o dalla Lombardia alla Sicilia, tutto era chiaro come il sole, nulla rimaneva inevaso, il linguaggio era recepito come il messaggio era accolto, festeggiato, condiviso.

    2. Mezzi di massa

    Parecchie le tappe e le movenze dell’unificazione ulteriore, oltre a quella strettamente politica segnata dall’ufficialità della proclamazione del 1861: una scuola nuova che nel 1877 rese obbligatori due anni di istruzione elementare, anche se purtroppo non di rado senza risultato; un servizio militare che sguinzagliava i giovani qua e là e anzi spesso molto lontano da casa, costringendoli a misurarsi, collaborare, farsi amici o entrare in dissidio con altri gruppi umani; un dramma silenzioso come l’emigrazione, che mosse, mescolò, separò e congiunse famiglie e generazioni; una tragedia rumorosa come la guerra e specialmente la Grande Guerra, con le sconfitte e le vittorie comuni, con gli estenuanti periodi di trincea che mettevano a gomito e spesso a prova di simpatia uomini altrimenti incomunicabili; una maggior occupazione nell’ambito dell’industria e una maggior presenza femminile nei ranghi della società e del lavoro; anche una letteratura popolare di enorme fortuna come il Pinocchio di Collodi e il Cuore di De Amicis, pubblicati rispettivamente nel 1883 e 1886; e dunque anche il melodramma, che proprio in quegli anni registrava le ultime opere di Verdi, l’ Otello dell’87 e il Falstaff del ’93, le prime opere di Puccini, Le Villi dell’84 e l’Edgar dell’89, due successoni come la Cavalleria rusticana di Mascagni nel 1890 e i Pagliacci di Leoncavallo nel ’92, il resto della produzione della Giovane Scuola Italiana (appunto) nei primi decenni del ’900 e specialmente l’ulteriore e sempre rigogliosa fioritura pucciniana.

    Così fra ’800 e ’900, fino alla prima guerra mondiale: la quale, oltre a contribuire con la forza al processo di coesione fra gli italiani, sempre con la forza portò gli stessi a conoscere o comunque intravedere almeno parte delle idee circolanti per l’Europa e delle loro conseguenze. In questo senso i quattro o cinque lustri successivi alla guerra rappresentarono un freno, invece, per ovvie ragioni di totalitarismo e nazionalismo, di chiusa diffidenza o aperta inimicizia verso la maggioranza dei paesi vicini, ma il Fascismo, se con la prassi del consenso passivo premette l’antico pedale della scarsa responsabilità degli italiani, seppe anche svecchiare certi costumi decrepiti, quasi medievali (specie nelle campagne e nel Meridione) e diffondere un maggior grado di modernità e civiltà quotidiana in tutto il paese; e dal vizio di un nazionalismo così accentuato poté anche trarre qualche beneficio per il senso della nazione e quindi dell’italianità. Per di più scorse parallelo alla grande fortuna di due fenomeni recenti come il cinema e la radio, grazie ai quali gli italiani poterono accedere a una pratica della lingua, della recitazione, dello spettacolo, della canzone leggera che servì molto alla causa: non ultima tessera di questo variopinto mosaico fu la musica classica, la romanza da salotto, l’aria d’opera nell’ugola di miriadi di cantanti spesso di grande bravura e comunicativa, che risuonava spesso alla radio e a volte faceva capolino anche al cinema. Quanto al teatro d’opera, al melodramma nelle sue sedi istituzionali dei teatri (ma anche della RAI ancora detta EIAR), va da sé che il potere era gestito da rappresentanti del regime e quindi l’andamento delle stagioni liriche era ben predeterminato: pollice verso al repertorio straniero, specie quello nemico e cioè russo, francese, inglese; e passione viscerale per il repertorio italiano, specie quello più italiano, romano, celebrativo, a firma di musicisti fascisti o addirittura Accademici d’Italia. Al notevole tasso di disimpegno civile che s’annidava in alcune di queste abitudini, evidente ad esempio nella formula cinematografica dei telefoni bianchi, fece poi seguito la resistenza al regime, prima quella pressoché muta e inerme dei cittadini non consenzienti e poi quella rumorosa e animosa dell’attività partigiana, che da un lato svolse un suo programma di coesione nazionale (alternativo, s’intende) e dall’altro si apprestò ad aprirsi alla cultura europea, alla lingua inglese, alla letteratura americana con effetti a lungo benefici.

    Uscita dal buio della guerra e della dittatura, riattivata e ricostruita con una tenacia in parte forse intrinseca ma in buona parte anche indotta per reazione dalle disgrazie precedenti, nel secondo ’900, com’è noto, l’Italia ha goduto di uno sviluppo sociale ed economico senza precedenti, onde dal paese arretrato, in prevalenza contadino, afflitto dall’analfabetismo che era, è diventato una delle società più moderne e civili del mondo (nonostante tutte le contraddizioni citate prima), con i picchi o le punte rappresentate dal miracolo dell’abbondante quinquennio addossato al 1960, dagli anni ’80, dal passaggio al nuovo secolo e millennio. Grazie alle nuove occupazioni nell’industria (il secondo settore lavorativo, dopo l’agricoltura) e nel cosiddetto terziario semplice o avanzato (la pubblica amministrazione e la burocrazia in genere, il commercio e il turismo, i servizi vecchi e nuovi), all’obbligatorietà dell’istruzione scolastica (fino alla media inferiore nel 1963), all’accoglimento di diversi e fondamentali diritti civili, alla diffusione dei mezzi di comunicazione di massa, all’affermazione dell’elettronica e dell’informatica, alla capacità penetrativa di uno strumento come la televisione (dapprima pubblica, quindi anche privata), il paese ha colto un doppio risultato: quello della sempre più forte coesione fra le sue componenti umane e quello del visibile inserimento nel contesto sociale e civile complessivamente unitario dell’Europa e dell’Occidente in genere. E ciò nonostante i limiti e i guai del consumismo nel quotidiano, del trasformismo e del separatismo in politica, di altri aspetti quali l’inerzia ideologica, la fuga dal pubblico e il rifugio nel privato, il calo demografico, l’inquinamento dell’atmosfera e del territorio, la crisi di certi ideali antichi ritenuti superati, il triste tramonto della cultura intesa come etica e disciplina inflessibile. Aspetti, comunque, tutti condivisi e congoduti da un grande paese, un villaggio globale come il mondo.

    3. Una fiammella tra vecchio e nuovo

    Nel 1978 Giuseppe Chiari dipinge L’arte sarà di tutti , quadro che così dice nella metà di sinistra e in quella di destra specifica e la parola arte non sarà di nessuno, sempre in rosso; e ha, relativamente, ragione, perché un mondo che rispetto al passato alza e allarga tanto la sua visuale può anche permettersi il lusso di perdere di vista il particolare, l’individuale, lo speciale. A popolare, miscelare, uniformare questo mondo, per riprendere e restringere il discorso di prima, sono dunque fenomeni come la diffusione del consumismo e l’onnipresenza della televisione (o meglio delle varie emittenti televisive nazionali, con la radio alle spalle); ma lo sono anche i cosiddetti riti sociali e cioè la mobilità facile (grazie all’automobile), l’abitudine al viaggio e alla villeggiatura, l’attenzione o addirittura la soggezione alla pubblicità, la conoscenza della pubblicistica periodica e dell’editoria d’attualità, la passione per il cinema, la frequentazione della musica non classica (jazz, leggera, rock, pop) e di tutte le manifestazioni sportive possibili, la consultazione di Internet e l’autentica navigazione nelle sue lande imprevedibili, il possesso della lingua inglese (a vari livelli), quel consumismo speciale che cade sulla registrazione visiva e sonora (dal vecchio microsolco al fiammante DVD). Così avviene in Italia come all’estero (con i vantaggi e i danni che sono sotto gli occhi di tutti), anche perché se l’Italia ha tardato a costruirsi una forma di omogeneità politica e mentale, altri paesi hanno faticato la lor parte, la Germania tra l’Austria imperiale e la Prussia, la Francia tra la vivacissima Parigi e la provincia, la Russia tra l’Oriente e la nuova Europa, per tacere dei paesi balcanici, scandinavi, fiamminghi (o anche degli Stati Uniti d’America, separati dalla nascita, uniti solo in confederazione, sempre promiscui e quindi per questo, almeno al loro interno, immancabilmente tolleranti e democratici).E l’Europa tutta? anche l’Europa ha stentato a conquistare, a riconoscersi, comunque a manifestare certi caratteri suoi propri, certi valori appunto definibili come europei. Fu nel tardo ’700 che nacquero o emersero a Londra, a Parigi, in parte dei paesi austro–tedeschi e in qualche città italiana i concetti non più contraddittori di libertà e società, di pubblico e privato, di individualismo e collettività, di religiosità e laicismo; e con essi, pian piano, si imposero le istituzioni e le pratiche benefiche del parlamento e del mercato, della scuola e dell’assistenza pubblica, dell’autonomia economica e della mobilità sociale, della cultura umanistico–scientifica e della famigliarità con le lingue straniere (leggi francese, per gran tempo), insomma un allargamento lento e difficile ma continuo e inarrestabile del ventaglio della civiltà umana. A muoversi in tal senso era un’umanità sempre più attiva, curiosa, disponibile, intelligente, estesa dagli intellettuali ai commercianti, dagli artisti agli imprenditori, dai politici ai giornalisti, dai poeti agli impiegati, che alla lunga avrebbe conquistato anche la piccola borghesia e il proletariato, anche — udite — le donne (non più escluse, non più chiuse nella famiglia, non più limitate a far le maestre o le infermiere). Dopo l’Illuminismo settecentesco, pertanto, dopo il Romanticismo e il Positivismo ottocentesco, è stato il terribile ’900 delle guerre mondiali, delle dittature, dei genocidi e del terrorismo a provarsi a coniugare le varie espressioni nazionali e a costruire una civiltà europea e occidentale complessivamente uniforme, bene o male, e ovviamente comprensiva anche di quella civiltà italiana che era stata l’ultima a formarsi definitivamente.

    Ma l’Italia, l’espressione letteraria di Carducci, all’Europa e al mondo non aveva dato soltanto le triadi somme e letteralmente esemplari di Dante, Petrarca, Boccaccio o di Leonardo, Raffaello e Michelangelo: anche Palestrina, Frescobaldi e Monteverdi avevano legiferato in lungo e in largo per il continente, anche Corelli, Vivaldi e Scarlatti (Domenico), e anche Rossini, Paganini e Bellini, o Donizetti, Verdi e Puccini. Infatti questa musica italiana, polifonica o monodica, vocale o strumentale, cameristica o teatrale che fosse, aveva saputo collegare, associare, unire idealmente i famosi stati e staterelli italiani; e tutta quella musica italianissima aveva saputo fuoriuscire dalla penisola per impadronirsi dell’Austria e della Germania, dell’Inghilterra e della Russia, di tutti i paesi d’Europa (anche il più riottoso perché già fecondo di suo, la Francia) e di molti paesi del mondo, dagli Stati Uniti d’America al Giappone. Con il liuto e il cembalo, l’organo e il violino, la chitarra e il violoncello, ma soprattutto con gli strumenti più comunicativi, più eloquenti, più amabili ovverosia con le voci cantanti del Figaro di Rossini, del Pasquale di Donizetti, della Sonnambula di Bellini, di tante creature verdiane raccolte da Shakespeare, Voltaire, Schiller, Dumas ed eternate nella grazia e nella forza della lingua, della poesia, della scena, insomma della drammaturgia musicale italiana per eccellenza. La civiltà internazionale del ’900 si regge anche su queste fondamenta, e l’odierna civiltà operistica italiana si alimenta molto del ’900 internazionale. Il mondo di oggi è tanto nuovo, ricco, impaziente, disorientante, inquinante (anche acusticamente)? La musica classica tiene acceso il suo faro, il teatro d’opera non ha perso la bussola, la cultura e la musica italiana hanno ancora molto da fare e sempre moltissimo da conservare e mettere in mostra.

    II. Locations

    1. Quasi mille teatri

    Se c’è stato un elemento di continuità, tra il melodramma tradizionale dell’800 e il nuovo teatro lirico del ’900, che sia rimasto fuori discussione, o comunque meno discutibile di tanti altri, questo è stato probabilmente il luogo, il contenitore, la cornice degli spettacoli d’opera, che fossero appunto lavori fiammanti di novità, brillanti di notorietà, rifiammanti di antichità recuperata ( location per un evento, come s’usa dire senza troppa ironia). Tanta fatica sembrava aver fatto il vecchio genere musicale a costruirsi sedi stabili, robuste, numerose, quasi ubique (almeno in Italia), non più occasionalmente ricavate da edifici e saloni patrizi come all’inizio del ’600 o condivise con altre forme spettacolari come in seguito o comunque precarie (lignee, per esempio, e quindi rassegnate a bruciare per un nonnulla) come nel ’700, che il panorama generosamente costruito nell’800 non doveva fare altro che cercare di conservarsi, al meglio, e solo, eventualmente, aumentare di quantità (nonché, nella fattispecie, aggiornarsi di tipologia).

    Durante il Risorgimento, dunque, l’Italia preunitaria che cercava tanto di risorgere (di sorgere, piuttosto, visto che prima, in quel senso, non c’era mai stata) e di diventare un paese unito e libero, a ben vedere era già unificata dall’onnipresenza dell’opera lirica (oltre che dai noti anche se meno immediati fattori mentali, culturali, linguistici): grazie a tutte le possibili virtù dei suoi celeberrimi artisti della penna, del canto e del suono ma anche a una rete incredibilmente fitta di spazi, che poco dopo, nel 1868, annoverava quasi 400 teatri al Nord, 357 al centro (escluso il Lazio, di per sé piuttosto avaro ma prodigo nella capitale) e 169 al Sud. Ricche, vaste, complesse erano la produzione, la circolazione, la fruizione dei titoli d’opera attuata fra città, regioni, stati che erano diversi ma in fondo anche molto vicini e non solo geograficamente, proprio per via di quella cultura operistica che era la più autoctona nelle origini e nella codificazione interna e insieme la più esportata e adeguabile ad altre tradizioni musicali (Sorba). Altrettanto rigogliosi, va da sé, furono gli stessi fenomeni nel lungo corso del ’900 con tutti i disastri civili e le crisi economiche del secolo, e però anche con tutti i relativi incrementi demografici, allargamenti delle esperienze, andirivieni di cultura e d’arte, di formazione e organizzazione, di spettacolo tradizionalmente vivo o svariatamente riprodotto.

    Per tornare a restringere il discorso all’Italia, ecco dunque attivi meravigliosi teatri storici come il S. Carlo di Napoli (1737), il Regio di Torino (1740), il Comunale di Bologna (1763), la Scala di Milano (1778), il Donizetti di Bergamo (1791), la Fenice di Venezia (1792), il Verdi di Trieste (1801), il Municipale di Piacenza (1804), il Carlo Felice di Genova (1828), il Regio di Parma (1829), il Civico–Comunale di Cagliari (1836), il Comunale di Firenze (1862), il Dal Verme di Milano (1872), il Costanzi–Opera di Roma (1880), il Massimo Bellini di Catania (1890), il Massimo di Palermo (1897, 1997), il Petruzzelli di Bari (1903–1991), parecchi altri in centri maggiori e minori e sempre veramente perfetti d’estetica (dalla facciata al palcoscenico, dalla platea agli ordini di palchi, dal foyer al loggione) e similmente valorosi d’acustica.

    2. Tredici enti

    Fu all’inizio del 1921 che il cinquantaquattrenne Arturo Toscanini, il sindaco di Milano Emilio Caldara e il senatore Luigi Albertini fecero del prestigioso, verdiano, ormai classico Teatro alla Scala di Milano il primo Ente Lirico italiano: un teatro dunque sottratto alle proprietà e alle volontà private, agli impresari ed editori, ai nobili protettori e agli eventuali mecenati, a quelle altalene di fortune e sfortune che erano state tanto imprevedibili quanto colorite e simpatiche all’aneddotica; un teatro, un ‘ente’ autonomo, alla lettera e per definizione. Niente più aiuti, benefici, regalie occasionali di amministrazioni comunali, famiglie abbienti, personaggi pubblici e privati ricchi di influenze e capacissimi di ingerenze; ma regolari sovvenzioni assicurate da una sovrattassa del 2% applicata alle spese del pubblico per gli spettacoli della provincia di Milano e dal ristorno del diritto erariale sulle entrate del teatro. Nel giro di qualche anno dalle spoglie delle gestioni precedenti nacquero l’Opera di Roma (1929) e l’Ente Autonomo di Firenze (1932), tosto imitati, in seguito a un regio decreto–legge del 1936 che raccomandava uniformità di conduzione e finalità d’arte degne della tradizione nazionale, dai teatri massimi di Torino, Venezia, Trieste, Verona, Genova, Bologna, Napoli e Palermo. Dunque gli incassi degli spettacoli, le sovvenzioni dei singoli Comuni, eventuali contributi di Province e altri enti pubblici o privati stavano alla base della vita degli Enti Autonomi italiani, allo Stato spettando solo la copertura di disavanzi gestionali con contributi ordinari o straordinari. Più tardi la legge n. 538 del 1946 precisò la funzione dello Stato: il diritto erariale sullo spettacolo nazionale salì dal 10 al 15%, e agli enti lirici fu destinato un 12% dell’aumento che nel 1949 salì al 15% (contravvenendo alla decisione allargandosi anche ad altri teatri) e nel ’56 scese al 10,20%.

    Debiti, prestiti, risanamenti, sovvenzioni a pioggia, contributi d’origine diversa caratterizzarono gli anni successivi, fino a che non fu stabilita una nuova legge apposita. La Legge n. 800 del 1967, detta Legge Corona dall’allora ministro del Turismo e dello Spettacolo Achille Corona, dichiarava meritevole e interessante l’attività lirico–concertistica, riconosceva Enti Autonomi gli undici teatri citati (con particolare rilievo per l’Opera della capitale e la Scala) cui aggiungeva l’Accademia Nazionale di S. Cecilia in Roma e l’Istituzione dei Concerti e del Teatro Lirico Palestrina di Cagliari. Organi di ogni Ente Lirico erano, e sono rimasti fino al 1996, il presidente, cioè il sindaco della città; il sovrintendente, proposto dal Consiglio comunale e nominato dal ministro per quattro anni; il Consiglio d’amministrazione, durante quattro anni e annoverante il presidente, il sovrintendente, un direttore artistico (scelto fra musicisti di chiara fama e competenza, dal 1994 anche fra critici e musicologi), tre o quattro rappresentanti del Comune, uno della Provincia, uno della Regione, il direttore del Conservatorio cittadino, alcuni rappresentanti di industriali e lavoratori dello spettacolo, alcuni rappresentanti dei musicisti, eventuali rappresentanti di sovventori pubblici e privati; il Collegio dei revisori dei conti. Nella programmazione, un luogo prioritario spettava ad autori e interpreti di nazionalità italiana (i primi relativi a tutte le epoche). Questo in linea molto generale, a tacere di leggi e disposizioni successive (nel 1985 è stato istituito il Fondo unico per lo Spettacolo, abbreviato in FUS, poi variamente suddiviso e trattato, ammontante per esempio a oltre 389 miliardi di lire per il 1988 e oltre 444 miliardi per il 1992).

    La programmazione e la diffusione dell’opera italiana contemporanea era chiaramente caldeggiata dalla legge Corona, ma in verità non ebbe troppo seguito. A parte qualche caso notevole alla Fenice di Venezia, al Comunale di Bologna, alla Scala e al Lirico di Milano, fra il 1960 e il 1990 i teatri italiani hanno proposto 5 allestimenti operistici di Ghedini, 12 di Petrassi (autore peraltro di due opere appena), 16 di Dallapiccola, 25 di Malipiero (autore però fecondissimo), a fianco dei 50 di Stravinskij, dei 30 di Britten, dei 19 di Berg, dei 18 di Prokofiev, degli 11 di Bartók e di Schönberg. Intanto, secondo le provvide tabelle divulgate (Ernani–Iovino), a spadroneggiare non potevano essere che gli autori e le opere dell’800 italiano, dalle 22 edizioni della Norma di Bellini alle 76 dell’Aida di Verdi registrabili fra il 1967 e il 1992 (con buoni esiti diversi anche per Mozart, Wagner, Bizet). Per la gloria dell’opera italiana d’anagrafe e di stile un siffatto quadro squilibrato non conta nulla, in male; per la sorte dell’opera odierna invece conta, ma purtroppo è anche scontato.

    3. E fondazioni

    Con il decreto legislativo n. 367 del 1996, applicato nel 1998, i tredici Enti Autonomi (responsabili della lirica, della concertistica e del balletto) sono diventati Fondazioni di diritto privato, fra l’altro per ovviare all’eterno vizio dello sforamento del bilancio, per mutare la concezione dello spettacolo da intrattenimento effimero a stabile bene culturale, per trasformare il FUS da spesa facoltativa a spesa obbligatoria, per corrispondere all’abrogazione del Ministero del Turismo e dello Spettacolo (avvenuto mediante referendum nel 1993) sostituito dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, in generale per acquisire un’agilità di conduzione più adatta ai tempi (ma senza perdere in autonomia artistica): scopo, come prima sempre la diffusione dell’arte, la formazione professionale dei quadri artistici e l’educazione musicale della collettività, e mezzo un graduale passaggio, senza incognite, senza rischi, da una gestione pubblica ad una privatistica o mista. Da parte sua il FUS, avviato nel 1985 con poco più di 308 miliardi di lire, nel ’96 superava i 438, nel ’97 i 444, nel 2000 i 457, nel 2002 rasentava i 486 come dire quasi 251.000 euro, nel 2005 doveva clamorosamente scendere del 35% dalla somma dell’anno precedente. Nel 2000, l’ultimo anno del ’900, la ripartizione è avvenuta come segue, in miliardi di lire: 30.773 al Comunale di Bologna, 45.642 al Maggio Musicale Fiorentino, 25.897 al Carlo Felice, 69.363 alla Scala, 36.511 al S. Carlo, 42.352 al Massimo, 48.410 all’Opera, 31.906 al Regio, 27.431 al Verdi, 34.611 alla Fenice, 26.105 all’Arena, 23.385 a S. Cecilia, 16.047 al Palestrina. Quanto agli organi delle Fondazioni, invariata la figura del presidente, il Consiglio d’Amministrazione è sceso da quindici a sette membri (nove per S. Cecilia) facendo spazio ai privati ed è cresciuta di potere (dall’approvazione del bilancio all’approvazione dei programmi artistici) restando in carica quattro anni, la nomina del sovrintendente è passata al Consiglio d’Amministrazione e la sua forte funzione centro–manageriale si è estesa anche alla programmazione, il direttore artistico è stato sottoposto alla nomina (e revoca) del sovrintendente e ha tenuto compiti più consultivi che decisionali, il collegio dei revisori è sceso da quattro a tre membri.

    4. Alla Scala

    Teatro lirico per eccellenza, antonomasia, leggenda e quant’altro si voglia, come tale onorato in Italia e riverito all’estero, la grande Scala di Milano fondata al tempo di Gluck, Paisiello e Mozart con un’opera di Salieri ha subìto numerosi interventi e ammodernamenti (per esempio il palcoscenico a ponti e pannelli mobili nel 1938), è stata distrutta da un bombardamento aereo nel 1943 (tranne la facciata e parte del palcoscenico) e quindi ricostruita e reinaugurata nel 1946; chiusa per doverosi lavori di restauro e aggiornamento tecnico (da un display sullo schienale delle poltrone di platea per la traduzione dei testi stranieri a un’alta torre scenica contenente una macchina per alternare due allestimenti), è stata riaperta nel 2004 con la ripresa dell’opera che l’aveva inaugurata nel 1778, cioè L’Europa riconosciuta .

    Come s’è detto, la Scala è stata il primo teatro italiano, nel 1920, a diventare Ente Autonomo; intanto e in seguito, mentre praticava il repertorio ottocentesco sempre ben atteso e ben accetto al pubblico ha cercato di ottemperare a qualche dovere di contemporaneità, del primo e del secondo ’900: a mo’ d’esempio, come prime assolute (talvolta spostate al Teatro Lirico anche se scaligere di concezione e realizzazione), bastino Germania di Franchetti nel 1902, Fedra di Pizzetti nel ’15, Turandot di Puccini nel ’26, Lucrezia di Respighi nel ’37, Il cordovano di Petrassi nel ’49, I dialoghi delle carmelitane di Poulenc nel ’57 (opera francese nata in Italia e data in prima italiana), La leggenda del ritorno di Rossellini nel ’66, Oggetto amato e Nottetempo di Bussotti nel ’76, Riccardo III di Testi nell’87, Outis di Berio nel ’96, Tatjana di Corghi nel 2000, accanto ad altri titoli di Smareglia, Giordano, Alfano, De Sabata, Favara Mistretta, Lualdi, Lattuada, Vittadini, Castelnuovo Tedesco, Pedrollo, Veretti, Cattozzo, Rocca, Refice, Porrino, Bianchi, Peragallo, Tosatti, Turchi, Rossellini, Mannino, Nono (molto più raramente, in verità, di musicisti stranieri, mai prima del 1945 e dopo appena Orff, Falla, Stockhausen con il suo ciclo Aus Licht). A fianco della grande Scala, è stata attiva dal 1956 ai primi anni ’80 la Piccola Scala, destinata al recupero di opere antiche, non troppo esigenti di sonorità e spettacolarità, e di opere nuove, spesso destinate al teatro cosiddetto da camera: l’inaugurazione ebbe luogo con Il matrimonio segreto di Cimarosa (e nel tempo furono parecchi i ripescaggi di opere e operine preromantiche come la rossiniana Pietra del paragone del ’59), ma già l’anno dopo fu messo in scena L’ipocrita felice di Ghedini, e negli anni a seguire comparvero La donna è mobile di Malipiero (Riccardo), La scuola delle mogli di Mortari, La notte di un nevrastenico di Rota, fino a Era proibito di Chailly, Atomtod di Manzoni, Count down di Bettinelli, La camera degli sposi di Renosto, varie opere di Negri fra cui Il diario dell’assassinata, varie opere di Sciarrino fra cui Vanitas e Lohengrin.

    Sette ne sono stati i sovrintendenti dall’ultima guerra all’inizio del 2000, Carlo Gatti (1942–45), Gino Marinuzzi (1945), Antonio Ghiringhelli (1948–72, già commissario straordinario dal ’45), Paolo Grassi (1972–77), Carlo Maria Badini (1977–90), Carlo Fontana (1990–2005), Stéphane Lissner (dal 2005, anche come direttore artistico), personaggi derivati dai ranghi della composizione, della critica musicale, della direzione d’orchestra, dalla politica. E quindici i direttori artistici, tratti spesso ma non mai distolti dalla concertazione e direzione: Mario Rossi (1945), Tullio Serafin (1946–47), Mario Labroca (1947–49), Victor De Sabata (1949–57, qualche anno con Franco Capuana direttore musicale), Francesco Siciliani (1957–66, 1974–76 come consulente, 1980–83), Gianandrea Gavazzeni (1966–68), Luciano Chailly (1968–71), Massimo Bogiankino (1972–74), Claudio Abbado (1977–79), Cesare Mazzonis (1983–92), Alberto Zedda (1992–93), Roman Vlad (1994–96), Paolo Arcà (1997–2003), Mauro Meli (2003–2005), Stéphane Lissner (dal 2005, anche sovrintendente); a lungo direttori musicali sono stati Abbado (1968–86, solo stabile fino al ’74) e Riccardo Muti (1986–2005).

    5. Molto repertorio e un esempio

    E ora un po’ di dolenti note, di quelle note musicali che dolgono al punto da non farsi quasi sentire (diversamente da quanto capita a Dante che scende all’Inferno). Gli è che i teatri d’opera italiani citati, di fondazioni o di tradizione che siano, praticano il repertorio corrente con una frequenza che lascia ben poco spazio al resto, per repertorio intendendo il solito, del resto magnifico asse Rossini–Puccini e per resto il ’600 barocco, il ’700 barocco e classico (tranne Mozart), il ’900 moderno (tranne Strauss) e contemporaneo, lo stesso ’800 romantico esulante dall’asse. Lo praticano tanto per onorare i gusti e le attese dei pubblici, giustamente vaghi di barbieri e sonnambule, elisir e trovatori, balli mascherati e forze fatali, cavallerie siciliane e Bohème s parigine, e quindi per non dissestare ancora di più le povere casse dei loro erari (già così vuote da sembrare casse di risonanza). Sarà così, almeno in parte, anche se capita non di rado che i programmi lascino trapelare fughe di spesa per superbi allestimenti, ambiziosi registi, starring cantanti non sempre all’altezza delle promesse e degli esborsi. Ma una volta accettata, obtorto collo , la situazione, si potrebbe provare a percorrere qualche stagione, anzi meglio qualche dozzina di stagioni liriche italiane per cercare di individuarvi gli spunti di buona volontà e di forte impegno nei confronti del non facile operismo novecentesco.

    Un esempio forse calzante di grande teatro italiano avvezzo al repertorio (anche perché a suo tempo egregio produttore dello stesso) ma equamente (non egualmente!) interessato al nuovo può essere il S. Carlo di Napoli: il grande e splendido teatro che aveva gustato i dolcissimi frutti della sua scuola cittadina fra ’600 e ’700, che ancora nel primo ’800 meritava laute prime rossiniane e donizettiane, nel corso del primo sessantennio del ’900 ha saputo alternare i capolavori del suo repertorio più amato, dall’ Adriana Lecouvreur di Cilea al Trovatore di Verdi, con parecchie opere in prima assoluta: Vita brettone di Leopoldo Mugnone (1905), La Perugina di Edoardo Mascheroni (1909), Hoffmann di Guido Lancetti (1912), Il miracolo di Lancetti (1915), Ondina di Giovanni Bucceri (1917), La fiamminga di Stefano Donaudy (1922), Morenita di Mario Persico (1923), Colomba di Nicolò van Westerhout (1923), Giuliano di Riccardo Zandonai (1928), L’ultimo Lord di Franco Alfano (1930), Liolà di Giuseppe Mulè (1935), Alcassino e Nicoletta di Mario Barbieri (1938), Il malato immaginario di Jacopo Napoli (1939 ), Mattutino d’Assisi di Lorenzo Filiasi (1941), Il borghese gentiluomo di Terenzio Gargiulo (1947), Maria Antonietta di Gargiulo (1952), La figlia di Iorio di Pizzetti (1954), I pescatori di Napoli (1954), Madama Bovary di Guido Pannain (1955), La guerra di Renzo Rossellini (1956), Vivì di Vincenzo Mannino (1957), Il vortice di Rossellini (1958), I Shardana di Ennio Porrino (1959), cui s’aggiungerà la Giuditta di Arthur Honegger nel 1937 nata come Judith a Montecarlo nel 1926. E negli anni ’60 del ’900 questo generoso S. Carlo s’è messo a rovistare nelle carte di famiglia e ha trovato, revisionato, rappresentato, acclamato alcune opere dell’800 romantico che fanno ancora la sua gloria: Saffo di Pacini (1967), Elisa e Claudio di Mercadante (1971), e di Donizetti, in felice successione con artisti come Leyla Gencer, Montserrat Caballé, Giacomo Aragall, Renato Bruson, Roberto Devereux (1964), Lucrezia Borgia (1966), Caterina Cornaro (1972), Gemma di Vergy (1976).

    Per il resto, se l’Arena di Verona (aperta all’opera nel 1913) non può allestire nemmeno un rossiniano Mosè, opera quanto meno spettacolare, e lo Sferisterio di Macerata (nel 1965) rischia critiche quando evoca Les contes d’Hoffmann di Offenbach, un discorso all’uopo sui grandi festival estivi non ha più senso: dicono parole novecentesche il festival pucciniano di Torre del Lago (1930), che vista anche l’esiguità numerica del catalogo del suo nume potrebbe anche far parlare qualche collega meno noto e capace, e il festival Giordano di Baveno sul Lago Maggiore (1998), mentre il Rossini Opera Festival di Pesaro (1980), che si alimenta alla miniera del suo genio, quando ne esce non può che acchiappare qualche opera di qualche operista limitrofo; e il festival della Valle d’Itria (1974) fa già molto a coltivare Monteverdi e Hasse, Leo e Piccinni, Traetta e Paisiello, Jommelli e Mercadante, Meyerbeer e Delibes, il Polyeucte di Gounod e la Roma di Massenet, allungandosi al Cappello di paglia di Firenze di Rota, alla Turandot di Busoni, alla figura del foggiano Giordano ( Mese mariano, Il re, Siberia). Dal canto loro le Settimane Musicali di Siena (1943), la Sagra Umbra di Perugia (1946), la Sagra Malatestiana di Rimini (1950) tendono a guardare, a spaziare, ad ammirare altrove, all’indietro e all’intorno ma non tanto in avanti, cioè nella direzione dell’opera nuova. Eppure, non è che manchino i luoghi, gli spazi, le cornici adatte a manifestazioni di teatro musicale di varia specie: solo a Venezia, per esempio, si contano la Fenice, l’Ospedale della Pietà, la Biennale, il Conservatorio Benedetto Marcello, la basilica di S. Marco, le sedi delle Fondazioni Cini e Levi, l’Accademia di S. Giorgio, gli Amici della Fenice, parecchie altre chiese e associazioni (con una simpatica appendice intitolata Caffè–concerto e gondole).

    6. Teatri di tradizione

    ai Teatri–Enti–Fondazioni, alla loro ombra, a volte per luce propria, spesso antichi e artistici come quelli, l’Italia possedeva e possiede ventiquattro teatri riconosciuti di tradizione. La Legge 800 ne annoverava diciassette: il Petruzzelli di Bari, il Grande di Brescia, il Massimo Bellini di Catania, il Sociale di Como, il Ponchielli di Cremona, il Comunale di Ferrara, il Sociale di Mantova, il Comunale di Modena, il Coccia di Novara, il Regio di Parma, il Municipale di Piacenza, il Verdi di Pisa, il Municipale di Reggio Emilia, il Sociale di Rovigo, il Comunale di Treviso, i teatri di Livorno (Comitato Estate Livornese) e di Sassari (Ente Concerti Sassari); più tardi, per decreto ministeriale, se ne sono aggiunti altri sette e cioè il Donizetti di Bergamo, il Pergolesi di Jesi, l’Arena Sferisterio di Macerata, l’Alighieri di Ravenna, il Rendano di Cosenza, il Politeama Greco di Lecce, il Giglio di Lucca. Destinati a promuovere, agevolare e coordinare attività musicali che si svolgano nel territorio delle rispettive province (solo Jesi non è capoluogo), sono stati sovvenzionati dal FUS con quasi 18 miliardi di lire nel 1985, quasi 30 nel ’96, oltre 30 nel ’98, oltre 29 nel 2002 per 15.120 euro, anch’essi soccombendo ai tagli spietati del 2005. Vistoso loro merito è la capacità di riassumere in sé quanto gli enti–fondazioni vedono organizzarsi altrove nelle grandi città dove operano: cioè spaziano dalla musica classica al jazz, dalla danza alla prosa, dal cinema d’autore a manifestazioni d’altro e ogni tipo, non di rado ricorrendo a coproduzioni e circuiti interregionali. Al cospetto delle nuove Fondazioni, alcuni teatri di tradizione sono assurti a Fondazioni anch’essi (primo l’Alighieri), altri si sono dati la veste giuridica dell’istituzione, dell’associazione, della società cooperativa e così via.

    Tali meriti di politematicità, fra le varie espressioni della musica, e di interdisciplinarità, fra queste e le altre forme della cultura, non potevano poi non influire sulle scelte artistiche dei teatri di tradizione, e non volgerle generosamente anche altrove, rispetto all’incontestabile centralità del repertorio classico–romantico–verista. Di qui, accanto a opere sempiterne come Il barbiere di Siviglia, Rigoletto e Madama Butterfly, opere nuove di zecca, commissionate appositamente, ispirate a vivaci criteri di libertà dalle convenzioni e interessate all’adozione di forze giovani e (e magari locali) negli ambiti della poesia, della musica, della messinscena. Ecco per esempio il caso del Sociale di Rovigo, dove vige l’encomiabile progetto Operagiovani: nel 1996 la 181ª Stagione Lirica ha presentato Una favola per caso, opera in un prologo e un atto di Albertina Archibugi, musica di Lucio Gregoretti e Nicola Sani; nel 1999 è stata la volta di Incanto di Natale, opera per ragazzi tratta da Christmas Carol di Dickens, libretto di Riccardo Diana e musica di Paolo Furlani; nel 2000 di Caos dolce caos, opera gioco in un atto di Andrea Vivarelli, musica e drammaturgia di Carlo De Pirro. Ed ecco il caso del Comunale di Modena, che nella stagione 2000–2001 ha inventato una formula di Teatro ragazzi consistente di regola in opere italiane, nuove e brevi, accessibili d’intreccio e di musica, spesso tratte da fonti popolari e divertenti: e ha cominciato con Il fantasma di Canterville, opera in undici quadri e un prologo di Elena Diporti, liberamente ispirata all’omonimo racconto di Oscar Wilde e musicata da Claudio Scannavini (su commissione). Il felice esperimento è proseguito nella stagione 2001–2002 con Nevebianca di Marco Betta (testo di Gianni Maniscalco Basile), nel 2002–2003 con Racconto di Natale di Carlo Galante (testo di Dario e Lia Del Corno da Dickens) e Il fantasma della cabina di Marco Betta (testo di Rocco Mortelliti da Camilleri); nella stagione 2003–2004 con La famosa invasione degli orsi in Sicilia di Marco Biscarini (testo di Biscarini e Pier Francesco Campi da Buzzati), nel 2004–2005 con Lavinia fuggita di Matteo D’Amico (testo di Sandro Cappelletto dalla Banti), nel 2005–2006 con La bella e la bestia di Marco Tutino (testo di Giuseppe Di Leva da Leprince de Beaumont).

    Sono, alla lettera, degli esempi, nel corso di progetti regolari che se allettassero anche le grandi fondazioni liriche farebbero un gran bene a tutti, autori e spettatori, giovani e meno giovani amici del teatro d'opera.

    III. Premières

    1. Firenze al Maggio

    Uno, due, cinque, dieci, undici orologi che sembrano segnare le 5 o le 17 e 45 oppure le 9 o le 21 e 30: è il bozzetto che un Dino Buzzati schizzò, anzi meglio disegnò con penna sicura e punta precisa allorché fu incaricato di collaborare con Adriano Lualdi alla messinscena del suo Diavolo nel campanile (quel diavolo che si doveva arrampicare sul campanile per scompigliarne le lancette dell’orologio maggiore, quello presuntuoso detto ‘L’infallibile’). Dove, non c’è alcun dubbio: al Maggio Musicale Fiorentino del 1954, alla XVII edizione del festival fondato a Firenze nel 1931 e destinato a vita assai prospera. Emanazione di un’orchestra costituita nel 1928 da Vittorio Gui e stabilito a cadenza triennale, inaugurò nel 1933, nel ’35 decise la biennalità, nel ’36 era già annuale; nel solo ’35 presentò due prime assolute di Pizzetti e Casella e una prima italiana di Stravinskij; e proseguì con Bartók, Malipiero, Hába, Frazzi, Ravel, Dallapiccola, Prokofiev, a grande beneficio della cultura nazionale, fino a provvidi recuperi dall’antico perfino di Vecchi, Purcell e Rameau. Nel tempo ha poi perduto questo carattere di novità, ma è rimasto fra le più importanti stagioni operistiche del paese (e alla sua valente orchestra ha fornito numerose occasioni discografiche di pregio).

    Nessun dubbio che nel corso del secondo terzo del secolo il Maggio Musicale Fiorentino sia stato il miglior interlocutore del teatro d’opera contemporaneo o comunque fuori repertorio, prodigo di prime assolute italiane (e talvolta straniere) e prime italiane di opere straniere, oltre che di riprese di antiche opere completamente dimenticate. Fra queste, per l’importanza rivestita in sé e per la funzione esemplare svolta nei confronti degli altri teatri, vanno segnalate Il ritorno di Ulisse in patria (1942) e L’incoronazione di Poppea (1937) di Monteverdi, Antigona (1962) di Traetta (1962), Lucrezia Borgia (1933) di Donizetti, L’assedio di Corinto (1949) e Armida (1952) di Rossini, gli stessi Aroldo (1953) e Masnadieri (1963) di Verdi, diversi lavori e capolavori di Gluck, Cherubini, Spontini e Weber. Fra le prime nazionali di opere straniere ecco Il castello del principe Barbablù (1938) di Bartók, Billy Budd (1965) di Britten, Gli sposi della Torre Eiffel (1948) del gruppo dei Sei, L’affare Makropulos (1966) di Janáček, Guerra e pace (1953) di Prokofiev, L’enfant et les sortilèges (1939) di Ravel, Edipo re (1937) di Stravinskij, Il naso (1964) di Šostakovič, le tre opere tedesche di Busoni e altro ancora. Quanto poi alla produzione italiana moderna o addirittura contemporanea, accanto a opere di Puccini (presente con 15 edizioni della Bohème fra il 1929 e il ’66) e altri, s’impongono Don Juan de Manara (1941) di Alfano, Il contrabbasso (1954) di Bucchi, Il mantello (1960) di Chailly, Volo di notte (1940) di Dallapiccola, Conchiglia (1955) di Liviabella, Celestina (1963) di Testi, due opere di Castelnuovo Tedesco, due di Frazzi, tre di Pizzetti, quattro di Malipiero e in sostanza alcuni fra i frutti migliori della loro arte, da allungare poi con titoli contemporanei ma non in prima di Cattozzo, Ghedini, Gui, Lattuada, Lualdi, Menotti, Mulè, Porrino, Respighi, Rocca, dello stesso Strauss (degno, del resto, di tanto Wagner a sua volta pari a parecchio Mozart).

    Edizioni spesso memorabili, grazie alla bravura degli interpreti musicali ma anche al valore degli scenografi, che erano spesso eccellenti pittori ‘da cavalletto’ ovvero squisiti artisti del pennello occasionalmente prestati al teatro. In tali ranghi fortunati, accanto a Giorgio De Chirico che il primo anno fece francamente scandalo con la sua visione dei Puritani di Bellini, alcuni nomi meritano una menzione speciale: Felice Carena, che per l’ Orsèolo (1935) di Pizzetti disegnò un nobile cortile dal sentore quasi metafisico; Pietro Annigoni, che per la Vanna Lupa (1949) dello stesso Pizzetti dipinse e abbrunò alberi e rovine dall’aspetto quasi mostruoso; Ardengo Soffici che per la Fanciulla del West (1954) di Puccini costruì un interno di Polka assolutamente geometrico ma anche un po’ naïf; Renato Guttuso che per La giara (1957) di Casella ideò un fitto fogliame di fichidindia e altro colorandolo da par suo; Mario Sironi, che per il Dottor Faust (1942) di Busoni tratteggiò una parete di muro listata orizzontalmente in aspetto di gradinata; Enzo Rossi che per Il prigioniero (1950) di Dallapiccola illuminò una cancellata nel buio con le figure della madre e del

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