L'armonica che respira: di jazz, pugili e ghiaccioli
Di Max De Aloe
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Anteprima del libro
L'armonica che respira - Max De Aloe
L’ARMONICA CHE RESPIRA
Di jazz, pugili e ghiaccioli
Prefazione - Max De Aloe, l’uomo che sussurra alla musica di Igor Daniele Ebuli Poletti
Max De Aloe è armonicista, produttore discografico, portatore sano di passioni inconfessabili per la poesia e la letteratura, motociclista molto effimero, elaboratore di presentazioni fastose e atrabiliari per i suoi concerti, inalatore furtivo di tabacco da pipa, e oltre a tutto quello che precede anche possessore di calzature che generano prima invidia e poi forte sdegno nei popoli; da oggi è anche scrittore praticante, con questo suo libro in cui ha fatto calare le parole con la stessa grazia e armonia che mette nei suoi concerti e nelle sue registrazioni. Un libro che parte dagli inizi di una passione che pur diventando un lavoro non cesserà mai di essere una passione, solo raramente sfiorata dal peso della quotidianità e delle ritenute di acconto. Da anni ha portato nel jazz, anche se il lemma jazz è uno dei più pericolosi del mondo con tutto quello che ci si può infilare dentro, un respiro potente e sottile di animosa, incrollabile tendenza alla bellezza, ha sdoganato, in un una musica che fa spesso ostentazione di slabbrature armoniche e affannosa ricerca di un Altro (che poi non c’è) la melodia, la bellezza del tema, la forma di un pezzo che può essere ricordato e fischiettato alla fine del concerto, summa iniuria per certa critica che scambia da sempre la freschezza espressiva per superficialità di contenuti, la distanza dall’arroccamento concettoso come concessione al banale. Di banale nella musica e nella scrittura di De Aloe non c’è niente, ci sono invece porte che si aprono su nuovi mondi sonori, ci sono capitoli dedicati alle strade dello Zimbabwe, ci sono storie gaddiane di pugili che suonano talmente bene la chitarra che smettono di essere pugili, ci sono crepe dalle quali entrano luci nuove che diversamente sarebbero rimaste nell’ombra, ci sono delle epifanie di grazia. Anche in questo suo primo libro in cui parla di sé, le sue pubblicazioni precedenti erano manuali didattici dedicati al suo strumento, c’è tanta grazia, tanta eleganza, tanto racconto di un percorso in cui la musica e la vita fanno molta fatica a staccarsi, procedendo insieme. Questa nostra specie di Pericle della musica (con Pericle condivide l’altezza e una certa tendenza alla sovraeccitabilità dei sensi) ha creato negli anni un suo personale catalogo nel quale troverete Bizet Sandro Penna Thielemans (questo poco perché la calligrafia estetizzante non gli piace) Coltrane Parker Debussy le madri di Plaza de Mayo Nanuk l’eschimese Puccini Verdi Federico Buffa Bjork Schopenhauer Montale e la Dickinson: con questo libro sappiamo che sa anche scrivere, che quello che suona lo deve in gran parte a zio Ninnillo, che Gallarate è una città che ha avuto i suoi Simply Red e che il jazz ha molto a che fare con le barche a vela. Viviamo tutti immersi in una superfetazione comunicativa costante, siamo tutti nel ventre di una balena illuminato a giorno dagli schermi dei nostri telefonini, dove probabilmente anche molti di voi leggeranno questo gomitolo di fatuità, mi riferisco ovviamente a questa prefazione, il libro non ha la forma di un gomitolo; quindi invito, tutti, a cercare da soli quello che nel mondo dealoeano vi interessa di più, il jazz, la musica brasiliana, la musica lirica riletta, la poesia suonata, la canzone, il sussurro lieto e l’urlo più disperato, e vi consiglio di leggere questo libro, che in molte, se non tutte, le sue parti ha un andamento musicale, fatto abbastanza inevitabile per un libro scritto da un musicista. Credo che vi accorgerete, tuttavia, di una cosa: che Wittgenstein non suonava l’armonica a bocca e Max De Aloe non ha scritto alcun Tractatus ma che entrambi, in modo diverso eppure simile, hanno dimostrato come i recinti servano, forse, alle mucche ma che sono del tutto inutili per gli esseri umani, filosofi o musicisti che siano. E che il jazz, quella musica strana, asimmetrica, dolce, intensa, infuocata e triste, raffinata e brutale, imprevedibile e urticante può essere suonata anche con una armonica a bocca e scoperta tra le pagine di questo libro.
Igor Daniele Ebuli Poletti
Preludio
Non sono io che ho scelto la musica ma è la musica che ha scelto me. Quando sento questa frase vorrei scappare lontano urlando come in preda alle convulsioni. In alcuni casi vorrei avere un kalashnikov, ma non vado oltre. Alla terza riga sono già politically incorrect.
Mi sa che la mia è solo sprezzante invidia. La musica non mi ha scelto. Mai. L’ho dovuta sempre rincorrere e corteggiare con strategie, anche delle più meschine. La musica è sfuggevole, cari miei. È una cosa grande, ma tanto, che spesso ti guarda e ti dice: sei una pippa
, sei una grandissima pippa
. Altre volte, se va proprio tutto bene, non ti dice nulla. È stronza e fascinosa. È un’amante complicata, fedifraga, ama le situazioni orgiastiche con direttori sempre diversi a dirigere il rito amatorio. Alcune volte mi è sembrato che sorridesse proprio a me, ma sono stati momenti fugaci e forse avevo anche bevuto un bicchiere in più.
Devo dire che un po’ me la sono voluta, perché uno che sceglie l’armonica cromatica come proprio strumento già si mette ai margini. Ai margini di tutto.
L’imbarazzo c’è già all’inizio quando qualcuno ti chiede cosa suoni. Alla domanda cerco sempre di svicolare ma se mi mettono alle strette devo confessare: l’armonica. A quel punto tutti, o quasi, fanno la stessa espressione: aprono leggermente la bocca, strizzano gli occhi, s’ingobbiscono un po’. E quando ad armonica aggiungo cromatica, la bocca si apre un po’ di più e il labbro si alza in una smorfia a metà strada tra Billy Idol e Adriano Pappalardo che non è stupore. No, non è stupore è più cazzo stai dicendo? Insomma, sconcerto, come scriverebbero gli scrittori veri che non usano le parolacce.
A quel punto qualcuno dice: Ma l’armonica? Quella a bocca?
. Mimando un gesto onanistico. Oppure dicono ma tipo la fisarmonica?
. Quasi sempre si arriva lì: Ah, l’armonica a bocca, la suonavo anch’io da piccolo
. In subordine Ah, lo strumento degli alpini
. Poi armonica cromatica diventa quasi sempre cromata.
Ho anche a casa un bel numero di manifesti e locandine che conservo gelosamente dove c’è scritto: Max De Aloe - armonica acrobatica. Forse è la vita del circense che mi ha scelto ma io non l’ho ancora capito.
Il circo mi brama, la musica mi snobba. È sempre così in amore, se si ama troppo si è perdenti. Lo diceva anche Catullo, o forse era solo Marco Ferradini.
Anche voi che state leggendo vi starete ponendo degli interrogativi. No, non c’entra con l’armonica che suona Bob Dylan, quella è un’armonica diatonica e non la so neanche suonare.
Subito dopo arriva la seconda domanda, più difficile della prima. Va bene lo strumento strano, ma che genere musicale suoni? Perché loro vogliono capire perché sono costretti ad andare in ufficio tutti i giorni e tu no. Tu invece suoni per vivere e per di più suoni una cosa che di solito la suonano i bambini. Sommessamente rispondo jazz. A quel punto il loro sconcerto diventa una cosa diversa e quei brutti pensieri che passano nella loro testa non li voglio neanche immaginare. Che poi ci rimango male.
Zio Ninnillo
Il mio primo ricordo che ha a che fare con la musica risale ai primi anni ‘70 a quelle rare sere in cui in casa si diceva montiamo lo stereo.
Non appartengo a una famiglia di grandi appassionati di musica ma alcune volte capitava che si spegnesse la vecchia televisione a valvole Grundig, rinunciando a Giochi senza frontiere o a un film di John Wayne, per dedicarsi all’ascolto di qualche disco. Si prendeva il cubotto di legno rivestito di cartone azzurro pressato che, smontato e appositamente rimontato, dava vita a una specie di hi-fi per ascoltare 33 e 45 giri. Era stato acquistato per posta grazie a un’offerta dell’allora in voga Selezione del Reader’s Digest con il quale avevamo avuto in promozione un cofanetto di 10 album dedicati alla grande melodia italiana. Nel cofanetto le arie d’opera la facevano da padrona. La preferita da me e mio padre era senza ombra di dubbio Mi chiamano Mimì di Giacomo Puccini in una versione cantata da Licia Albanese. Molti anni dopo, esattamente nel 2008, poco dopo la morte di mio padre, ho voluto ripercorrere quell’emozione di me bambino immerso nella melodia di Puccini seduto sul terribile divano zebrato realizzando un CD dal titolo Lirico Incanto, dedicato alle grandi arie operistiche rivisitate a mio modo, tra jazz e contemporaneità. Un CD a cui sono molto affezionato anche perché è il primo realizzato con il mio attuale quartetto con Roberto Olzer al pianoforte, Marco Mistrangelo al contrabbasso e Nicola Stranieri alla batteria. Fedeli compagni di musica e amici con cui suoniamo ancora dopo tanti anni con la stessa voglia, passione e soprattutto stima reciproca che ci lega da sempre.
Ma in casa nostra la più ferrata nel conoscere l’opera lirica era certamente mia madre che aveva iniziato ad apprezzare le grandi melodie non certo frequentando la Scala. Si era avvicinata al melodramma sulla catena di montaggio di una manifattura. La sua compagna di lavoro, Angela, amava l’opera e durante le lunghe ore in fabbrica le raccontava le trame delle opere più famose, canticchiavano dei passaggi insieme, le prestava quei pochi dischi che lo stipendio di apprendiste operaie poteva permettere.
Stessa cosa, mi raccontava anni fa mia nonna, succedeva spesso nelle filande. Molto prima del ciuffo altero di Muti o delle impettite prime scaligere l’opera lirica era certamente anche musica popolare.
E della lirica ancora oggi mi piacciono le riduzioni per pianoforte delle arie, non solo le più celebri, dove armonia e melodia sono messe lì in evidenza, senza troppi orpelli e orchestrazioni. Prendere gli accordi a grappoli del pianoforte e ridurli con accordi siglati che ne rendono ancora più chiaro il percorso armonico a noi umili jazzisti mi dà la percezione esatta dell’idea compositiva di base. Melodia e accordi con quei bassi spostati tipici di Puccini che lo rendono di una modernità disarmante. Tra i molteplici pregi di Puccini c’è che la sua musica suona sempre. È chiara, esplicita, geniale nella sua tensione continua verso una melodia che ti si inchioda nella memoria e da lì non scappa più. Si accoccola in quel piccolo scrigno tra cervello e cuore dove ci stanno tutte le cose belle. La potrebbe suonare anche un gruppo di scout con la chitarra e funzionerebbe sempre.
Come ho già detto la