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Quando gli alberi diventano neri
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E-book158 pagine2 ore

Quando gli alberi diventano neri

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Info su questo ebook

Letteratura - saggio (121 pagine) - Tagliente e cruda come i suoi romanzi, l'autobiografia della regina italiana dell'orrore e del nero


Dal nero italiano alla fondazione del Gruppo 13, dai fumetti splatter al neo-noir e ai Cannibali, passando da musica e cinema, produzioni punk e letterarie fino all’iconica definizione di Regina Nera, tra una miriade di sperimentazioni e una vita irta di ostacoli: questo libro illustra il percorso da outsider e le vicende personali della scrittrice di genere meno di genere che esista, Alda Teodorani.


Alda Teodorani è tra i maggiori autori noir e horror italiani. Dall'esordio all'inizio degli anni Novanta è stata al centro della scena italiana del romanzo di genere: dalla fondazione del Gruppo 13, in cui militava con Lucarelli, Fois, Machiavelli, al movimento della Gioventù Cannibale, alla nascita della corrente Neo-Noir. Dai suoi racconti sono stati tratti film, opere teatrali, fumetti. Tra le opere più note Giù nel delirio (Granata Press, 1991), Belve (Addictions, 2003), I sacramenti del male (Mondadori, 2008), e le due antologie Sesso con coltello (Stampa Alternativa 2001) e La Signora delle torture (Addictions, 2004) di prossima pubblicazione con Delos Digital. Recentissimi il romanzo Gramsci in cenere (Stampa Alternativa) e il primo libro di poesia, Ti odio poesia (Edizioni deComporre).

LinguaItaliano
Data di uscita14 giu 2022
ISBN9788825420739
Quando gli alberi diventano neri

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    Anteprima del libro

    Quando gli alberi diventano neri - Alda Teodorani

    Gli anni bui

    Non ci pensiamo più, e passiamo oltre.

    Un abbraccione

    Valerio¹

    Che strana la storia di questi ultimi tempi, tutti chiusi in casa con la pandemia che infuria in ogni dove.

    Mi scrive l’amico Zinone da Massa Lombarda: In fin dei conti finora la nostra generazione non ha mai dovuto affrontare periodi davvero difficili.

    E subito faccio il resoconto della mia storia, le due stanzette al piano di sopra della casa del nonno, l’acqua per bere e lavarsi portata a casa coi secchi la mattina prima di andare a scuola e i pavimenti da pulire. Le mie continue malattie, le visite dal medico, l’ospedale. Mamma che diceva metto a bollire la siringa il contenitore di alluminio sui fornelli alimentati dalla bombola del gas. Mia madre che veniva dalla montagna, dove ogni cosa andava conquistata con le unghie e coi denti, ogni cosa si poteva fabbricare da sé in qualche modo: il mio collegamento con le sapienze preziose della terra e del passato.

    Non sarebbe stata la stessa cosa se avessi dovuto fare meno fatica, se avessi potuto fare tutto quel che volevo, se mi avessero comprato i libri che desideravo, non sarei così forte se non avessi sofferto.


    ¹. Valerio Evangelisti, Lettera a Alda Teodorani, 30 dicembre 2020.

    Api e alveari

    La collina di fronte a casa è un tripudio di colori. Papaveri rossi, margherite gialle, il trifoglio dalle foglie verdi con riflessi viola che sta per fiorire.

    Nei giorni scorsi, durante una delle mie passeggiate per calmare lo spirito guerriero, ho notato che al bordo del prato sono comparsi alcuni alveari gialli, rossi, azzurri.

    Ho sempre amato le api, fin da piccola. Ricordo il sottoscala pieno di bidoni di miele, i vasetti di varie tonalità, dal giallo chiaro all’oro, miele di acacia e millefiori, fino al cupo colore del miele di castagno, che mio padre vendeva porta a porta e quel profumo che per mesi saturava la mia casa.

    Oggi, uscendo dal cancello, sono stata sorpresa dall’arrivo di un’auto: procedeva a tutta birra dal fondo del vialetto che conduce al canale, il passaggio per me usuale quando faccio le mie escursioni nei boschi.

    L’auto ha frenato a un metro da me sollevando polvere e schizzi di ghiaia. Un uomo si è affacciato al finestrino e, lamentando che lo stavo guardando male, mi ha spiegato il suo tentativo di trovare una strada da fare per raggiungere i suoi alveari.

    Devo avere sorriso un po’ troppo perché ha esclamato – ti piacciono le api, vero? – E d’un tratto mi sono ritrovata undicenne, in uno stanzino imbiancato di fresco, a parlare con una ragazzina di un anno più grande di me, preparando con fogli di cera le basi di quelli che sarebbero diventati alveari. Le larve delle api regine estratte dai loro caldi rifugi di pappa reale bianca con le pinzette, chiedendomi come avrei potuto fare per salvarne almeno una, senza il coraggio di mettere in atto un piano qualsiasi: già allora ero vittima dell’autorità, un peso che mi porto ancora addosso.

    La mia compagna di lavoro, che guadagnava cento scudi più di me, aveva quell’aria da maestrina che mi sembra non abbia più perso, e poi c’era il ronzio della centrifuga che era sistemata in uno stanzone oscuro e inaccessibile, luccicante nella penombra: una vera dea del miele gravida di dolcezza, vischiosa di umori segreti, colante oro puro dalle sue membra di metallo.

    Non si possono non amare le api, l’essenza della vita che scorre sul pianeta.

    Il cervello del denaro

    Avevo 19 anni, da poco me ne ero andata da casa. Non possedevo nulla. Non potevo aspettare di essere chiamata per le supplenze come facevano le mie amiche più remissive o più fortunate di me. Per la prima volta conobbi personalmente gli emissari del Dio denaro, fino a quel momento il mio piatto era sempre stato pieno o quasi. A volte era condito di lacrime, ma pochi, immagino, potrebbero dire diversamente: chi ti mantiene ha il potere di farti soffrire. Anche queste, in un certo qual modo più subdolo, sono forme di schiavitù, specie per il genere femminile.

    I giovani dovrebbero poter sbagliare: io ero incasellata a tal punto che non avrei potuto sbagliare ma in famiglia si supponeva sempre che avrei sbagliato. Le apparenze probabilmente c’erano però mancava del tutto la sostanza.

    Avevo 19 anni, dicevo. Avevo passato l’intera estate nei campi, dove avevo zappato, raccolto e diradato, guidato il trattore e sarchiato, poi in autunno ero stata chiamata in un piccolo paese della Romagna per lavorare due ore al giorno: dalle otto alle nove e dalle tredici alle quattordici alla locale scuola.

    Tutto funzionava in modo burocratico, anche il mio stipendio che non arrivava.

    Ricordo le mie visite in amministrazione, che dal terzo mese di lavoro in poi si erano fatte sempre più frequenti, la mia frustrazione durante quelle lunghe mattine mentre percorrevo strade e piazze del piccolo paese e sedevo su una panchina ghiacciata dei giardini pubblici a leggere un libro. Nessuno dovrebbe essere trattato così.

    Una di quelle mattine, in amministrazione, una volta di più, mi dissero che c’era un altro rinvio, che non si sapeva quando sarebbe arrivato il mio stipendio. L’amministratrice, con le sue unghie ben curate e i capelli freschi di parrucchiera, la pelle liscia di chi non ha mai avuto freddo in vita sua, gli occhi ben truccati di ombretto azzurro, mi guardava sorridendo dal suo golfino in cashmere rosa, sembrava persino irridente quando mi disse – Se vuoi ti presto un po’ di soldi.

    Non mi presi nemmeno la briga di rispondere, mi girai e me ne andai, accecata dalle lacrime cariche di rabbia.

    Non salii più le scale di quell’ufficio finché, circa un mese dopo, mi comunicarono che i miei soldi erano arrivati.

    Se è vero che i due emisferi del cervello umano presiedono due diversi tipi di attitudine (sinistra creatività e destra razionalità) questi esseri preposti ai pagamenti forse ne hanno una parte più sviluppata dell’altra e nonostante tutti i conti e tutte le operazioni di aritmetica che fanno, non sanno o non sembrano sapere che la vita poi presenta sempre il conto.

    In questa desolazione postbellica creata da Steve Jobs e mantenuta in vita bit dopo bit da social e weblink ormai anche il dio denaro sta forse perdendo il potere che aveva un tempo: tralasciamo l’aggregazione socio-festaiola dei raduni suscitati dalle banconote e – costretti da una solitudine forzata – volgiamo lo sguardo altrove, dove finora ci siamo scordati di fissarlo, obnubilati come eravamo dal luccichio, come quando si fissa troppo a lungo il sole al tramonto e lo si vede splendere anche dopo che è morto, ma è solo un miraggio.

    Notti stellate

    Del periodo massese che ricordo con più piacere fa parte una serie di scorribande che ora, a ripensarci, mi fa chiedere quanti anni aveva il mio cervello a quei tempi.

    Abitavamo a Massa Lombarda, a casa del padre di lui, in mezzo a una campagna addomesticata e stanca. Due filari di viti, un orto, un pollaio, facevano da cornice alla casa, una grande costruzione bianca con un vasto piazzale ghiaiato, che doveva servire per le manovre del camion di suo padre. L’uomo, un personaggio rude, dagli occhi chiari che luccicavano di furbizia, sarebbe potuto diventare un perfetto serial killer ma non ho ancora capito come mai spesso raccontava di essersi spaventato a morte vedendo Psycho da ragazzo. Amava uccidere gli animali con quella ferocia indifferente che abbiamo visto tante volte nei film e con la stessa indifferente ferocia picchiava la moglie, mai a mani nude. Dormivamo nella stanza attigua alla camera da letto del padrone di casa e di sua moglie e spesso mi svegliavo nel cuore della notte col suono del camion o della sua auto quando rientrava. Sentivo i suoi passi pesanti salire le scale, la porta della camera che si apriva in silenzio sui gangheri bene oliati, e vedevo la sua sagoma che si stagliava nera nella luce del pianerottolo.

    Stava là, immobile sull’uscio, ci fissava a lungo mentre io fingevo di dormire, osservandolo tra le palpebre socchiuse; molte domande mi si affacciavano alla mente, domande che restavano senza risposta.

    In quel periodo, vivevo come potevo. La mia notte era più notte che in altre epoche della mia storia.

    Di giorno, facevo per due ore la supplente sui pullman scolastici, badavo che i ragazzi fossero al sicuro, che non facessero a botte, cercando di evitare che insultassero i loro bersagli di turno, ad esempio un fratello e una sorella che salivano in piena campagna, bellissimi, con enormi occhi azzurri, lo sguardo intelligente, le scarpe – sempre di due misure più grandi – tirate a lucido, si poteva percepire l’odore di quel lucido da scarpe, i vestiti puliti un po’ lisi ma sempre perfettamente stirati. Adoravo quei due, il loro starsene da parte in silenzio, mi interrogavo su come doveva essere la loro vita.

    Stavo ferma, seduta a fianco del guidatore, in un sedile volto al contrario del senso di marcia, masticando Big Babol (non hanno mai più avuto lo stesso sapore di allora) che poi mi avrebbero cariato tutti i denti, osservavo quei ragazzi, uno a uno, il biondino figlio di un pittore, il ragazzo sordomuto e il suo amico che aveva imparato il linguaggio dei gesti apposta per lui, il quattordicenne vivace che a un dosso si era alzato all’improvviso e aveva fatto un salto: aveva spaccato con la testa il controsoffitto di masonite, dove era rimasto agganciato un ciuffetto di capelli, strappato dalla crepa che si era aperta nell’urto, e aveva scatenato le ire dell’autista, un uomo pratico, fintamente burbero, con una guida impeccabile. Guardavo quei ragazzi e pensavo che avrei voluto stare lì per sempre, su quel pulmino giallo, a prenderli e riportarli nelle loro case in mezzo alle campagne, a masticare Big Babol o versarmi in bocca granelli di zucchero scoppiettante. Avrei voluto che non dovessero mai crescere, mai soffrire, mai capire che l’amicizia finisce come tutte le cose, mai essere segnati dal tempo, dai dolori, dalla morte dei loro cari, dalla cupidigia degli spacciatori.

    Quando arrivava la sera, con le mie amiche ce ne andavamo in giro per i piccoli paesi della bassa Romagna. Avevo i capelli color fucsia che portavo a caschetto con una lunga frangia, un’auto arancione e il soprannome, Crudelia De Mon, che mi aveva dato un ragazzo col quale avevo fumato troppi spinelli.

    Avevamo una prepotenza nei confronti della strada, della vita e della notte della quale allora non mi rendevo conto. Indossavo jeans troppo larghi tenuti su con alte cinture strette in vita, comprate da Angelo all’usato, salopette stracciate, camicie americane con scritte che non sapevo nemmeno cosa volessero dire, seguivamo le giostre nel loro percorso alle fiere dei paesi lì attorno, facevamo eterni giri nell’autopista deserta la sera tardi e ci sputavamo addosso da una macchina all’altra. Nelle sere di carnevale

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