Don Prusòt e il delitto alla bocciofila
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Anteprima del libro
Don Prusòt e il delitto alla bocciofila - Giuseppe Grinza
Don Prusòt e il delitto alla bocciofila
Copyright © 2018, 2022 Giuseppe Grinza and SAGA Egmont
All rights reserved
ISBN: 9788728214633
1st ebook edition
Format: EPUB 3.0
No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.
www.sagaegmont.com
Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.
A Carlo Molinaro e Ivonne Albani
Qualsiasi riferimento a fatti o persone reali è puramente casuale.
Nomi e luoghi di questa storia sono frutto di fantasia e per nessun motivo possono essere associati alla realtà esistente.
Se qualcuno dovesse riconoscersi in qualche personaggio o ravvisasse somiglianze con località e situazioni a lui note, sappia che si tratta di pura casualità.
Ho creduto opportuno l’utilizzo di note a margine per una migliore comprensione del testo e per la traduzione di frasi in piemontese o in latino.
AVVERTENZE
per la corretta pronuncia e comprensione del piemontese
Tutte le parole e frasi in piemontese riportate in questo libro sono scritte nella grafia tradizionale, quella seguita nella quasi totalità dei testi. A fondo pagina, le note portano la traduzione per i lettori di sola lingua italiana.
Ecco una trascrizione fonetica:
a come la a italiana
e come la e italiana
ë muta (ghërsin, grissino)
eu come la ö tedesca (euli, olio; euv, uovo)
i come la i italiana
o come l u italiana (fomna, donna; tor, torre)
ô come la o italiana (ôss, osso; tôr, toro)
u come la ü francese (uss, uscio)
n- come n nell’italiano angolo (Carolin-a, Carolina)
Certi vizi sono più noiosi della stessa virtù. Soltanto per questo la virtù spesso trionfa.
Ennio Flaiano
So che è un segreto perché lo sento sussurrare dappertutto.
William Congreve
PERSONAGGI
Pravorino, 1951.
I quattro della bocciofila La Gagliarda:
I notabili del Paese portatori del baldacchino:
Club delle Pie Pepie:
PARTE PRIMA
1.
All’ottavo rintocco della pendola, Amelia si recò alla finestra e cominciò la conta. Giunta a 45 scostò la tendina e lanciò sguardo e naso sulla piazza.
Lo sguardo: per cogliere l’arrivo del prevosto.
Il naso: per valutarne l’umore. Un naso che non sbagliava mai.
Ai 50 esatti comparve la sagoma di don Prusôt.
Ben 20 secondi in anticipo.
«A l’è ’nrabià. – sentenziò la donna – Staseira cinghia»¹.
Il trenino che collegava Pravorino con il capoluogo era sempre puntuale come un orologio svizzero. Costruito nelle Regie Officine, programmato alla puntualità da un regime che di treni in orario se ne intendeva e condotto da uno sfegatato militante, non sgarrava mai di un minuto.
Se l’orario - affisso sbilenco sulla porta della stazione - diceva Arrivo ore 20, poteva cascare il mondo, ma alle 20 in punto Gualtiero Zapparino detto ël Bôrgno² (un occhio immolato alla Patria sulla lancia di un Arbegnuoc in Abissinia) fermava, con grido di trionfo e stridio di freni, il mostro d’acciaio alla stazione terminale.
Solo una volta, alcuni anni prima, a causa di un banale inconveniente, il trenino aveva corso un rischio che fece epoca. Un mulo cocciuto si era installato sui binari della ferrovia e non intendeva abbandonare la postazione nemmeno a cannonate.
Era un vecchio mulo che aveva fatto la Prima guerra mondiale fra gli alpini e aveva imparato a suon di legnate che non si arretra mai davanti al nemico. Solo un passo indietro, o al massimo una scoreggia, in segno di sottomissione al cospetto dell’alpino amico.
Era occorso un po’ di tempo per farlo sloggiare dai binari. Il mulo vedeva solo nemici e nessun alpino amico, cosicché il trenino accumulò un ritardo spaventoso.
Riuscirono a smuovere il cocciuto animale soltanto quando uno dei presenti, che conservava in casa la divisa da alpino di suo nonno, andò ad indossarla. L’uniforme era un po’ tarlata e qua e là si notavano strappi e rattoppi. Era stata utilizzata in passato persino come spaventapasseri, ma il mulo non ci fece caso. Riconoscendo l’amico alpino, docilmente indietreggiò dopo aver scoreggiato in segno di gradimento.
Ël Bôrgno ce l’aveva messa tutta per recuperare il ritardo, ma inutilmente. L’ora fatidica dell’arrivo nella stazione di Pravorino scoccò mentre il mezzo, sbuffando, sfiorava le prime case in paese.
Gualtiero aveva tirato la leva del freno, arrestando il trenino sotto lo sguardo critico…
Eh, quando c’era la Buonanima certe cose non capitavano…
e un po’ allarmato…
Dove andremo a finire di questo passo?…
di un vecchietto che masticava tabacco sulla soglia di casa.
«Ma dove ti sei fermato, somaro! – gli aveva urlato sputacchiando saliva nerastra – Questa non è mica la stazione!»
«Che ci posso fare, io? Sono le otto e alle otto il treno si ferma. Si vede che qualcuno ha spostato la stazione».
E non ci fu verso di fargli cambiare idea.
Quel giorno, come quasi tutti gli altri, il trenino che riportava all’ovile il buon pastore di Pravorino giunse in orario perfetto. Ma la vista aguzza della perpetua e il suo naso infallibile avevano colto nel segno.
Il prevosto era di umore nero.
Anzi: nerissimo.
Scendendo non aveva salutato il macchinista che si era quasi offeso: «Eppure sono arrivato in orario…».
E non si era nemmeno acceso il toscano, giungendo a girare l’angolo di piazza Italia con quei fatidici 20 secondi in anticipo che avevano provocato la sentenza della perpetua: «A l’è ’nrabià».
Amelia Bagatto, 80 anni, vedova Furio Caccavella ex regio maniscalco, da vent’anni serviva devotamente il prevosto in qualità di perpetua, ruolo che compendiava varie mansioni quali cuoca, lavandaia, stiratrice, donna delle pulizie, pedicure e confidente.
Tutti i ruoli le erano stati imposti per contratto.
Per l’ultimo si era offerta volontaria.
Nonostante la ragguardevole età riusciva, favorita da una salute di ferro a dispetto dell’esile corporatura, ad attendere alla cura della canonica con solerzia e diligenza. Dominava dalla cucina all’orto e, all’occorrenza, fungeva anche da sagrestano. Fosse dipeso da lei avrebbe pure fatto il viceparroco, ma le ferree leggi della curia lo impedivano.
Profumava tutto l’anno di salsa di pomodoro al basilico, fatto che la gente attribuiva alla quantità industriale di burnije³ che, nella stagione giusta, confezionava a beneficio del prevosto e di tutta la parentela. L’odore rimaneva appiccicato a pelle e vestiti e non c’era lavaggio che tenesse.
In paese, qualcuno l’aveva anche soprannominata madama Basalicò.
Infine, caratteristica indispensabile per ricoprire il ruolo delicato di perpetua, al suo sguardo acuto (e soprattutto alle sue orecchie, sempre attentissime) nulla sfuggiva.
Il prevosto fece per infilare la chiave nella toppa, ma la porta si aprì da sola.
O meglio, venne aperta dall’Amelia che vigilava dall’interno.
L’arrabbiatura del prete venne confermata dal saluto approssimativo che lanciò alla donna consegnandole il tabarro con cui si era coperto per la difficile trasferta torinese.
Il calendario registrava l’inizio della primavera, ma pareva che l’inverno, quell’anno, non avesse intenzione di andarsene, portandosi appresso rimasugli di freddo, umidità e dolori reumatici. La classica stagione in cui non sai cosa metterti. Sul trenino, infatti, all’andata faceva un freddo dell’accidenti, mentre al ritorno si moriva di caldo.
«Stasera niente cena. – disse alla perpetua – Devo ancora recitare il breviario e sento un inizio di costipazione».
La perpetua trovò strano che il prevosto non avesse recitato il breviario in treno, come suo solito.
«Guardi che un buon brodo di cappone non ha mai ammazzato nessuno», brontolò la donna.
«Cappone?»
Era noto a tutto il paese la passione culinaria del prevosto per i capponi.
In particolar modo per il boccone del prete di cappone.
«Cappone, sì».
Il prevosto indugiò tre secondi poi tenne fermo, eroicamente, il punto.
«Niente cena».
«Beh, pazienza. E dire che avevo pure preparato due tortellini da annegare in quel brodo. Ma se lei non mangia…».
«Tortellini?»
«Tortellini», rispose Amelia cominciando a sentire un profumo di vittoria.
«Col ripieno di…?»
«Niente di speciale. Lardo di Arnad, prosciutto crudo del casale, gli avanzi del bollito di ieri… digiuni pure, se vuole».
«Beh, due tortellini e una cucchiaiata di brodo. Ma solo per farvi contenta. Bussate quando è pronto».
2.
La cena si svolse regolarmente come la perpetua aveva previsto.
Sparì mezzo salame, un piatto di tortellini in brodo con bis, mezzo litro di vino e una abbondante porzione di prusôt martin sèc⁴ cotti nel vino rosso, profumati con cannella e chiodi di garofano, addolciti con zucchero di canna e, dulcis in fundo, spruzzati di cioccolato, una raffinata variante di Amelia alla ricetta tradizionale.
Questa piccola e innocente trasgressione del prevosto, risaputa in tutto il paese, gli aveva procurato il soprannome di don Prusôt⁵.
Il petto di cappone lesso, no.
Su quello tenne il punto.
«Avrei preparato il bagnetto⁶ verde con l’aglio…».
«Vi ho detto e ripetuto che stasera non ho fame. Ho mangiato solo qualcosina per farvi contenta, così non me la contate per una settimana».
«Lo faccio per la vostra salute. Se non mangiate… un sacco vuoto non sta in piedi. A proposito…».
«A proposito di che?»
«Come sta suacelensa?»
Era entrata in servizio la confidente, in attesa che la sguattera lavapiatti cominciasse la propria funzione.
«Come volete che stia? Bene. Come mai questo interessamento?»
«Dicevo per dire. Il vescovo è il pastore di noi tutti, no?»
«Certo. È il nostro pastore e gli dobbiamo rispetto e riverenza».
«Allora nessuna novità?»
«Nessuna novità».
Allora perché sei così nero?
«Vi vedo così angustiato… Magari il vescovo ci ha l’influenza e voi, che siete così sensibile, vi sagrinate⁷…».
«Ma che dite, sta benissimo».
«Allora perché siete così ombroso, stasera?»
Non era riuscita a trattenersi. Alle volte le confidenze bisogna tirarle fuori con le maniere forti, con le tenaglie, nel qual caso è indispensabile effettuare il piano dell’attacco diretto.
Alla baionetta.
Lei, in fondo, non era una governante qualsiasi.
Era una perpetua da combattimento, perpetuamente (appunto…) con l’elmetto in testa.
«Sono cose di parrocchia, non vi riguardano. E poi…».
«E poi?».
«E poi è una cosa riservata che nessuno in paese, per ora, deve sapere».
«Se è per questo, potete fidarvi. Lo sapete che sono discreta, muta come san Defendente».
San Defendente era il santo protettore di Pravorino e aveva fama di non saper far miracoli. Il comitato della pro loco aveva tentato invano, più volte, di farlo cassare dalle autorità religiose per sostituirlo con un altro santo più prodigo di grazie e portenti che desse gloria e lustro al paese.
San Sulpicio, per esempio, che, secondo le cronache, nel suo girovagare per l’Europa era transitato per Pravorino compiendo il miracolo di salvare un contadino dalle corna aguzze di un toro imbizzarrito.
Oppure santa Rita, che di miracoli ne faceva a iosa. C’era il rischio di conflittualità religiose con altre parrocchie della diocesi che già si contendevano le grazie della santa delle Rose, ma per quanto poco avesse fatto per il paese sarebbe stato sempre qualcosa in più di san Defendente, il cui intervento taumaturgico era pari a zero.
Ne andava del buon nome di Pravorino.
«A che serve un santo protettore se non fa qualche miracolo ogni tanto?», tuonava il cavalier Ettore Mustacchio dall’alto della sua autorità per aver pubblicato un trattato sugli asparagi, prodotto locale di eccellenza.
Ma fino a quel momento non c’era stato nulla da fare.
San Defendente era e san Defendente restava.
La curia era irremovibile.
Si è mai visto cambiare i santi così come si cambiano le mutande?
Una assurdità.
La sterilità taumaturgica del santo, nel frattempo, aveva creato quel detto locale: muto come san Defendente, in sostituzione del vecchio detto muto come un pesce.
«Zitta, non bestemmiate. San Defendente non è muto. Sono i parrocchiani a essere miscredenti. Se lo pregassero di più… quanto poi alla vostra discrezione, lasciamo perdere».
«Cosa volete insinuare?», si inalberò la perpetua versandogli una generosa dose di vin santo.
Il vin santo, dopo cena, compariva nell’elenco delle debolezze che il prevosto aveva accumulato negli anni e la perpetua sapeva, per esperienza, che quel liquido ambrato aveva il potere di sciogliergli la lingua.
«Volete forse dire che sono una chiacchierona?»
«Non voglio dire questo, siete una brava perpetua, lo ammetto… e senza di voi non saprei che fare… però…».
«Però non sono degna delle vostre confidenze. Domisumdignu⁸, come dite voi in latinorum».
«Ma che dite… è che ci sono delle rogne che mi devo grattare da solo».
«E allora grattatevele mentre lavo i piatti».
Ciò dicendo riempì nuovamente il bicchiere del prevosto con quel vinello detto santo che rendeva l’anima leggera e scioglieva la lingua.
Poi me le racconterai, le rogne che ti devi grattare. Su questo non ci piove….
Infatti dopo cena la storia venne fuori.
Il vescovo, Sua Eccellenza Reverendissima monsignor Carlo Maria Molinaro da Drusacco, aveva convocato il