Gli zingari corrono scalzi
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Gli zingari corrono scalzi - Daniela Di Cicco
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Capitolo 1
Il semaforo all’angolo lampeggia.
Scavalco l’incrocio dei tram, supero il chiosco sotto il platano, attraverso sotto un cielo basso di puro inverno, acciaio e gelo.
Mi infilo nel sottopassaggio.
Scale luride costellate di bicchierini schiacciati e mozziconi.
Salgo sulla metro.
Dentro, tepore e voci si mescolano allo sferraglio.
Sto tornando dall’ufficio, al 42 nero di via Montesuello, dove lavoro come segretaria ormai da tre anni.
Mi chiamo Cosima.
Lo so, non è granché, da bambina lo detestavo, anomalia nella moltitudine variopinta di Sare, Barbare e Debore.
Mi urticava le giornate di scuola, come un grembiule sgualcito tra pettorine inamidate. Poi col tempo, ho imparato ad accettarlo, persino a volergli bene, in virtù proprio della sua diversità.
Mi rendeva unica, almeno anagraficamente. Co- si- ma, sillabavo chiara quando qualcuno non capiva.
Cosima, bello no? Con un sorriso.
E d’altra parte quel nome era il mio solo segno di distinzione sul fondale scarno di un’umanità a malapena galleggiante.
Per tutto il resto la mia vita è stata comune a quella di mille altre, senza picchi né colori accesi. Un sassolino grigio su una spiaggia intera di sassolini grigi.
Anonima.
Diploma con la media del sette, domande su domande, impieghi precari per cinque lunghi anni, finiti sempre con due parole e poco liquido, altre domande e curricula e infine quel lavoretto in pieno centro capitato quasi per caso, quando le speranze erano ormai in fondo.
In realtà l’informazione su quella richiesta di ragazza diplomata me l’aveva passata un’amica, la Giorgia, che aveva preferito entrare come commessa in un negozio di intimo.
La Giorgia era una che ci sapeva fare con la biancheria.
Alta, bionda, taglia quaranta, tacco dodici e trucco perfetto, non passava inosservata e un impiego di segretaria le si addiceva ben poco.
Invece tra guepière e autoreggenti era proprio nel suo.
Fatto sta che una sera mi telefona e: «Ho una buona notizia per te» esordisce.
«Ricordi quella domanda che avevo fatto per la Savini e C.? Beh, mi hanno chiamata. Ma intanto anche la Gloria mi ha chiesto se potevo darle una mano in negozio... sai quello bello in corso D’Aste, di lingerie. Per ora le do un aiuto a metter su il locale poi chissà. Così ho pensato a te, ché se vuoi presentarti al posto mio, a loro non fa differenza. I requisiti li hai tutti, anzi meglio di me ti pare? Ti presenti domani e via. Vedrai che ti prendono.»
E difatti così era andata.
L’ufficio era piccolo e perennemente surriscaldato, inverno ed estate, e condiviso con un’altra ragazza, Sofia, una brunetta pallida e silenziosa, sempre vestita di nero e con un’intera attrezzatura da ferramenta infilata al lobo destro. Anelli, spille verticali, brillantini e catenelle si susseguivano lungo l’intera superficie cartilaginea dell’orecchio in questione. L’altro, per contrappeso, nudo del tutto. Gli occhi bistrati sotto sopracciglia ad ala di gabbiano, perfette. Per il resto piatta e banale come un foglio da stampante.
La Savini era una piccola azienda addetta all’amministrazione e contabilità per conto di ditte commerciali e piccole imprese artigianali. Conteggi, pagamenti, buste paga, erano compito nostro e per me si era aggiunta anche la responsabilità della gestione di piccoli prestiti e finanziamenti che andavano concordati e onorati con istituti bancari.
Giornate sane immersa in conti, calcoli, riporti. I computer accesi tutto il giorno, dalle nove alle diciassette, ora in cui finalmente si staccava. Spento tutto, raccattata borsa e arnesi vari a seconda della stagione, si chiudeva per risalire sulla metro delle diciassette e quindici.
Spesa veloce, doccia calda, cena e serata in casa.
Una monotonia paralizzante.
Uno scandire le ore su un tono unico, sempre uguale, sempre lo stesso.
Una cantilena costante da annebbiare il senso stesso della realtà.
Il volo a piombo verso il vuoto.
Ma era andata così e lo sapevo. Le cose succedono oppure no e basta. Certe vite ti cadono addosso senza domande e non ti permettono risposte. Ti si avvolgono sulla pelle come abiti tagliati apposta per te. E non importa se non è il vestito che avresti voluto o che hai sempre sognato fin da bambina. Non fa niente se il tuo progetto era diverso, accarezzato e nutrito come un figlio. Basta una serie di circostanze infilate secondo un ordine sbagliato a smontare tutto. Una sequenza anomala di numeri. Un codice digitato in modo errato. Uno scambio di cifre e il risultato non è più lo stesso.
E quando gli avvenimenti prendono una rincorsa che non riconosci ma che ti costringe a girare anche tu in quella direzione per non esserne travolta, è quasi impossibile riprendere il controllo e contrastarne gli effetti.
Potrebbe rivelarsi una manovra rischiosa.
E dunque danzi un passo che non sai, ti muovi come devi e non più come vuoi.
Piccola figurante in una coreografia gigante che t’imprigiona e da cui è ogni giorno più complicato fuggire.
Sospiro.
Accendo il gas sotto il tegamino e l’uovo sfrigola, friggendo.
Due pomodori e un filo d’olio, per contorno.
Il desinare è in tavola.
Red, il gatto rosso dagli occhi blu, salta sulla sedia.
Guarda in attesa.
L’unico movimento è il vibrare dei baffi.
Capitolo 2
La mia piccola city car bianca è proprio di fronte all’ingresso del centro commerciale.
Così compatta può permettersi di occupare posti davvero impensabili e inaccessibili per auto di maggior spessore.
Quel Suv per esempio è già al suo quarto giro e l’aria spazientita del suo proprietario, un uomo brizzolato e dal naso prominente, mi strappa un sorriso mentre, all’interno del supermarket alimentare, sono in coda alla cassa.
Per una volta, l’essere spiantati e non poter permettersi niente di più di una minuscola utilitaria ha i suoi vantaggi.
Poca cosa, d’accordo, ma tutto fa.
Caricate le borse nel bagagliaio, ingrano la retro per poi ripartire verso casa.
Un altro sabato sta passando.
Quando c’era ancora papà non era così.
Il sabato era un giorno speciale e non si rivestiva dell’unto dei sacchetti delle focacce né odorava di pecorino stagionato. Non era momento di rifornimento e ricerca dello sconto, appiattito in fila tra massaie affannate e single da fine settimana.
Era la festa che precede un’altra festa.
Era il parco coi giochi del mattino, su scivoli di legno e altalene lanciate in alto; era il panino con la salciccia al chiosco e il chinotto con la cannuccia; era il luna park pomeridiano, sugli autoscontri e i calci in culo, dietro il banco della pesca con le palline, dentro il labirinto degli specchi.
Era la sera in pizzeria davanti a una margherita gigante con la mozzarella fusa e invitante su un mare rosso di pomodoro caldo.
E poi tutti davanti la tivù dove ci accoccolavamo con mamma che ci raggiungeva dopo aver riordinato, per guardare quei buffi spettacoli in bianco e nero che facevano tanto ridere, prima che il sonno ghermisse silenzioso i nostri occhi per trascinarli nel suo universo di sogni incantati.
Era tutto così perfetto.
Così terribilmente perfetto.
Spingo con la punta