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Info su questo ebook

Massimo Rea, 50 anni portati da dio, è il re della televendita commerciale.

Eppure un tempo s'è bagnato le labbra col successo della prima serata, ambendo a diventare il più giovane e accattivante conduttore d’Italia. Il talento c’era, il fascino anche. Mancava solo l’assist del destino che, latitando per troppo tempo, l’ha consegnato al desolante universo delle meteore, senza concedergli la chance di una rivincita.

Oggi Massimo vivacchia tra la novità di un figlio illegittimo, il fisco che non gli dà tregua, e le sirene ammalianti della tv del dolore che ha in mente per lui un ritorno in grande stile, nel segno del cinismo più profondo. Accettare o meno? Rimanere affezionati al tedio delle giornate tutte uguali o conquistare una volta per tutte il podio meritatissimo, anche a prezzo della propria dignità? Questo si domanda il brizzolato Rea, tra i pareri discordanti di chi tifa per lui, per esempio l’ex regista di fiducia Enzo Schifo, e chi lo mette in guardia dalle trappole del piccolo schermo.

Memore della lezione di John Niven e del suo stile senza compromessi, calato però in una Roma di "grande bruttezza" in un contesto in cui gravitano personaggi di stampo ammanitiano, Valerio Vestoso conduce il lettore in un mondo in cui il camp, il trash e il kitsch regnano sovrani, e in cui l’universo del piccolo schermo diventa specchio di un Paese allo sbando, capace di ogni cialtronata solo perché, in fondo, è possibile farla.

LinguaItaliano
Data di uscita17 giu 2022
ISBN9788869348082
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Autore

Valerio Vestoso

Regista e sceneggiatore. Nasce a Benevento nel 1987. Approda al cortometraggio con Tacco 12, mockumentary sull'ossessione per il ballo di gruppo. Nel 2016 scrive lo spettacolo Buena Onda con Rocco Papaleo e Giovanni Esposito, vince il Premio Solinas - Bottega delle Serie con la sceneggiatura Flash e dirige numerosi branded content e commercial tv. È autore dello chansonnier surreale Enzo Savastano (Premio Satira, Premio della Critica Musicultura), regista del corto Ratzinger Vuole Tornare (in selezione ai Nastri D’argento) e del documentario Essere Gigione, dedicato al re delle feste di piazza italiane. Nel 2019 firma la regia dei contenuti video del programma di Serena Dandini Stati Generali e scrive la sceneggiatura della serie L’Avvocato Malinconico, tratta dai romanzi di Diego De Silva. È tra gli autori del programma tv Una pezza di Lundini. Il suo ultimo lavoro, Le Buone Maniere, è stato presentato alla Festa del Cinema di Roma '22 - Alice nella Città.

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    Anteprima del libro

    Grazie per averci seguito - Valerio Vestoso

    Valerio Vestoso

    Grazie per averci seguito

    Romanzo

    © 2022 Bibliotheka Edizioni

    www.bibliotheka.it

    I edizione, giugno 2022

    e-Isbn 9788869348082

    Tutti i diritti riservati.

    Foto di copertina: ©depositphotos.com/homeworks255

    Elaborazione: Riccardo Brozzolo

    Valerio Vestoso

    Regista e sceneggiatore. Nasce a Benevento nel 1987. Approda al cortometraggio con Tacco 12, mockumentary sull’ossessione per il ballo di gruppo. Nel 2016 scrive lo spettacolo Buena Onda con Rocco Papaleo e Giovanni Esposito, vince il Premio Solinas - Bottega delle Serie con la sceneggiatura Flash e dirige numerosi branded content e commercial tv.

    È autore dello chansonnier surreale Enzo Savastano (Premio Satira, Premio della Critica Musicultura), regista del corto Ratzinger Vuole Tornare (in selezione ai Nastri D’argento) e del documentario Essere Gigione, dedicato al re delle feste di piazza italiane.

    Nel 2019 firma la regia dei contenuti video del programma di Serena Dandini Stati Generali e scrive la sceneggiatura della serie L’Avvocato Malinconico, tratta dai romanzi di Diego De Silva.

    È tra gli autori del programma tv Una pezza di Lundini.

    Il suo ultimo lavoro, Le Buone Maniere, è stato presentato alla Festa del Cinema di Roma ‘22 - Alice nella Città.

    Il problema, il vero problema, è capire da che parte si è finiti. Tra i trionfatori o tra i reietti? In cima al mondo o negli spogliatoi? Chi lo scopre per primo ottiene la combinazione di una cassaforte in cui c’è scritta la formula per l’immortalità.

    Julio

    Il prurito rende liberi.

    (cit. Lello di Nicchia)

    L’ho scoperto una sera sulla Tuscolana.

    In un locale, mentre guaivo al karaoke.

    L’ho scoperto.

    Il Koala riservava il lunedì e il martedì al riposo settimanale, il mercoledì alle riunioni di ex campionesse di scherma che si compativano le tette a vicenda, il giovedì al caraibico, il venerdì e il sabato al liscio e la domenica al karaoke. Fortuna volle che quel sabato uno dei turnisti degli Amanti della Polka fosse ricoverato al Gemelli per una forte gastroenterite, e che il gestore avesse dovuto a malincuore anticipare il karaoke. La cosa non gli scendeva per niente. Lo si capiva da come implorava le numerose scuole di danza, accorse in abito da sera per il solito rito, a non tradirlo con altri locali.

    Nancy, la segretaria d’edizione con cui ci avevo messo piede, mi aveva detto che in passato il tizio era stato proprietario di un lunapark nel basso Lazio e che poi si era dato alla ristorazione con risultati molto più gratificanti. I suoi trascorsi da giostraio si percepivano dando un’occhiata in giro: privé arredato coi sediolini del Tagadà, bagno tappezzato di specchi deformanti e divanetti in giardino ricavati dalle cabine della ruota panoramica. Ma il capolavoro era la scritta Koala, al centro della sala grande, con le ultime tre lettere dal carattere arabeggiante. I residui dell’insegna Aladino che di solito campeggia sulla giostra del tappeto volante.

    Ci accomodammo e, ancora prima che ci portassero i menù, cominciai a gettare lo sguardo verso la pedana delle esibizioni, sperando che il tastierista mi riconoscesse. Non ci mise molto: strappò il microfono dalle mani di due mocciose che cantavano Una rosa blu e con il piglio dell’entertainer disse: Signori e signore, ho appena scorto tra il pubblico una personalità che non posso esimermi dal chiamare.

    Scorto, esimermi. Tipico degli analfabeti. Collezionare tempi e modi verbali improponibili, esercitarli in privato nel corso degli anni e sciorinarli in pubblico al momento giusto, con quel pizzico di emozione che non guasta.

    Raggiunsi l’omino che mi aveva scorto, poiché – non lo nego – farsi riconoscere nei locali pubblici è quanto di più eccitante possa capitare a gente ostaggio di un’infanzia anonima e di un’adolescenza routinaria. Vedi alla voce Il Sottoscritto.

    Gli snob, i miei colleghi, hanno imparato a simulare patetici attacchi di panico per non firmare autografi con stilografiche unte d’olio e implorare lo spelling dei nomi da anteporre alle dediche. Io mi esalto proprio. Di nascosto (perché, sia chiaro, il vangelo dello showbiz c’impedisce di montarci la testa), ma mi esalto.

    Buonasera a tutti, ottenni l’applauso senza fare niente. Il pubblico rumoreggiava, si scaldava a vicenda, insomma pretendeva Patonzipò, la sigla di un programma domenicale che conducevo nel ‘91 sul secondo canale e che in una settimana aveva scalato le classifiche musicali, sfatando il mito della superiorità culturale italiana. Ne parlò pure Umberto Eco in suo saggio.

    "Patonzipò è la rimonta del significato sul significante, la vittoria meritatissima di una semiotica a lungo ricercata, capace di demolire i falsi miti linguistici di un tempo, imputriditi dalla modernità, e mettere nuovamente in discussione il ruolo di noi intellettuali. Sguinzagliamo il naso fuori dalle nostre accademie, spogliamoci delle toghe, delle assemblee di facoltà, lasciamo che implodano per sempre gli edifici in cui si ostinano a chiamarci Professori. Diveniamo nuovamente allievi, e rimettiamoci alla liricità libertina e profonda di questa pietra miliare della canzone popolare."

    Ebrezza, stupefacenti, corruzione. Chi può dirlo. A distanza di decenni non riesco ancora a spiegarmi cosa avesse spinto il vate a parlare bene di un pezzo del genere. Una sigletta imbarazzante, questo era, tutta improntata sull’equivoco nemmeno poi così ricercato di una tribù indiana che ballava sotto la pioggia ogni santa notte al grido di Patonzipò. Lo squallore fatto spartito, che abbindolava le classifiche fino a scalarle del tutto, spodestando una gerarchia di cui non ero certo titolare. Roba da cantanti che non mi apparteneva, perché cantante non ero, anzi nasco e cresco stonato, privo di orecchio. Ma all’epoca tutti potevano tutto. E persino un conduttore televisivo come me si guadagnava il lusso di piazzarsi davanti a un microfono, offrendo a discografici e famiglie un’indimenticabile rendita.

    Quella sera, però, decisi di stupire il pubblico del Koala con un brano di fattura assai più elegante. Sono un pirata, sono un signore, il rodatissimo storytelling di Iglesias: lui che si scopa mezza Spagna e che nell’ultimo capoverso vuole convincerci di avere anche una sensibilità, nascosta sotto al cuscino.

    Tutt’intorno brulicava l’atmosfera del villaggio turistico. Le donne facevano il coro, gli uomini picchiavano con le forchette sui bicchieri a tempo di musica, e parevano compiacersene, in questo lungo gioco-aperitivo verso cui si era precipitati. Nancy, l’amica mia, apriva e chiudeva le gambe lasciando intravvedere il pizzo bianco della sottogonna che di lì a qualche ora avrebbe perso tra i sedili della mia macchina. C’erano perfino due vecchi in jeans che si strafogavano una torta a cuore con la scritta 75. Come si fa a festeggiare le nozze di platino al Koala?

    Roba da convertire i preti.

    Mi feci spegnere il monitor con le parole in sovrimpressione: conoscevo il testo a menadito ed era giusto che gli altri me lo riconoscessero. La cantai d’un fiato solo, male, malissimo, ma la cantai, come la star indiscussa di Broadway che ha perso colpi ma nessuno può dire niente perché è arcinota e allora vale tutto. Poi, proprio sul finale, invaso da un delirio di onnipotenza, rimasi sconvolto dalla mia visione attraverso uno specchio.

    Ero un tipo interessante, schifosamente interessante, ma soprattutto ero identico a lui, a Julio. Mi fermai un secondo per scrutarmi meglio. Stesso profilo latino, stesso taglio di capelli, stessi occhi neri, stesso tutto. Insomma se avessi parlato spagnolo mi sarei quasi convinto di essere lui in persona, ma mi accontentai del fatto che potevo esserne il figlio.

    Mia madre, ogni volta che le avevo domandato di mio padre, aveva sempre messo in mezzo un discorso tanto strano quanto fantasioso. Insomma le altre ragazze madri, quando arriva il momento, raccontano di fantomatici Marines partiti e mai più tornati, di avventure da una notte e via, tutt’al più di onesti lavoratori morti mentre si guadagnavano la pagnotta nelle miniere di carbone.

    Mia madre no, mia madre s’era allenata in creatività. Pare che durante un pellegrinaggio a Santiago De Compostela, in un bagno pubblico le fosse apparso l’arcangelo Gabriele e le avesse conferito, a distanza di duemila anni, la stessa responsabilità che fu della Madonna. Ora, con tutta l’apertura mentale che voglio riconoscere al cristianesimo, vedo abbastanza difficile che, tra tante donne sulla faccia della terra, l’arcangelo Gabriele decida di apparire proprio a una tabaccaia dell’hinterland avellinese.

    Sull’accaduto, il paese di Sfarzo si divise in guelfi e ghibellini che, indipendentemente dalla fazione, erano concordi nel non credere al miracolo. I guelfi, quelli di Sfarzo di sotto, sostenevano che l’imputata Masuccio Rosaria avesse effettivamente incontrato l’Arcangelo, ma che si trattava di un grossista di Camel Light d’Avezzano. I ghibellini, molti dei quali avevano partecipato al pellegrinaggio, raccontavano che mia madre, alla ricerca di un bagno, si fosse infilata in un fast-food di Santiago De Compostela e avesse acconsentito a farsi ingravidare da Julito, un enfant prodige della musica latina che d’estate si guadagnava da vivere come lavapiatti. Era un’ipotesi che tutto sommato mi stava bene e che veniva avvalorata ogni santa mattina in cui mi facevo la barba.

    Gli stessi lineamenti di Julio Iglesias. Ma proprio gli stessi.

    Anni dopo, leggendo il trafiletto di un Sorrisi e Canzoni dedicato interamente a lui, venni a sapere che prima di dominare il mondo della musica planetaria, papà – ormai lo chiamo così – era stata una riserva del Real Madrid. Per sei stagioni di fila.

    E dio solo sa quanto odio il calcio.

    Ma per un padre, cazzo, questo e altro.

    Manette

    "Amore è vergognarsi di dirselo.

    Sposarsi è stancarsi di sentirselo dire."

    (cit. Lello Di Nicchia)

    C’è chiaramente un equivoco.

    Non credo. Tutti i tabulati in nostro possesso dicono che lei tra il ‘93 e il ‘98 ha eluso il Fisco per…, sfoglia faldoni per incutere timore, poi sembra che veramente non ricordi, e chiede aiuto al collega.

    Per 153 milioni di lire, interviene il finanziere junior.

    153 ribadisce il senior che dall’inizio dell’interrogatorio ancora non so come chiamare. Capitano, maresciallo, colonello, generale? Boh. Su Polizia e Carabinieri sono ferrato. Ma con la Guardia di Finanza non ho dimestichezza. Li ho sottovalutati, e ho fatto male.

    Perché omicidi e furti non fanno parte del mio curriculum, mentre qualche bugia sul fatturato l’ho detta eccome. Sarà la divisa grigiognola, che rimanda alla forestale e quindi attutisce il colpo nel momento in cui te li vedi presentare sul pianerottolo di casa – e stamattina si sono presentati a casa mia con un mandato di comparizione – fatto sta che li ho sempre visti come nemici minori, come fuoco amico. Sono istituzionali i finanzieri, diplomatici, buoni, ma sì dai, buoni. Lo stesso fatto che la parola finanza faccia parte sia del gergo di Wall Street che di quello anti-evasione, li pone in una condizione di non esclusività. Ma quando non sei esclusivo soffri. E quando soffri te la prendi con gli altri. E allora altro che buono.

    Che fa, non risponde, Rea?

    Il mio cliente, almeno in questa fase, ha facoltà di tacere, interviene l’avvocato che pago da anni per risolvere grane come queste e, deo gratias, vedo molto raramente. Per sua fortuna oggi comincia l’escalation alla celebrità. Sta scritto infatti nei manuali di diritto tributario che i legali incaricati di tutelare gli interessi delle persone conosciute nel corso di un civile dibattito col Fisco inaugurano la parentesi più redditizia della propria carriera.

    153, dice? intervengo spingendomi col busto sui dossier che portano il mio nome.

    153 annuisce l’autorità.

    Non mi sarei mai sporcato le mani per così poco.

    Lei scherza, fa bene, perché stemperare non ha mai fatto male a nessuno. Esattamente come pagare le tasse.

    Complimenti, capitàno, (zitti, zitti, ho azzeccato il grado) ha molta più ironia dei miei autori.

    E da quando in qua le televendite di materassi prevedono autori?

    Touché. Il finanziere si prende gioco di me e non contento si rivolge agli altri perché lo sostengano. Il piano funziona. Nella stanza ridono tutti. Il sottoposto che scrive, l’avvocato che dovrebbe difendermi, l’autorità che ha pronunciato la battuta, perfino Napolitano, taciturno sul muro e nella vita, si lascia andare ad una smorfia che somiglia a una risata.

    Io no. Che cazzo vuoi ridere? Quando si sfiorano le corde dell’anima, quelle incollate al mio lavoro, che volete che vi dica, io non ci trovo niente da ridere. Sono poco autoironico? Tacciatemi pure di questo, non mi interessa. L’ammissione di colpa su quello che ho omesso di dichiarare all’agenzia dell’entrate (si badi all’eleganza con cui non scarico gli errori sul mio commercialista) ve la concedo pure. Ma accusarmi spudoratamente d’aver contribuito alla mia disfatta professionale in prima persona, e beh no, questo no. Non ho certo interferito sulla vita perché mi mettesse a vendere la qualsiasi su un canale commerciale. È capitato e me lo sono dovuto prendere. Quando il coltello dalla parte del manico ce l’hanno gli altri, quando le contingenze non ne vogliono sapere del fatto che sei stato un conduttore di tutto rispetto, non dico grande, ma di rispetto, quando meritavi un dannatissimo varietà, di quelli che ottengono cani e porci, e invece finisci per ripetere almeno duecento giorni all’anno che questa è l’ultima occasione per portarsi a casa una trapunta a metà prezzo, non si può certo riversare sul diretto interessato la colpa.

    Ok, mettiamola così. In quel periodo me la passavo bene. Lei non può capire, perché qua dentro la vita scorre in maniera abbastanza monotona (punto mio, incassato con stile dall’avversario), però diciamo che effettivamente ci sono stati ingaggi da far girare la testa – l’appuntato prende appunti – e non dico solo la mia. I miei collaboratori, la mia segretaria Cinzia, suo marito, ma anche il regista che lavorava per/con me, una marea di comici, di cantautori, di emergenti. Se la vedevano bene in parecchi. Un conduttore, glielo posso garantire, all’apice della sua carriera, può diventare un piccolo centro per l’impiego.

    Spartirsi i demeriti di una frode fiscale non la farà uscire indenne, lo sa?

    Certo, ma ci tenevo a ricordarle cosa ho rappresentato per questo Paese.

    Non ce n’è bisogno. Ho una buona memoria e – appuntato non lo verbalizzi – sono stato perfino un suo fan.

    Ah sì?, modero il piglio.

    Lui, prevedibilmente si scioglie. Già.

    E, se posso, quando si è interrotto il nostro rapporto fiduciario?

    Quando ho scoperto che come tutti gli altri anche lei si è distratto dal versare qualche milione.

    Distrarsi è la parola giusta, stiracchio le braccia, come a prendere confidenza con la stanza muffosa in cui avviene l’interrogatorio. Lei non ha idea della mole di lavoro, delle responsabilità che bisogna sostenere quando si è al gradino più alto della scala sociale.

    Ero convinto che al gradino più alto ci fosse il Papa.

    Sua santità vive molti meno dilemmi di me, si fidi. Il solo fatto di indossare lo stesso vestito ogni giorno lo rende immune da preoccupazioni. Che io venda un materasso o presenti il prossimo ospite, che dia la linea alla pubblicità o esalti le qualità di un busto snellente, ho una responsabilità più grande. Entro a casa degli spettatori e rubo il tempo. Il tempo, lo capisce? Non la bigiotteria. Il tempo.

    Signor Rea, io non sono un cronista rosa. Sono un maresciallo della finanza. Cazzo ho sbagliato grado. E se siamo in questa stanza è perché la situazione si prospetta assai grave.

    Esiste il patteggiamento.

    Esiste, torna vivo l’avvocato, ma è troppo presto per poterlo chiedere. Non si è ancora prefigurato un reato.

    Ok.

    Ok fa scopa il militare, alzandosi in piedi.

    E adesso?

    Adesso lei se ne va a casa e attende direttive da noi. Le indagini procedono, ed è opportuno che non si allontani da Roma.

    Non esiste questo rischio. Con i giornalisti lì fuori come si fa?

    Il maresciallo ci pensa, s’affaccia e nota un grappolo di cameramen che, fumandosi addosso, attende la mia uscita.

    Facciamo così, esca dal cortile posteriore.

    Ehi, no no no.

    Come no? Pensavo volesse evitare la ressa.

    Sono anni che l’aspetto la ressa, e lei vuole farmela evitare?

    I finanzieri si guardano. Comprensibilmente estranei ad ogni logica dello spettacolo. Per cui mi sento costretto ad aggiungere altro.

    Se si potesse, anzi, le chiederei di venir fuori con le manette.

    Il maresciallo è sconvolto. Mi creda, Rea, in tanti anni di onorato servizio, non ho mai ascoltato una richiesta del genere.

    Perché mi incontra solo adesso.

    Quindi lei vuole che l’ammanetti?

    "Certo. E che mi faccia scortare da due agenti che gridano, largo, largo fate largo."

    È un abuso di potere al contrario, se ne rende conto?, con la coda dell’occhio intercetta il mio legale, altrettanto sconvolto.

    Lo so, o meglio lo immagino. Ma non lo faccia per me. Lo faccia per il mio ego. In fondo un po’ ha imparato a conoscermi.

    Il maresciallo calpesta quante più mattonelle riesce a coprire con un paio di falcate, mantenendo lo sguardo basso e le mani dietro alla schiena. Poi raccoglie dalla scrivania gli occhi del sottoposto e, senza aggiungere parole o gesti superflui, lo invita ad eseguire.

    Sguardo alto, sorriso impostato in modalità ON, e un lieve accenno di barba che – chissà, forse presagendo l’inchiesta – negli ultimi giorni ho provveduto a farmi crescere. Esco trionfalmente, mentre i finanzieri, emulando Mosè, separano i giornalisti dagli operatori. Quanto c’è di vero, Massimo?, Hai intenzione di confessare?, Ci sono complici?

    Largo, fate largo, signori, fate largo.

    Ma dove lo portate?

    Io li tranquillizzo col mantra per cui si chiarirà tutto. Profitto per sottolineare quanto creda nella giustizia terrena e in quella ultraterrena, quanto creda nel lavoro degli inquirenti, depositari di una verità superiore, per cui ogni cosa verrà spiegata e il misunderstanding esploderà come una bolla di sapone.

    Mi infilo quindi nella volante e imploro chi guida di fuggire a sirene spiegate. Un paio di isolati più in là ringrazio i miei complici in divisa, regalo loro una foto-ricordo della giornata, lascio sui sedili le manette e annego a piedi nell’affollata Roma di fine anno, gigantesca boutique all’aperto in cui sacro e profano si fondono fino a possedersi vicendevolmente. Piove, ma qualche goccia si sopporta almeno quanto lo smog.

    Troppo poco dura la passeggiata. In un bar, un vecchio Mivar incassato nel muro manda le prime immagini che mi riguardano. Il ragazzo che fa i caffè è così attratto dalla notizia che nemmeno s’accorge d’averne servito uno proprio al tizio che sta criticando.

    Deve paga’ ‘sto stronzo. Me spiegate come mai si nun pago ‘na bolletta me vengono a prenne fino in cammera da letto, mentre ‘sti debosciati der cazzo, ponno permmettese de falla franca?

    Mi dà un goccio di latte, grazie?, rido sotto i baffi.

    Ecco a lei dotto’, ecco a lei.

    Fai che l’ho presa sottogamba questa inchiesta? Fai che non ho messo in conto gli effetti collaterali, il boomerang della gente incazzata con tutto e tutti? Una volta le persone prima di esprimere un giudizio si interrogavano, valutavano l’opportunità per farlo, i presupposti. Nei casi più rari si aspettava un dato di fatto, prima di sbilanciarsi a favore di questo o quello. Oggi lo sport prediletto è il tiro al bersaglio facile, e mi fa strano non essermene accorto.

    Puntuale, infatti, arriva la telefonata del mio avvocato.

    Sei contento?

    Di che?

    L’opinione pubblica ce l’ha con te.

    Ci hai parlato a telefono?

    Con chi? fa il nemico dello humor.

    Con l’opinione pubblica. Me lo dici come se ti fossi fatto una lunga, lunghissima chiacchierata con lei e t’avesse parlato male di me.

    Sono ottanta, fa il ragazzo del bar che, guardandomi meglio, inizia a nutrire dubbi sulla mia identità. Prima che possa indagare ulteriormente, abbandono il bancone e sgattaiolo via, continuando a sorbirmi l’avvocato in linea.

    Forse non ti è chiaro. Tutti quei milioni non sono mica noccioline. L’ipotesi meno probabile è che ti chiedano di restituirli tutti. Quella più scontata è che ci vengano incontro. Entrambe le soluzioni non escludono il forte peso morale della vicenda.

    Oooo, avanti, se tiriamo fuori la bilancia della moralità non ne usciamo più.

    Ma tu sei un personaggio pubblico! Questa bilancia devi portartela in tasca vita natural durante.

    Ne terrò conto per il futuro, ma adesso mi lasci godere le prime pagine come una volta.

    Stai scherzando col fuoco.

    Fai il tuo lavoro, fallo bene. Altrimenti perché ti ho chiamato?

    L’uomo sbuffa, ma è più rassegnazione che nervosismo. Anzi è in un certo senso orgoglio. Gli ho indorato la pillola con un complimento travestito da rimprovero. E ha voluto coglierci solo ciò che interessava a lui. Il vanto, come detto, di difendermi. Sfodererà carte, conoscenze, numeri di telefono, tutto per scagionarmi. Lo so.

    Per la cronaca, quei 153 milioni non dichiarati erano molti di meno. Ma sottoscrivere il dato al cospetto di un finanziere avrebbe contribuito a farmi entrare nell’Associazione Internazionale delle Mezze Verità. E, se non fosse chiaro, ogni genere di compromesso non fa per me. Nelle interviste scialbe mi si continua a chiedere se credo nell’Aldilà, quando la vera domanda è E se finissi in Purgatorio?. Già, se non dovessero spedirmi né all’Inferno né tra i vialoni lattei del Paradiso? Dio solo sa quanto me la prenderei, andrei su tutte le furie, bestemmierei contro il demonio, contro il Creatore per essersi accordati sulla mia trasparenza eterna. Non il privilegio di morire da cattivo, né la concessione di appartenere ai buoni. In mezzo ci stanno gli idioti, i nerd dell’inconcludenza. Con tutto il rispetto, non ne voglio fare parte. Li detesto.

    Domitilla

    "Voglio morire come sono nato.

    Con la voce di mia madre nell’orecchio."

    (cit. Lello Di Nicchia)

    Il medico si affaccia dallo studio. Sorride come per dirmi Non stavo aspettando che te, e con la mano a cazzuola traccia la via da seguire.

    Signor Rea, è un onore ospitarla nella nostra struttura.

    Ospitarla? Che sei un concierge, un cameriere, un maître? E poi ospitarla in che senso? Io ai miei ospiti non scippo 1640 euro! Perché, sia messo a verbale, tanto mi è costato questo stramaledetto test del DNA. Roba che per i comuni mortali si aggira attorno ai duecento. Ma nel mio caso, mi farete notare, il sovrapprezzo fa rima con discrezione, discrezione assoluta. E assenza dell’insopportabile, letale, puzza degli ospedali, aggiungo io.

    Sedie in pelle nera, scrivania in ciliegio, libreria in cristallo e tappeto persiano, sfilettato in oro, divaricato a terra, tra una parete e l’altra. Al centro l’inattesa gigantografia di Bettino Craxi, in tutto il suo sorriso marpione. Sotto di lui due lumini risalenti alla Guerra del Golfo. Specularmente si erge il primissimo piano (ce ne vuole di coraggio) di Obama, segno che il credo del medico negli ultimi anni è stato ampio, variegato e incoerente. Come se non bastasse, un paio di reliquie appartenute a S. Ignazio e S. Lucia. Direi una lingua e un’unghia.

    Utilità? Zero. Beh, dai, capisco Craxi, voglio comprendere Obama, ma decorare la stanza con surrogati religiosi equivale a darsi la zappa sui piedi, a calpestare scandalosamente la laurea in medicina, a consegnarsi al nemico. Appello a colleghi, intellettuali, ma anche gente comune che non ha un cazzo da fare: vi prego, sediamoci a tavolino e tutti insieme, con la pacatezza che non caratterizza i dibattiti televisivi, ragioniamo su come sia possibile che ogni struttura ospedaliera della terra straripi di icone cattoliche. Non lo sentite il contrasto stridente tra scienza e fede? Non l’avvertite la sfida tra la mano del padreterno e quella del chirurgo? Mi si dirà che, nel dubbio, in caso di estrema disperazione, uno s’appiglia ad ogni mano possibile e immaginabile. E, vabbè, troppo facile. Bisogna scegliere, decidersi. O la preghiera o la terapia. O il medico o Cristo. O il camice bianco o il rosario.

    "Oggi ne abbiamo 3, vero?

    Si, gli rispondo distratto, poi centellino la data 03/01/2011 per non farmi trovare impreparato.

    Ha già provveduto all’accredito?

    E in questo medici e preti parlano la stessa lingua.

    Avrei volentieri dato di più, ma la sua segretaria è stata così gentile da limitarmi ai costi standard, sdrammatizzo.

    Il medico ride, ci mancherebbe. Un bell’uomo, con una barba folta e natalizia, ma molto più curata di quel clochard di Santa Claus.

    Ha seguito le indicazioni che le ho suggerito?

    Annuisco.

    Bene, allora mi fornisca il campioncino.

    Da una tasca laterale della giacca estraggo un barattolino bianco opaco in cui ho isolato la mia saliva. Quando mi hanno detto che era quello il metodo per avviare l’analisi di paternità, ho subito ripensato all’efficacia della locuzione Sono uguali sputati.

    Lei capisce, continua, che dietro questa analisi puramente medica, esiste un principio giudiziario da rispettare. Il test in sé non varrà niente se il tribunale non deciderà di portarlo come prova a vantaggio della madre naturale del ragazzo.

    Se il dottore conoscesse la bellezza della madre naturale del ragazzo si butterebbe anche lui a fare il test, pur di starle vicino.

    Ho una stanza a casa dedicata alle mie donne, una specie di tempio pagano. Naturalmente la tengo chiusa a chiave per evitare l’intrusione di occhi indiscreti. Alle pareti ci ho appeso tutte le ciocche di capelli delle signore (e ometto il numero perché non amo compiacermi) con cui sono stato.

    Sulla sinistra vibrano le occasioni di una sera. Tante, anche troppe per i miei gusti. Ma noi archivisti umani siamo chiamati allo scrupolo senza giudizio.

    Sulla parete centrale le meritevoli della categoria top, delle vere e proprie tigri del materasso che mi hanno lasciato in eredità un mal di schiena in perenne peggioramento. La parete destra, invece, è il trionfo delle ciocche celebri: sono una quarantina di cimeli appartenenti alla crema del mondo dello spettacolo. Non è detto che il loro alone di successo corrisponda al ricordo di una performance spettacolare. Anzi, il più delle volte mi ha provocato maggiore eccitazione tenere sul pube il volto di una studentessa d’economia che l’insipido miscuglio di trucco della showgirl buona solo a cantare in playback e a slanciarsi in spaccate deleterie. I più grandi errori sessuali della mia vita li ho commessi con le donne del mio stesso ambiente, storicamente avvezze a décolleté antigravitazionali. È indescrivibile la delusione che ti assale quando ne spogli una e ne appuri le sfumature in pvc. Cerchi complicità nella cupezza dell’abatjour, nell’annebbiamento del brandy, ma niente. Quelle bambole gonfiabili con le vene sovresposte sono in antitesi al genere femminile. Il seno flaccido, anche piccolo, ma naturale, raggiunge invece vette erotiche molto più gratificanti. È bio, a chilometro zero, ecosostenibile, paradossalmente moderno.

    Prima volta che fa il test? indaga il competitor del Nazzareno.

    Cazzi tuoi niente? Penso. Sì, prima volta dico.

    E mi chiedo perché mai ho accettato di farmi analizzare le cellule da questo campione di gossip che mi si staglia davanti.

    Mah, incrocio le braccia. Che vuole che le dica, non ho mai digerito questo genere di analisi.

    Non l’avrei detto. È un problema di coscienza o di paura?

    Non sono forse la stessa cosa?

    In un certo senso sì. Però, me lo conceda, signor Rea, superati gli – anta non vale la pena rimandare quei pochi, rari, granelli di felicità che la vita tiene ancora in serbo per noi.

    Ma questo che cazzo vuole da me? Che deflori la scrivania e tutta la collezione di stilografiche sparpagliate sui bordi? Che vuole? Cosa stracazzo vuole da me? Nel giro di cinque minuti mi ha dato del vecchio, del puttaniere e dell’irresponsabile.

    Sia sincero, provoca, quanti figli le hanno attribuito?

    In passato mi piaceva fottere, penso. In passato mi piaceva fottere, dico.

    E lo inchiodo alla sua deontologia professionale che scivola in un rossore facciale orientato al fucsia.

    La verità è che in una situazione del genere nemmeno dovrei starci, io. Ma un mese fa ho cambiato opinione sull’esigenza dei test genetici e contro ogni mia volontà mi ci sono affiliato.

    Sfogliando uno di quei giornali che nelle sale d’attesa dei dentisti anticipano l’anestesia con un ventaglio di scoop, mi sono imbattuto in una foto che avevo rimosso dai ricordi.

    Io, capelli cortissimi, vent’anni, schiacciato a terra, sul pavimento liscio di un mini market. A fianco a una donna splendida. Di venti più grande.

    In tutto questo tempo

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