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Il mancino di Dio
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E-book100 pagine1 ora

Il mancino di Dio

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Letteratura - romanzo breve (71 pagine) - Il maestro italiano dell’ucronia propone un’appassionante storia alternativa dei Mondiali di Calcio del 1974.


Germania Ovest, estate 1974. La Polonia compie un’impresa vincendo i mondiali di calcio, guidata dalla sua stella Wlodo Lubanski. Ma il trionfo polacco apre la strada a un rivolgimento politico radicale all’interno dell’Europa Comunista. Parte da qui la nuova ucronia calcistica di Giampietro Stocco che, attraverso una galleria di personaggi famosi e non, ci riporta in un passato più vicino di quanto possa sembrare. E ci mostra ancora una volta che lo sport quasi sempre è politica.


Giampietro Stocco è nato a Roma nel 1961. Laureato in Scienze Politiche, ha studiato e lavorato in Danimarca per alcuni anni. Giornalista professionista in RAI dal 1991, è stato al GR2 e attualmente lavora nella sede regionale per la Liguria di Genova, la città dove risiede. Studioso e maestro del genere ucronia, ha pubblicato finora sette romanzi: Nero Italiano (2003) e il sequel Dea del Caos (2005), Figlio della schiera (2007), Dalle mie ceneri (Delos Books 2008), Nuovo mondo (2010), Dolly (2012), La corona perduta (2013). Da Dea del Caos il regista Lorenzo Costa ha tratto un adattamento per il palcoscenico che è stato messo in scena dal Teatro Garage di Genova nel 2006 e nel 2007. Nel 2006 ha vinto il premio Alien. Per Delos Digital cura la collana Ucronica.

LinguaItaliano
Data di uscita16 feb 2021
ISBN9788825414967
Il mancino di Dio

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    Il mancino di Dio - Giampietro Stocco

    9788825404999

    1.

    Wlodo spegne la televisione e sprofonda nella poltrona, le robuste palme da minatore a scivolare fra i capelli lunghi e quindi sulla faccia, ad asciugare le lacrime. Le ultime erano state di gioia, dieci giorni prima, quando aveva alzato la Coppa al cielo e ricevuto gli applausi e la gratitudine di un intero paese.

    Il suo paese. Quella Polonia che in pochi giorni ha trasformato le lacrime di gioia in insurrezione per l'indipendenza. In poche ore la gente che a Breslavia, Gliwice, Cracovia, Varsavia, Danzica, è sfilata per le strade con la bandiera e le coccarde bianche e rosse, ha restaurato i soviet abbattuti nel sangue quattro anni prima.

    Avevano sconfitto olandesi e tedeschi, potevano liberarsi anche dei russi, o no?

    No, niente di più illusorio.

    Come, d'altra parte, niente di più reale, i tank con la stella rossa che Wlodo e gli altri suoi compagni hanno appena visto sferragliare a centinaia dalle nazioni sorelle dell'ovest, Cecoslovacchia e Germania Est. E dall'oriente, dall'URSS. Niente di più reale della divisione aviotrasportata sovietica che è atterrata a Varsavia e ha preso possesso della capitale.

    Niente di più reale del generale Jaruzelski in uniforme e occhiali oscurati che, alla televisione di stato, invita la squadra a rientrare e a dare un segno di responsabilità dopo il grande prestigio del trionfo sportivo.

    Niente di più reale degli agenti della CIA e dei servizi segreti di Bonn che circondano la villetta di Monaco di Baviera dove la squadra polacca è rimasta confinata dall'8 luglio, dall'alba successiva alla festa per il mondiale vinto superando prima i padroni di casa e poi i magnifici olandesi, fiumi di vodka e canti, di nuovo, lacrime di gioia.

    Per l'ultima volta. Monaco è lontana dalla Turingia comunista e non nelle immediate vicinanze del confine ceco, ma i satelliti hanno evidenziato movimenti di carri armati sovietici anche a ridosso della frontiera tedesco-federale e tutti sanno che in poche ore potrebbero arrivare lì.

    La guerra. La guerra che è già in Polonia, per le strade delle loro città.

    Wlodzimierz Lubanski si asciuga gli occhi col dorso della mano. Lancia uno sguardo a Kaziu Deyna, il capitano. È stato lui una settimana fa a lanciargli quel pallone che lui ha strappato con la forza a Ruud Krol involandosi verso Jan Jongbloed, aggirandolo di slancio e mettendo di sinistro in rete.

    Polonia sul tetto del mondo.

    Adesso però il momento magico è diventato tragico. Proprio per colpa di quella squadra che ha fatto sognare un paese intero.

    Deyna sgrana gli occhi scuri. Wlodo gli ha lasciato la fascia prima di giocare il girone finale, sapeva che sarebbe stato più adatto di lui. Il capitano sospira e si guarda intorno. Lo sguardo vuoto del gigantesco difensore Jerzy Gorgon. Le spalle infossate dell'altro gigante, il portiere Jan Tomaszewski. Il perenne sorriso gli è ormai sparito dalla faccia. Il pianto irrefrenabile del giovane attaccante Andrzej Szarmach, eroe della partita contro l'Italia. Lui è di Danzica, ed è lì che più infuria la battaglia. E poi tutti gli altri, chi seduto a bere una birra ormai calda nell'afa dell'estate bavarese, chi in piedi con le mani in tasca a guardare l'andirivieni di barbe finte e G-men fuori dalla finestra.

    Pensavano di avere una storia da raccontare a casa per anni. Ma a casa adesso si muore.

    2.

    Lewslaw chiude la finestra. Come se si potesse chiudere fuori lo sferragliare dei cingoli sul pavé di Varsavia. Le pattuglie del KGB sono appena passate e oltre ai documenti di identità hanno portato via libri e giornali. Una lunga fila di prigionieri sta sfilando sulla strada fra due ali di soldati armati di kalashnikov. Giovani coscritti dell'Armata Rossa, operai proprio come i loro prigionieri, le uniformi larghe e slavate, gli elmi abbondanti sulla testa a nascondere facce imbarazzate. Ma anche ufficiali della Stasi, berretti, colori e sorrisi che ricordano sinistri quelli di altri tempi.

    Come lo ricorda questo rastrellamento. L'azione sulla Polonia è stata veloce e chirurgica, come dicono a Ovest. Leslaw lo sa perché era solito, come tutti, ascoltare Radio Free Europe e l'ultima trasmissione prima del silenzio radio imposto dai sovietici parlava proprio di operazione chirurgica, rapida e inesorabile, su Paese che aveva due teste, una nella Slesia mineraria a sud, e l'altra nei cantieri navali del nord. Quel sindacato cattolico appena fondato, come si chiama? Ah, sì. Solidarnosc. Solidarietà. Guidato da quell'improbabile elettricista coi baffi, Lech Walesa. E dietro Kuron e gli altri intellettuali.

    Leslaw non conosce molto dell'opposizione anticomunista, e questo ha salvato lui e la sua famiglia. I gemelli, Jan e Robert, e Malgorzata. Non che Malgorzata abbia molto da vivere: un cancro all'utero se la sta portando via. È malata da tre anni e Leslaw ha dovuto scegliere. Quei farmaci che quelli come lui non possono permettersi a Varsavia come a Mosca, ma che in cambio di qualche informazione possono passare dalla mano di un sergente della Stasi. Come è stato poc'anzi.

    Rapido e discreto, due flaconcini pieni di pastiglie bianche. In cambio di qualche nome. Un paio li conoscono tutti, ma lui è stato il primo a farli. Kuron e Michnik, dove si erano nascosti. Lo aveva appreso per caso, subito dopo il discorso di Breznev che preannunciava l'invasione. Altri due non c'entrano con il KOR, ma sono due vicini di casa che avevano fatto contrabbando di carne nel '70 e non avevano mai davvero smesso. Con quelle scarpe italiane di lui sfoggiate così spudoratamente e i profumi francesi di lei, che Malgorzata non si è mai potuta permettere.

    Che non potrà mai permettersi. Perché quelle pastiglie arrivano tardi. Se mai ci sia stato un tempo in cui le avrebbe potute prendere con qualche speranza. Ma che fa. Dare la colpa ai Nowak è quasi liberatorio. Come se quel nome così comune fosse il simbolo del suo dare la colpa al mondo intero. Malgorzata era il suo amore da vent'anni, i gemelli il frutto di una vita in comune che sarebbe finita presto. Il suo dovere era dare loro un futuro. E lui avrebbe fatto di tutto, specie visto che non era riuscito a garantirlo a sua moglie. In fondo, poi, denunciare i Nowak gli dava piacere anche per un'altra cosa. Erano cattolici baciapile, di quelli che tenevano in casa i ritratti di Wyszynsky e Wojtyla, i due arcivescovi di Varsavia e Cracovia, e le candeline davanti all'icona della Madonna di Czestochowa. Malgorzata e lui erano comunisti da sempre, quella specie di animismo aveva sempre ispirato a entrambi pulsioni da iconoclasti

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