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La Tosca
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E-book288 pagine4 ore

La Tosca

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La storia di Tosca è forse la più popolare delle trame operistiche. Grazie a Puccini naturalmente, ma anche ai due librettisti Illica e Giacosa che hanno saputo estrarre dal dramma di Sardou, il vero inventore di Tosca, il succo più teatralmente avvincente. Dai cinque atti del lavoro in prosa si passa ai tre del melodramma, dai ventitré personaggi di Sardou agli otto di Puccini.
La storia è secca e logica nella sua essenzialità sia nel dramma francese sia, ancor più ovviamente, nella riduzione in musica.
Quante domande quindi, che travalicano il testo, il pubblico più vario potrebbe essersi posto? Domande a cui nessuno ha mai dato risposta.
Da dove viene la celebre cantante, da dove il pittore, e così il barone Scampia e gli altri comprimari? Quali le loro storie? Cosa hanno fatto prima di giungere al fatidico giorno del tragico evento? E dopo cosa è successo? Chi è quell’evaso Angelotti e come ha fatto a sfuggire da Castel Sant’Angelo? E la regina, nominata nel secondo atto? E quella marchesa Attavanti, raffigurata nel quadro?
Cosa sappiamo veramente di tutte quelle figure, al di là degli stringatissimi fatti narrati a teatro? Nulla!
Ma ecco che tante risposte, narrazioni, curiosità, le troviamo appunto in questo cosiddetto resoconto, stretto fedelmente nei vincoli imposti dal dramma, minuzioso nell’ambientazione, ligio alla Storia, scrupoloso nella narrazione di fantasia debordante dall’originario testo sardouniano.
Leggere questo libro significa aprirsi un orizzonte più vasto su tutta la storia di Tosca, conoscerne cioè di più, sia dal punto di vista storico, sia da quello dell’invenzione drammatica. È soprattutto un racconto corale, con tanti personaggi, storici e d’invenzione, che ruotano attorno ai noti tragici fatti.
Ma, al di là di questa visione, è Roma la vera protagonista di questo lavoro. È l’affresco sulla Città Eterna di quel tempo che ci appassiona: le abbondanti citazioni di cose e di toponimi romani, le pennellate sulla vita del popolo e dei notabili con scene e controscene in efficace discorso diretto sia in lingua che in parlata romanesca. E non mancano le pasquinate.
Un romanzo insomma coerente nei fatti, realistico nella mentalità dei personaggi, pregnante di contenuti socio storici a livello divulgativo ed estremamente accattivante e scorrevole nella lettura, ulteriormente approfondita dalle note.
Questa è davvero la storia completa di Tosca.
LinguaItaliano
Data di uscita2 apr 2012
ISBN9788866900009
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    Anteprima del libro

    La Tosca - Giorgio Bosello

    www.danaelibri.it

    1 - FILÉ

    - io già raccolsi

    oro e gioielli...

    una vettura è pronta.

    Puccini, Tosca, atto III

    Il vetturino Francesco, detto Filé, aspettava da troppo tempo sotto il muraglione di Castel Sant’Angelo, al solo lume d’ordinanza, che ora poteva pure spegnere per il sopraggiungere delle prime luci dell’alba; aspettava in quella strana notte non del tutto chiara a causa di una luna vagante tra cirri madreperlacei. Del resto la signora l’aveva avvertito che non sapeva quando esattamente sarebbe tornata e gli aveva detto pure di non aver fretta.

    Ma era alquanto strana. Lei sì che pareva aver fretta. Sembrava eccitata, non era tanto gentile e garbata come egli l’aveva conosciuta altre volte. Certo, che fosse una cantante rinomata lo sapeva bene. Suo fratello Baldino, che lavorava in qualità di macchinista al teatro di Torre Argentina, l’aveva ammirata di frequente sulla scena. Quando gliene parlava, che litania di elogi! Pareva proprio innamorato. Ma certo, sulla bravura, bellezza e cordialità di tale artista proprio niente da dire! Donna di grande stile e personalità!

    E così ora Filé aspettava il ritorno della signora Floria Tosca, congetturando tra sé e sé.

    *

    Era venuta a svegliarlo a casa sua, all’Arco degli Acetari, dicendogli di preparare la carrozza per un suo viaggio improvviso. Così, in piena notte, ma son cose da fare? E sua moglie non aveva forse ragione a voler delle spiegazioni? Ma che poteva dire lui alla sua Bice? Sapeva solo che la signora sarebbe tornata dopo pochi minuti per partire. Per dove? La destinazione la sapeva solo lei, se la sapeva. Le promesse sul compenso erano allettanti e perché quindi non accettare?

    Quello che vorrà, gli aveva promesso.

    Mentre Francesco, il Filé, attaccava il cavallo Panzetto, stralunato per il brusco risveglio, e predisponeva la solita attrezzatura per un viaggio fuori città (un po’ di fieno e un po’ di acqua non devono mai mancare), la signora avrebbe spiccato ancora un salto a casa per motivi suoi. Lui sapeva che la Tosca abitava a pochi passi, in un appartamento di Palazzo Montoro e quindi si stava sbrigando al massimo, per essere pronto al suo ritorno.

    E la cantante arrivò, infatti, assai presto. Portava con sé un piccolo bagaglio, molto elegante, di modello francese. Non era più vestita con quell’abitone da sera che portava pochi minuti prima. Si era evidentemente cambiata: ora portava un vestitino da viaggio leggero, forse di seta, a colori vivaci. Col caldo di giugno, notava Filé, a percorrere l’assolata campagna romana, almeno così presumeva di dover fare, si capisce, era il minimo che ci si potesse aspettare. Ma, oltre a quella borsa, sull’altro braccio portava anche degli indumenti sciolti, forse quello stesso abito e scialletto di prima. Tanta fretta da non poter allestire un piccolo baule?

    Francesco, il Filé, l’aveva poi vista ritornare a passo svelto, infilarsi direttamente in carrozza, trovata pronta in via del Pellegrino, buttare di getto i suoi impicci sul sedile, e sentenziare:

    A Castello.

    Filé, alquanto timoroso per quella inattesa destinazione, per di più in quell’ora notturna che rendeva il forte ancor più sinistro, dopo una smorfia di raccapriccio, fece partire il placido Panzetto col suo verso abituale. Con tale secca, perentoria destinazione, Filé non osò più mettere in chiaro se poi si sarebbe dovuto uscire da Roma e, in tal caso, se la signora avesse le necessarie autorizzazioni per farsi aprire una porta d’uscita.

    "Staremo a vede," pensava il vetturino.

    *

    Ed ora era lì il nostro Filé ad aspettare, paziente come sempre, mentre già il chiarore crepuscolare, gradualmente più intenso, annunciava l’improcrastinabile, prorompente bisogno dell’astro solare di venire allo scoperto. Filé non era fermo proprio davanti al portone dell’enorme mausoleo adrianeo. Mentre attraversavano ponte Sant’Angelo, la signora l’aveva istruito a voltare a sinistra e a fermarsi in quel fazzoletto di prato presso il fossato, sotto il torrione di San Matteo, in modo, dice lei, da non dare fastidio. Il tempo passava. Il cavallo forse dormiva in piedi ed anche il padrone non è che fosse nel pieno delle sue risorse fisiche.

    Ad un tratto Filé sentì in lontananza una voce di ragazzo intonare uno stornello romanesco e pensò subito ad un pastorello girovagante col suo gregge nei prati circostanti [1].

    "Anvedi come s’è svejato de bon’ora el pecoraro de Castello! Senti, senti el maschiettolo. Manda li sospiri, beato lui! E come se l’è imparata bene. Hai capito? Lui canta gajardo e quelle màgneno de brutto," fu la sua riflessione.

    Ma a riportare i suoi sensi sopiti ad un risveglio decisivo ci pensarono le campane dell’angelus [2].

    L’attacco spetta alla campana di San Salvatore in Lauro con un rintocco lento e grave, cui s’aggiunge poco dopo quella della Traspontina, con una nota più acuta e di metà valore, alternata ad equivalenti pause. Ma poi tante altre fanno sentire i loro squilli. È come una gara a chi loda meglio il Signore, una gioia che salta da campanile a campanile, e dovrebbe rimbalzare anche nei cuori della gente, della buona gente desiderosa di pace in questa terra, per intanto, e poi, col tempo, senza fretta, nell’aldilà. Campane accolte con meno sentimento solo da certi signori pigroni e sfaccendati, che a quell’ora amano ancora il letto.

    S’infervora il crescendo di rintocchi ormai sovrapposti, indistinguibili: Sant’Agnese in Agone, Sant’Agostino, Santi Celso e Giuliano, Sant’Andrea della Valle, la Vallicella, il Gesù, San Giovanni dei Fiorentini, Santa Maria in Aquiro, Sant’Onofrio sul Gianicolo! A questo mattutino concerto si aggiunge, col ritardo tollerato ai grandi, il campanone di San Pietro, grave, poderoso, solenne, qualità conquistate sul campo in pochi anni. Infine le campane di altre centinaia di chiese più lontane, da quelle di Monti a quelle di Trevi, di Ripa e di Trastevere, amalgamate organisticamente, si accavallano per rinforzare il suono mattutino di quel risveglio nel nome dell’Angelo dell’Annunciazione.

    Francesco provò il solito attimo di commozione, mentre continuava ad aspettare. Il suo animo semplice e religioso prevaleva in quei momenti sulla saldezza del suo carattere, realistico e disincantato, popolare e irriverente per celia.

    Improvvisamente sentì uno sparo, o meglio un grappolo di spari dalla sommità del Castello. Pensò subito a qualche evasione di prigionieri, oppure ad un’esecuzione, caso questo assai più frequente del primo. Ben lontano però dal collegare il fatto con Floria Tosca, che aveva visto entrare veloce in fortezza. Non passò che un minuto da quegli spari ed ecco sentire un gran vociare in alto. Filé guardò verso l’Angelo e vide una forma umana cadere nel vuoto dalla parte del cortile d’onore. Un tonfo. Altre grida concitate, gente affacciatasi al parapetto più alto, guardie armi in pugno.

    Ma cosa è dunque successo? Hanno sparato ad un fuggitivo? Ma come mai dal terrazzo alto della fortezza? Le prigioni sono più a basso e chi fugge scende, non sale. I colpi sentiti l’hanno soltanto ferito e lui disperato si è buttato nel vuoto? O l’ha buttato qualcuno?

    Ma all’improvviso Filé rivide in un flash l’attimo di quella caduta e le cose nella sua mente incominciarono a cambiare, i contorni a ridefinirsi meglio. Era un uomo il caduto? La cosa sembrava tanto scontata che era stata da lui introiettata istintivamente. Ma non aveva visto forse uno sventolio di abiti femminili in quel brusco, indistinto precipitare? Un uomo travestito o una vera donna?

    Filé incominciò veramente a sentirsi a disagio. La faccenda si stava facendo confusa, inspiegabile, misteriosa.

    "Ma ‘sta Tosca quanno torna? — pensava allarmato — Che je sarà successo?"

    Il povero vetturino non sapeva più cosa fare. Andare a domandare al posto di guardia non se la sentiva proprio. Strani timori lo opprimevano. Se ne udivano tante di storie di poveracci maltrattati. Meglio non rischiare. Pensò piuttosto di spostare la sua vettura verso i Borghi e di metterla in un cantuccio ancor più celato.

    Ora, mentre si allontanava si accorse di un inusitato movimento al portone, guardie a cavallo in uscita a trotto sostenuto, sia in direzione Ponte, sia in direzione Borghi. Alcuni cavalieri gli passarono abbastanza vicino, ma non lo notarono, o non avevano tempo o voglia di fermarsi per interrogarlo sul motivo di quella sosta.

    Che fare ora? Era passato altro tempo. Il sole si era alzato, anche se Filé non lo poteva vedere, essendo all’ombra del Castello. A quel punto ne aveva proprio abbastanza. Non poteva più aspettare. I suoi timori crescevano. Una strana agitazione gli stava dando anche fastidio alle interiora. Ma dove è finita quella benedetta Tosca? Perché non torna? Una così bella signora!

    Un baleno nella sua mente. Un sospetto, un’intuizione, una premonizione, non sapeva, ma ricacciava atterrito l’idea. No, non riusciva a pensare che la persona caduta fosse proprio lei. Era per lui una cosa assurda. E questo pensiero di un istante fu subito da lui temporaneamente fugato.

    Infine si decise. Sarebbe tornato a casa, lentamente, cercando di scansare strade, dove avrebbe potuto incontrare qualche amico o collega. Non si sa mai. È meglio evitare le chiacchiere. Meglio sentirle che farle le chiacchiere. E non sarebbe tornato difilato a casa. Anche con la moglie, meglio stare attenti. Avrebbe così fatto un giro vizioso, in posti deserti, tanto per far passare un po’ di tempo e poi sarebbe andato a Campo de’ Fiori [3] nel suo abituale posteggio. Il lasso di tempo, oltre che a tranquillizzarsi, sarebbe servito per far giungere le notizie tra la gente, se di notizie di una certa importanza si fosse trattato. E quindi Filé avrebbe saputo finalmente dal popolo della piazza cosa era successo a Castel Sant’Angelo all’alba.

    Stava per mettersi in cammino quando si sovvenne del bagaglio: la borsa, gli abiti, che fare? Portarli a casa sua all’Arco degli Acetari? Non avrebbe avuto questo gesto un sapore di furto? Portarli a casa della signora? Ma la signora in casa non ci poteva essere. Lasciarli in vettura? Ma se avesse dovuto caricare qualche cliente? La borsa non osò neppure toccarla, almeno per il momento. Non sarebbe stato degno di lui.

    Intanto aveva mosso cautamente il fedele Panzetto e, quanto mai guardingo e timoroso, sentendosi alla pari di un disertore, osò uscire da Porta Castello, aperta da poco. Iniziò a percorrere un viottolo di Prati di Castello verso Nord, costeggiando la vigna Cristofori. La stradina era ben ombreggiata e, mentre Panzetto se n’andava al passo, molto lento e felicemente sorpreso ed incuriosito per quell’inattesa passeggiata pei campi, Filé continuava a pensare come sistemare quel dannato bagaglio.

    Ma su ogni preoccupazione dominava un pensiero fisso, angoscioso. Era la sua mente che tornava incessantemente all’enigma della scomparsa della signora Tosca. Si dispiaceva di non aver obbedito all’invito di aspettarla. Ma che altro poteva fare? Quanto altro tempo sarebbe dovuto rimanere sotto il torrione di San Matteo, ai piedi di quel sinistro Castello, dopo quegli allarmanti spari e quelle confuse grida? Cosa le sarà mai successo? Era una donna stimata e benvoluta. Chi avrebbe potuto farle del male? E non aveva ella mai avuto niente a che fare con birri e bargelli. Perché era andata a Castello? Era donna di teatro, ma anche religiosa e i preti che contano l’apprezzavano molto.

    Durante l’occupazione francese, e quella dannata repubblica, gli pareva di ricordare che la cantante fosse andata a Napoli, certo per impegni professionali, ma appunto perché godeva della simpatia di quei reali, Ferdinando e Carolina, prima che questi fossero costretti a scappare per l’arrivo dei Francesi. Poi era tornata, ancora in tempo di giacobini, a motivo dei suoi contratti, ma stava sulle sue, non s’interessava di politica e si comportava con tutti con la sua imparziale signorilità e cordiale distacco. La sua arte era per tutti, aveva detto, perché al di sopra delle parti. Nessuno aveva osato darle fastidio.

    Figura 1 Angelica Kaufmann, Ferdinando IV e la sua famiglia (1783). Napoli, Museo di Capodimonte.

    Il vetturino Filé alternava i pensieri sulla celebre cantante e sul dove potesse essere finita con la preoccupazione per quelle cose lasciate in vettura. Come liberarsi di quel fardello? A chi darlo? Pensò al suo parroco, quello di San Lorenzo in Damaso alla Cancelleria. Poteva spiegare a lui la faccenda e lasciargli la roba, temporaneamente, in attesa di chiarire il tutto.

    "Ce sarà da fidasse? — continuava a pensare, agitandosi nel suo stato d’ansia — Nun è che er reverendo se confida poi con quarche pezzo grosso, magara in bona fede. I guai, si sa, meno te li sogni e più te salteno addosso. No, no, a quel parroco, don Raventani, è mejo nun parlà. È troppo pappa e ciccia con quelli che comanneno. Due o tre domeniche passate, dopo la messa grande in San Lorenzo alla Cancelleria, ce l’ho pizzicato a intrattenesse cor capo della polizia, quel barone Scarpia, venuto a seguito de li Napoletani, che nun ce gode davero de ‘na bona fama. Mette la strizza solo a guardarlo, sto baciapile der cazzo. E sai che famo noantri? — gli scappò di bocca sottovoce, rivolgendosi al suo ronzino — Quer prete de naso lo lassamo perde. È mejo, nun te pare, Panzetto mio?"

    Gli venne pure in mente quell’altro parroco di San Lorenzo in Lucina, tutto il contrario del suo. Non ne ricordava il nome, strano e difficile.

    "Fras, fris... boh, un mezzo tedesco, che ne so. Ma che razza di predica aveva fatto dar purpito! — rivangava nella sua mente — A pro de la repubbrica, figuramose, che er popolo di Dio nun aveva nulla da temé da essa, che la nostra santa religgione e li dogmi continuaveno come prima, e via di questo passo. Ed il governo giacubbino, tutto contento, le aveva pure fatte stampà quelle parole e fatte circolà tra la gente. Bella propaganda! E intanto se portaveno via er papa, l’animaccia loro."

    A pensarci bene la cosa sgangherata era che lui stesso non sapeva cosa mai avrebbe dovuto temere. Aveva sempre fatto il suo dovere. Il dovere del vetturino è di assecondare il cliente. Ma se lo avessero strillato ora per aver abbandonato il suo posto d’attesa a Castello? Come l’avrebbero pensata i superiori?

    "Gnente gnente ce starà la pulitica de mezzo? Brutto impiccio! — continuava a rimuginare tra l’ondulare sonnolento della vettura — La vedo ancora brutta ‘sta situazione a Roma. Nun me convince pe’ gnente. E dimani che sarà? Che cazzarola ce potrà ancora succede? Sarà passato el peggio?"

    E provava pena per il buon Pio VI, morto come un tapino in Francia da meno di un anno.

    "E guarda te, li cardinali in quel frebbaro disgrazziato catturati e dispersi, tutti fora de Roma."

    E per quanto tempo non si era saputo dove si sarebbe svolto il conclave? Passavano i mesi, senza papa e senza conclave in vista. Bella situazione! Finalmente a dicembre a Venezia il grande consesso. Correva voce che l’imperatore Francesco II d’Austria volesse comandare lui all’elezione.

    "Mica stronzo el sor imperatore. Lui sistema tutti, bono bono, protegge li cardinali, porello, se li lavora e poi comanna lui. Ma me sa tanto che gli è annata male."

    Sta di fatto che a Filé sembrava proprio uno scandalo quei quattro mesi e mezzo prima di decidersi sul Chiaramonti, anche lui di Cesena. Un Pio VII che ancora a Roma non s’era visto.

    "Ma che aspetterà, puro lui, a salì sulla cattedra de Pietro? Nun c’ha prescia pe’ gnente. Che vò dì? Che se ne frega de Roma?"

    La massa popolare aspettava il ritorno del papa, ma sarebbe stato meglio dire l’arrivo del nuovo papa, che i romani non conoscevano ancora. Anche Pasquino [4] aveva scritto:

    Rivolemo el papa nostro,

    un po’ bono, un po’ tosto.

    Lo stesso Filé sperava che, appena arrivato a Roma il papa, i Napoletani se ne sarebbero andati.

    "Che ci hanno proprio stufato, mortacci loro!"

    Le previsioni di Filé erano tutt’altro che ottimistiche.

    "E li Franzesi che starebbeno a combinà? Potemo stà tranquilli? O manco pe’ niente? Volemo sortanto nun avé rivoluzzioni, nun vedè sordati, né nostri né tramontani. Nun volemo vedè le fucilate pe’ le strade e er cannone de Castello che bombarda."

    La vettura di Filé, placida e riposante a vedersi, così allegramente tirata da Panzetto, ma tempestosa e rievocativa nei pensieri del suo conturbato guidatore, aveva girato per un viottolo di sinistra, tra il verde delle vigne e orti.

    "E poi se sa, noi popolani che vivemo alla giornata in quale altro monno potemo stà mejo? Che ce frega chi ce comanna? Basta che ce assicureno tranquillità, pane e vino e il nostro lavoro de sempre. Un minimo di decenza, per Dio! Il regime de li preti più o meno lo conoscemo, avrà li difetti sua, ma viva la faccia! Ma quella repubbrica che se diceva romana, co’ li Franzesi giacubbini di mezzo a proteggerla, chi voleva incantà? Con quelle belle frasi, che capiveno solo loro, libertà, uguaglianza, ma de chi? Pe fà piacere a chi, dico io? E intanto ripuliveno chiese e conventi, e se portaveno via puro li quadri de li santi, senza rispetto e timor de Dio."

    Filé continuava a pensare indignato ai Francesi armati e altezzosi per le strade di Roma e ai giacobini romani tutti ringalluzziti, gente non di vero popolo come lui, ma dei saputoni e dei signori, venuti anche da fuori, con quelle idee balorde.

    "Te ricordi, Panzé — mormorò al cavallo, approfittando della solitudine del luogo agreste — come gridaveno li Romani del popolo ai monsù pe’ le strade? Libberté, egalité, fraternité sò bojaccia tutt’e tre."

    E, tanto per distrarsi, ricordava ancora quel tale, un certo soprannominato Cacarone, che cantava nelle osterie: ‘Mannaggia li Francesi e chi je crede, vonno venì qui a Roma a facce rinunzià la santa Fede’.

    E non poté il buon vetturino non rievocare ancora tra sé e sé avvenimenti terribili dei due anni precedenti. Per esempio, ricordava troppo bene quella paurosa giornata della sommossa antifrancese dei trasteverini, pochi giorni dopo la proclamazione della repubblica. Lui si salvò per miracolo! E sì, perché la sfuriata popolare, passato ponte Sisto, stava imboccando inferocita la strada dei Pettinari, lasciandosi dietro, sgozzati, Francesi o romani imprudenti con la coccarda repubblicana. Filé non era molto coraggioso e preferiva temporeggiare sugli eventi anziché provocarli. Non faceva parte dei rivoltosi, non si sentiva un eroe, anche se chiaramente era contrario a quel nefasto cambiamento di regime. Un regime così rivoluzionario ed estraneo al modo di pensare del popolo romano. D’altronde dei cambiamenti in questo vecchio Stato papale sarebbero pure stati necessari.

    "Ma dove ci porterà questo macello?" pensava sfiduciato.

    Quel pomeriggio della sommossa, era di domenica, Filé si era avventurato fuori casa, malgrado il sentore di incombenti eventi minacciosi. Percorreva il vicolo delle Grotte verso fiume, dovendo incontrarsi col fratello Baldino a Trastevere, quand’ecco che gli giunsero le urla della sommossa, grida e pianti di feriti, scoppiettìi di moschetti. Restò un attimo fermo e incerto sul da farsi, la classica situazione degli indecisi, quando dai Giubbonari sentì giungere un concitato passo di guardie nazionali e le prime sparatorie d’intimidazione, prima dello scontro frontale coi rivoltosi. Stava per essere preso tra due fuochi. Imboccò un portone socchiuso, si spinse in un cortile e si buttò in uno scantinato nero di carbone, un attimo prima che la stradina fosse invasa dagli armati. E vi restò fino a notte. Tanta era la paura!

    "Daje, Panzé — mormorò al cavallo, interrompendo i suoi pensieri — Daje, che tra poco annamo a Campo."

    E, riavvicinatosi lentamente alle Mura Angeliche, si rituffò nella cava della memoria. Eccolo a ricordare quell’altra giornata di esaltazione generale per il primo arrivo dei liberatori, il glorioso esercito napoletano di re Ferdinando, alla fine di novembre del ’98.

    "Sai che glorioso!" ironizzò, seguendo il suo pensiero.

    Le feste che ricevettero dal popolo furono esaltanti in quel pomeriggio: campane, canti, luminarie, giochi, preghiere di ringraziamento, evviva. Ma Filé non si era lasciato prendere troppo dall’euforia. Dentro di sé aveva un solo pensiero:

    "Durerà? Sarà finita così? Torneremo al sicuro? Ce credo poco."

    Il vetturino non si sentiva affatto ottimista. E i suoi timori erano ben fondati. Pochi giorni, infatti, bastarono per far tornare i Francesi e vedere l’esercito napoletano dimezzato, sconquassato, umiliato.

    "A da vede te er fuggi fuggi. Le risate! Se nun ce fusse da piagne."

    E poi pensava a tutte quelle leggi, proclami, regolamenti, notificazioni, appelli, prima degli uni, poi degli altri, poi di nuovo dei primi ed ora di nuovo al punto di partenza. E ogni giorno non si sapeva chi avrebbe comandato il giorno dopo. Nei mesi dei giacobini: generali francesi, consoli, grandi edili, commissari. E poi al cambio di regime: generali napoletani, commissari, monsignori, cardinali ed i reali di Napoli.

    "E questi comanneno oggi, caro Panzé. Beato te che nun capisci gnente. Ma chi è bono a capì?"

    E scuoteva la testa, pensando sempre al recente passato e alle brutte situazioni, cui la povera Roma doveva ancora andare incontro.

    "Quer birbante de Bonaparte dicheno che sia tornato dall’Egitto e abbia n’antra vorta brutte intenzioni verso l’Italia. Ma perché nun ce lascieno in pace, ché se gnente gnente volessimo la repubbrica ce la facessimo da noantri, pe’ conto nostro, va beh?"

    Fatto il suo bel giro lungo i prati di Castello, rovistando in queste sue considerazioni, Filé risolse pure il problema del bagaglio della signora Tosca. Lo

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