Al buio i colori non esistono
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Anteprima del libro
Al buio i colori non esistono - Luca Grandelis
Al buio i colori non esistono
ISBN: 9788897313250
© 2007 Luca Grandelis
I e II edizione © L’Ambaradan casa editrice
III edizione ottobre 2012
progetto editoria diffusa
Il presente romanzo è opera di pura fantasia.
Ogni riferimento a nomi di persona, luoghi, avvenimenti, indirizzi e-mail, siti web, numeri telefonici, fatti storici, siano essi realmente esistiti o esistenti, è da considerarsi puramente casuale.
Se comunque qualcuno pensasse di riconoscersi in quanto narrato... beh, a mia insaputa, è diventato un personaggio della mia storia.
A chi ancora esiste, ma non c’è più.
Labirinto
ADAGIO
ALLEGRO VIVACE
LARGO CON ESPRESSIONE
L’Abbazia lassù,
inizia la salita: tornanti.
Terza, frizione, seconda,
due sole curve e i tetti
a livello dell’asfalto.
«Perché sei triste?»
«Sei in buone condizioni di salute, abiti una bella casa, hai ottimi amici.»
«Uno stipendio che ti permette di assecondare i tuoi vizi.»
«Non ti manca nulla!»
«Mi fai innervosire quando fai così!»
Ogni volta che Alberto, di proposito, lasciava trasparire la greve effervescenza del disagio e dell’inadeguatezza che travolgeva di continuo il suo animo, la reazione di Adriana era la medesima. Le stesse frasi, di frequente poco meno che urlate, di rado con dolcezza sussurrate. All’inizio del loro rapporto lui aveva interpretato l’eco distorto alla sua richiesta d’aiuto come chiaro segno della superficialità di lei, mentre con il tempo, si era convinto che la sostanziale comune paura fosse affrontata da loro due con armi e strategie differenti. Malgrado tale convinzione, il non poter spendere con lei parole, il non potersi insieme dannare sull’ineluttabilità del destino, il sentirsi violentato dalla sua stessa incapacità di cullarsi nel sogno di una verità migliore, inspessiva in lui – giorno dopo giorno, divergenza dopo divergenza - il callo che ostacola una spontanea, propositiva e costruttiva comunicazione verbale con gli altri esseri umani. Quelli che da tempo – al variare dello scenario – considerava i normali.
Comunicazione costruttiva: analizzare situazioni, valorizzare pregi, scovare difetti, ipotizzare nuove soluzioni; per costruire un nuovo mondo in cui vivere, un nuovo modo di vivere.
Sopravvivere.
Costruire, un verbo sfruttato dallo stesso Alberto nel corso degli anni, ora quaranta, che da sempre considerava ripugnante, quasi perfido e venefico, ma purtroppo richiesto, anzi preteso con forza e determinazione dal mondo in tutte le conversazioni.
Solo in quelle.
Persino Adele, la mamma di Alberto e l’essere più avulso dalla realtà che conoscesse, in occasione del suo trentesimo compleanno aveva usato quel maledetto termine: costruire.
«Alberto, tanti auguri, è ora che tu inizi a consolidare quanto hai costruito sino a oggi, tanti auguri caro e buon compleanno».
L’affondo era terminato con i baci di rito.
Alberto, sprofondato nella poltrona del suo studio, ampio kimono di seta blu stretto in vita - sotto nulla - guarda la portafinestra che dà sul terrazzo del piano inferiore di casa sua. Porta serrata, scuri blindati chiusi e bloccati da una spranga antisfondamento; fioca luce che si insinua dal resto della casa. Le sette del mattino. Lunedì. Un calcolato su e giù dalla zona giorno alla zona notte, che la tradizione borghese vuole al piano superiore. È Adriana che si sta occupando delle faccende mattutine: toilette, scelta dell’abito, veloce colazione, trucco; il tutto calibrato, pensato, previsto, programmato. Anche per questo considera il malumore di Alberto irritante, fuori luogo, fuori tempo. Prevede già che un non ben precisato malessere gli impedirà di recarsi al lavoro e per questo dalla cucina con acidità lo schernisce: «Non ti senti bene, vero? Hai la febbre? Uh che febbre!» Quando però, come oggi, la soglia della più intima introspezione non è a pieno raggiunta, bastano queste poche battute a stimolare l’orgoglio di Alberto, a farlo vestire, a indossare sorrisi e cordiali parole pronte per la prostituzione quotidiana cui è convinto di essere costretto. «Non mi prendere in giro! Non sono malato, mi preparo subito. Ti serve la station wagon?»
«No grazie. Starò tutto il giorno nel pensatoio, devo elaborare un’idea che ho avuto la scorsa settimana e sento che oggi riuscirò a darle forma.» Risponde Adriana.
Adriana e Anna, da tre anni socie ne Il Trombettiere
, si occupano di inventare e realizzare giochi per bambini. La loro linea si discosta di gran lunga dalla moda di mercato dell’ultimo decennio: i cosiddetti giochi educativi. Sono sempre state dell’opinione che l’universo bambino sia composto di galassie molto distinte tra loro, ognuna con caratteri e ruoli propri e inconfondibili. Ricordano sovente, a dispetto dei trenta anni già da tempo traguardati, la loro infanzia. Un insieme di giochi Giochi, di genitori Educativi, di zie Irresponsabili, di cugini Complici, di nonni Vizianti, di cartoni animati con poca morale e tanti disegni colorati, giardinetti pubblici terrosi non ammortizzati, e così via.
Il loro futuro lavorativo fu concepito un pomeriggio in cui visitarono un negozio del centro in cerca di un regalo per Matteo, figlio di amici e, inevitabile conseguenza, loro nipote putativo. Matteo allora stava per compiere due anni. Entrarono nel negozio e, consigliate dalla commessa, acquistarono un libro puzzle: un libricino con pagine rigide, poche, con altrettanto rigide immagini colorate, poco, e un puzzle composto di sei cubi rappresentanti ognuno sei parti di sei tristi raffigurazioni di tristi animali tristi. Uscite dal negozio, più simile a un collegio femminile austriaco inizi ‘900 che non a un paradiso di fantasie infantili, ma accreditato e molto noto alla Città Bene
, i loro sguardi si cercarono. Dapprima non proferirono parola; continuarono a camminare sino al semaforo poco distante. Costrette a fermarsi al rosso le loro maliziose e un po’ pettegole espressioni si incrociarono, una volta di più; una volta di troppo. Anna, nonostante il notevole sforzo, non riuscì a mascherare l’inizio di quelle crisi di riso che a scuola, nella quasi totalità dei casi, erano la via sicura per una nota; un piccolo passo verso quel sette, tanto anelato in matematica, quanto temuto in condotta. All’istante Adriana disse: «Rotternmeier!» Fu una detonazione di singhiozzi, lacrime, risa, seguite da flessioni e torsioni del busto in avanti e di lato: vano tentativo di un insperato ricomponimento. I passanti, alcuni, contagiati dalle risate spontanee e irrefrenabili delle due stentavano a mantenere il contegno, proverbiale nei maturi doc di mezza età che popolano i portici della loro città.
L’esplosione di ilarità fu provocata dalla a dir poco francescana
commessa, gemella di un personaggio di Heidi, un cartone della loro adolescenza. Una vecchia e antipatica governante austriaca: la signorina Rotternmeier appunto.
Anna ad Adriana. «il naso a-a-a-quilino...» e ridere. E ancora. « Ma il mento l’hai notato? E il tailleur di velluto nero? A maggio poi!»
Adriana incalzando « Non trovi che gli occhiali facessero un po’ Dolly Parton in "Dalle 9 alle 5 orario continuato".»
Anna: «Sì ma della Parton la poveretta ha solo gli occhiali!».
E via con una tanto inarrestabile quanto maliziosa risata. Subito dopo un ulteriore tentativo di asciugarsi le lacrime.
A fatica recuperarono contegno e assunsero la consueta aria da signorine - quasi signore - borghesi, middle class, rispettabili; ciò che in fin dei conti erano. Nel bar più vicino ordinarono due caffè ma prima di consumarli si erano a turno accomodate
alla toilette per correggere le sbavature del rimmel. L’urgenza di un rapido restiling le aveva portate a scegliere il bar più vicino, uno di quei pochi rimasti con il bagno esterno, per accedere al quale era necessario richiederne la chiave, uscire dal locale, varcare il portone a fianco – un passo carraio – raggiungere il cortile e infine doppiare l’uscio della toilette. Risultato: caffè gelido. Terminate le operazioni di ripristino scartarono il regalino, certe che per nessuna ragione al mondo l’avrebbero consegnato. Scrutarono con indagatrice attenzione e Adriana pensando a voce alta e, in ogni modo, rivolgendosi ad Anna:
«Ma un bambino nato oggi, in relazione alla tipologia di giochi che gli regaleranno – tra quelli disponibili sul mercato intendo - non potrà che diventare o un genio noioso oppure un vivace guerrafondaio! Secondo te, c’è una via di mezzo tra il diario di Anna Frank e Internet?»
Anna, per incitare, per suggerire la sfida, per agevolare il parto di quell'idea che era già anche sua, apostrofò l’amica con un «Pressappochista!»
Fu così che nella settimana successiva si scatenarono, eccitate, alla ricerca di giocattoli Giocattoli, nei negozi, tramite il web, leggendo riviste specializzate, mentre a Matteo regalarono delle tempere atossiche d'ogni colore e una risma di fogli 100*70.
Quando al suo compleanno si sdraiarono a terra con lui e, distribuendo un po’ di fogli sul palchetto della sua camera dei giochi gli insegnarono a lasciare su di essi l’impronta delle mani, Il Trombettiere aveva già preso forma e da sogno era divenuto progetto. Circa un mese dopo, davanti a un vanaglorioso notaio, la società fu costituita. Da allora Adriana, deposta la carica di Vice Responsabile dell’amministrazione di una rinomata azienda di automobili, e Anna, ex indossatrice sempre alla ricerca di un impiego che la potesse divertire e nel quale investire parte dell’enorme patrimonio lasciatole in eredità dai genitori adottivi, produssero un gran numero di banali meraviglie per cuccioli di esseri umani. L’azienda, in breve tempo, crebbe sia in termini di fatturato, sia in termini di clienti, perse la connotazione iniziale di impresa a carattere famigliare locale diventando un marchio d’èlite per clienti anche d’oltreoceano; il tutto senza assumere sociologi, pedagoghi o psicologi, ma avvalendosi soltanto di bravi artigiani del posto pronti a dar forma alle loro idee: le loro esigenze di trenta anni prima concretizzate con strumenti e materiali moderni. Perché si sa, nella pancia della mamma non ci sono né internet né la televisione a confondere la fantasia.
Quale fantasia, pensa Alberto, un altro giorno.
Via il kimono. Ora Alberto, nudo nel centro della cabina armadio, scruta il proprio guardaroba alla ricerca dell’abito che più si adatti al suo umore. O meglio, lo sceglie in funzione dei diademi, come li chiama Adriana, di cui si vuole adornare. A onor del vero son quelli – i diademi – a dover essere in sintonia con lo stato d’animo e consistono in orologio, gemelli, bracciale e collanina. Sì, a differenza di molti, forse di tutti i suoi colleghi, Alberto non porta mai la cravatta e su di essa ha un’opinione ben precisa. Infatti sostiene che la cravatta, non avendo alcuna funzione pratica, è da considerarsi un accessorio il cui scopo è di sola guarnizione. Partendo da questo presupposto, a suo dire, sono possibili due alternative: o trovare il miglior fregio cravatta o il fregio migliore della cravatta; lui ha scelto la seconda opzione e così anni fa iniziò a collezionare semplici ciondoli di pietre, alquanto preziose e pure, da portare su un minimale filo d’acciaio girocollo, a colletto di camicia sbottonato. È diventato un suo carattere distintivo in azienda nonché in società, come è diventata uno dei suoi innumerevoli hobby, la ricerca oggi di un berillo di smeraldo purissimo, domani di un’acqua marina di colore intenso, di una tormalina, di un grezzo di tanzanite, di una foglia di cianite. Il minerale , una volta scovato, passa al tagliatore, dal tagliatore all’orafo e infine all’incastonatore; un processo lungo, non privo d'intoppi, il cui fine è portare, basculante sotto il pomo d’Adamo, poco più di un centimetro cubo colorato, il più delle volte di una trasparenza vitrea. Il bracciale, che una volta era abbinato al ciondolo, poi ai gemelli, ora è sempre il medesimo, un sottile e discreto filo di diamanti neri della dimensione di grani di sale grosso. Gemelli e orologio: stesso destino del ciondolo; stagione e umore. A questo punto intervengono abito e camicia. In una giornata d’aprile afona e immota come si annuncia quella di oggi e con la raffica di pensieri che scompiglia tutto ciò che trova in Alberto la scelta è indiscutibile: rutilo per i gemelli e Hamilton con cinturino di pelle, entrambi della nuance della giacca di velluto beige e non troppo esuberanti per l’azzurro della camicia.
«Tra mezz’ora ti telefono e scommetto che sarai ancora a casa!» prosegue Adriana mentre cerca le chiavi dell’auto. «Le hai prese tu le chiavi dello Z4? Non sono più nello svuota-tasche!»
Alberto, che le ha notate, raminghe, sul tappeto della loro camera da letto, risponde. «No, è da un po’ che non lo prendo! Dove le hai lasciate l’ultima volta? Hai controllato nelle tasche del soprabito che avevi ieri?»
«Sono in ritardo, prendo il mazzo di scorta, cia... Accidenti, già ieri ho preso il mazzo di scorta, dai Alberto aiutami a cercarle, tanto poi tu stai in casa a trastullarti!»
È in questi momenti che Alberto è combattuto tra il dare un calcio al mazzo di chiavi, e farlo scomparire sotto il letto o il porgerlo con affetto alla sua svampita Archimede. Come nella la scelta dell’abito decide di mantenersi sul neutro: una tiepida scelta mediana. Scende le scale per raggiungerla nell’ingresso e suggerisce:
«Adriana, forse ti sono cadute nello spogliatoio od ovunque tu ieri ti sia svestita, hai controllato in camera da letto?»
Lei sale, lei le trova, lei ridiscende, lei ringrazia, lei sa, lei lo interpreta come il loro gioco. Lui no: lui non è mai stato capace di giocare, ha sempre finto di giocare quando era necessario farlo.
Il bacio.
La porta si chiude alle spalle di Adriana.
Le 7:43 dice l’orologio elettronico della cucina, le 7:35 il pendolo dello studio, le 7:40 quello del salone, le 15:10 quello al polso di Alberto ed egli pensa: fatti forza... doccia, barba e denti, profumo e poi mettiamo a posto l’orologio.
Alberto ha la capacità di specchiarsi e di non vedersi, ad esempio gli succede quando si rade.
È una difesa.
Le rare volte che si sofferma sui tratti del proprio volto inizia un processo di recupero delle immagini di sé memorizzate negli anni passati.
Poche.
Lo demoralizzano perché la sua osservazione, in quei rari casi, oltrepassa e oltraggia i caratteri che il resto del mondo nota di lui.
È un italiano di media altezza, slanciato, con viso, collo, mani, ventre e glutei di una bellezza travolgente, e il fatto che lui non se ne sia mai reso conto l’ha mantenuto umile e umano – come chiunque all’inizio - preservandolo da quell’arroganza tipica dei belli consapevoli.
Maliardo.
Alle caratteristiche di fabbricazione si aggiungono poi un’estrema eleganza nel portamento, un controllo delicato della voce, calda e bassa, uno sguardo sempre diretto verso i propri interlocutori, un vocabolario forbito, scevro da termini sgradevoli e dove non c’è presenza alcuna di forzate quanto inesatte forme di esterofilia linguistica; un rapporto quasi pernicioso con la comunicazione, mai barocca. Malgrado la propria avversione nei confronti della socializzazione con esseri umani estranei alla propria cerchia di amici, un sorriso, di consueto, accompagna le sue parole.
L’insieme – al primo impatto con Alberto - provoca nella media dei suoi interlocutori, imbarazzo, soggezione, quasi deferenza; tanto per aspetto e portamento quanto per autorevolezza.
Nel privato illustra le proprie posizioni, severe e consapevolmente rigide; mai stolido.
In pubblico è capace di caldeggiare o demolire lo