L'inferno confina con Dio
Di Franco Enna
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L'inferno confina con Dio - Franco Enna
L'inferno confina con Dio
Immagine di copertina: Shutterstock
Copyright ©1952, 2023 Franco Enna and SAGA Egmont
All rights reserved
ISBN: 9788728523261
1st ebook edition
Format: EPUB 3.0
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A Sergio Filippini
fraternamente.
Collana Mediterraneo
1
1.
Una mano fuori del finestrino si sarebbe spellata come una biscia: il sole cadeva a picco dalle colline brulle dove la terra si era crepata come uno specchio rotto. In una colata di lava bionda e impalpabile penetrava il trenino a scartamento ridotto. Dentro c’era poca gente, calcata in una miseria viscida di abiti sudati, contorta come per un maleficio solare sui sedili di legno della terza classe, avida di fresche immagini marine, di acque limpide e azzurre sotto il roteare lento dei gabbiani. Quì invece roteavano i falchi planando da vette gialle, itteriche, spolpate dalle falci dei mietitori che vi avevano appena lasciato una ispida barba di stoppie dove la calura crepitava e le cicale impazzivano.
Agosto e la locomotiva ruttavano un loro fiato torrido e amaro, senza color di cielo nel meriggio, e le farfalle bianche dell’estate sobbalzavano in cerca d’aria.
In fondo all’unico vagone di terza classe la vecchia che era andata a Palermo a vendervi le uova risparmiate dormiva con la testa ciondoloni. Aveva capelli giallicci, impataccati di chiazze smorte verdastre che s’intonavano col colore delle ali delle mosche che popolavano il vagone, capelli di vecchio animale morente, o desideroso di morire. Sulla faccia molle di lei il sudore rovinava di ruga in ruga, le sbavava sulle labbra screpolate e aperte, le finiva sul grembo, e di esso il grembiule nero s’inzuppava. Era sola nel suo angolo, la vecchia, protetta da una barricata di ceste vuote, di dove si levava un odore di uova marce.
Per questo Matteo si era sdraiato sul sedile opposto, ma non dormiva: con gli occhi socchiusi osservava la ragazza che fumava sul sedile vicino; aveva i nervi tesi, i sensi aperti a quella immagine di donna giovane e fresca, dai lunghi capelli neri a criniera, dallo sguardo mielato di torpore, perduto in un’ombra cupa di sonnolenza. Il dondolio del treno lo cullava minaccioso, gli faceva un solletico alle cosce che gli piaceva. Non volle cambiare posizione. Immaginò anzi di avere la ragazza seduta sulle gambe. Perdio, ma dove l’aveva vista? Spalancò gli occhi di colpo. La ragazza s’incastrò in un suo ricordo nebuloso che sul momento non riuscì a cogliere. Era proprio carina, pensò. Gli piaceva il suo abitino di tela bianca a quadri rossi e neri; gli piaceva lo sbuffo dei suoi seni, la curva dell’anca, la sagoma delle cosce un po’ divaricate, la forma affilata dei polpacci e delle caviglie. Una ragazza come quella avrebbe fatto perdere la testa a chiunque. Demonio, ma dove l’aveva vista? Non riuscì a ricordare. Era salita a Castelvetrano, e per lui era stato come se una ventata d’autunno fosse entrata nel vagone. Non doveva essere siciliana, anche se ne aveva il tipo, pensò Matteo. Fu contento di quella ipotesi; era stanco di avere a che fare con siciliane che, quando si facevano prendere, si davano tutte, e per sempre. Da tempo sperava di fare all’amore con una continentale. Quelle sì che sapevano amare, non restavano come mummie tra le braccia ad aspettare e a lasciar fare… Giorgio Campisi, che era stato a Milano, gliene aveva parlato spesso ed esaurientemente, con un rimpianto oleoso nella voce dove le parole s’impastavano di libidine e di amarezza. Doveva smettere di pensare alle donne, si disse Matteo. Ma non era facile. Che colpa ne aveva lui, se quando vedeva una ragazza carina cominciava a scodinzolare?
La ragazza gettò fuori dal finestrino la sigaretta fumata a metà, poi raccolse con due dita i lembi della gonna e li scosse a lungo per rinfrescarsi le gambe. Matteo si accorse che non portava sottoveste: doveva essere proprio continentale, forse del settentrione, milanese o veneziana, chissà. Un’ondata di gaudio lo raggiunse alle tempie. La ragazza si volse a guardarlo per un momento. Matteo ne provò un gran turbamento e fu lì lì per parlare, ma le parole gli si arenarono sulla lingua. Lui non aveva mai parlato italiano, conosceva qualche parola appena, anche se lo capiva, certo; ma che fare se non ne aveva l’abitudine? Coi suoi contadini non poteva parlare maiuscolo, e ne aveva a decine attorno ai versanti della Rocca delle Penne, e più a sud ancora, sparpagliati sulle sue terre feconde seminate a grano e coltivate a vigneti, a frutteti. Ma tutti parlavano dialetto e lui non aveva parlato altro, tanto l’importante era capirsi e avere un forte conto in banca, accidenti!
Matteo si guardò attorno. La vecchia dormiva laggiù: sembrava uno scarabeo sdraiato sulla corolla di uno strano fiore di paglia; c’erano poi quattro uomini che giocavano a carte sopra una valigia di cartone; giocavano in silenzio, battendo forti pugni sulla valigia, e se qualcuno gridava era sempre un ometto smaltato, in maniche di camicia, dal petto candido implume. Nell’unico scompartimento di prima classe ronfava il capotreno, grasso, squamoso, quasi in procinto di liquefarsi in quell’afa. Non avrebbe dato fastidio, pensò Matteo. Ma dove diavolo l’aveva vista? Se era continentale, probabilmente veniva dal continente e vi abitava; lui non era mai stato sul continente, nemmeno per fare il soldato, perché il padre, con una buona dose di biglietti da mille, lo aveva fatto riformare alla visita medica. Quindi non poteva averla vista che in Sicilia. E dove? Lui viaggiava poco, gli piacevano poco i treni, preferiva il cavallo, il calesse, o al massimo l’automobile, scoperta però, perché l’aria gli sbattesse sulla faccia come quando stava in groppa al suo bel morello. Era stato qualche volta a Palermo, una volta a Catania, e mai in altre città di mare, in altre città con gente e palazzi. Andava spesso a Partanna e a Castelvetrano, specialmente quando non trovava di che soddisfare la sua mascolinità prepotente. Non sempre Paola, la figlia del massaro Cola, riusciva a sfuggire alla sorveglianza dei genitori. Ma certo in qualche posto doveva averla incontrata, era un fisionomista lui e non capitava mai d’ingannarsi in quei casi. Era proprio una bella figliola, si disse.
La ragazza si alzò, sbadigliò con garbo mettendosi una mano davanti alla bocca: nel gesto mostrò una ascella morbida piena di voluttà.
— Fa caldo, vero? — disse Matteo, e si meravigliò di essere riuscito a parlare in italiano. Ne fu ringalluzzito: mise a sesto il nodo della cravatta, si passò una mano sulla fronte madida e sorrise. La ragazza lo fissava stupita. La voce di lui aveva rotto un incantesimo malato d’afa, acido di sudore.
— Si muore — ammise la ragazza. Il tono di lei, la stessa frase, non lasciavano dubbi: siciliana. Matteo ne fu deluso; il sorriso gli si fermò sulle labbra in attesa di un pensiero nuovo, di uno stimolo. Passavano davanti al finestrino nuvole nere di fumo che la locomotiva soffiava ritmicamente. La strada andava in salita, incassata in un giallo deserto di stoppie.
— L’avevo presa per una del continente — disse Matteo sorridendo ancora; siciliana o non siciliana, quella ragazza gli aveva messo il fuoco nel sangue.
Rabbrividì al pensiero di poterla possedere. Cristo, avrebbe dato chisacché per poterla avere!
La ragazza rise; la risata squillò nel silenzio metallico del vagone.
— Davvero? — disse.
— Davvero: ha un’aria così continentale!
— Sono di Palermo invece. — Andò a sedersi di fronte a Matteo che ritirò con premura i piedi. — Ah, che inferno! — esclamò in siciliano. — Questo caldo mi fa impazzire; erano anni che non sentivo un caldo simile… Mi prende la borsetta?
Matteo si precipitò, le passò una borsetta rossa di paglia dalla quale la ragazza trasse un pacchetto di Macedonia Extra col filo d’oro. Ne offrì, ne prese una per sé, e insieme fumarono a boccate brevi: il fumo stentava ad andarsene, l’aria del treno lo trascinava via a fatica.
— Che puzza! — fece la ragazza. — Mi pare di essere in un cesso.
— Questa gente lorda dappertutto, e poi c’è la latrina vicino — disse Matteo condiscendente; si sentiva disposto a disprezzare anche sua madre pur di far piacere alla ragazza. — Io ho preso la terza per distrazione; viaggio sempre in prima, quando viaggio.
— Anch’io — disse la ragazza. — Questo treno è una tortura. E’ la prima volta che lo prendo, ma in Alta Italia tutto è diverso, davvero. Si viaggia senza fumo, senza carbone negli occhi; si può stare anche affacciati mentre il treno corre, che dico, vola.
— Davvero dice?
— Davvero. E’ un paradiso, e poi guai a chi sporca: tutto è pulito, tutto fa profumo…
— Qui si sente il profumo della stalla invece — rise Matteo. — E’ tanto che dico di andarmene, di vendere le mie terre e di stabilirmi in qualche posto sul mare, ma lontano dalla Sicilia, s’intende. Qui c’è miseria, la gente non sa capire niente e lavora per una manciata di fave.
— Sante parole!
La ragazza gettò la sigaretta oltre il finestrino. Un ginocchio di lei toccò una gamba di Matteo. E non la lasciò più. Il giovanotto sentì come un verme camminargli nel sangue e arrivargli al cervello. Si asciugò il sudore che gli scendeva lungo il collo. Ora che la conversazione si era ingaggiata in siciliano, si sentiva più tranquillo, più fiducioso nel successo. In fondo, pensava, le continentali erano insipide, si davano tante arie ed erano fatte come le altre; anzi, le siciliane erano più sincere, più calde.
Disse: — Sa che sto scervellandomi per ricordare dove l’ho vista prima di oggi?
— Davvero?
— Davvero, giuro. Sono sicuro di averla incontrata e non ricordo dove.
La ragazza rise ancora, prese un’aria maliziosa, provocante.
— Nel mondo ci sono sette persone con la stessa faccia — disse.
— Ah, no, io ho visto lei, e ne sono sicuro, era lei, con quella faccia e… con tutto il resto!
Risero insieme. L’ometto smaltato che giocava a carte urlò: — Boia cane, dovevi scartare denari, ma va’ a farti fottere, va’ a succhiare il latte a tua madre.
— Va lontano? — chiese Matteo. Capì subito di aver fatto una domanda sciocca, perché il treno faceva capolinea a Salaparuta.
— No, non credo che sia lontano: vado a Gibellina.
— Ma che combinazione! Io sono di Gibellina, vado a Gibellina… Ha