Fotografie emozionali: Incontra le tue emozioni
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Silvia Vernuccio, nelle sue “fotografie”, dà alle emozioni una forma umana e sfida il lettore a mettersi al loro cospetto e a confrontarsi con loro, invogliandolo a scattare le proprie fotografie emozionali.
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Anteprima del libro
Fotografie emozionali - Silvia Vernuccio
Silvia Vernuccio
Fotografie emozionali
Copyright 78EDIZIONI 2021
Tutti i diritti riservati
78EDIZIONI
via Roma 89/A
35010 Massanzago (PD)
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Indice dei contenuti
Riconquistare le ali
INCONTRA LE TUE EMOZIONI
Una storia di eroi
Si fa presto a dire emozioni
L’origine delle emozioni
Esistono davvero emozioni belle ed emozioni brutte?
Tradurre le emozioni
Ti vengo a trovare
FOTOGRAFIE EMOZIONALI
Ammirazione
Amore
Angoscia
Coraggio
Curiosità
Desiderio
Disgusto
Felicità
Fiducia
Gratitudine
Ispirazione
Noia
Nostalgia
Paura
Rabbia
Soddisfazione
Solitudine
Speranza
Stupore
Tristezza
Vergogna
Empatia legge in classe ad alta voce.
Bibliografia
L'autrice
Note
Alla piccola Silver,
e cioè
alla piccola me.
Riconquistare le ali
Prefazione di Mario Maresca
Se in un libro leggi che " Angoscia non ha tempo per pettinarsi o che
Disgusto fa tesoro delle sue sbronze o che
Felicità è l’indiscussa regina del qui e ora ", capisci che quel libro merita di essere letto. Perché compie un’operazione mirabile: crea una circolarità tra storie personali e le emozioni e i sentimenti che le impregnano. Da un’unica parola, che ha l’ambizione di racchiudere un concetto, (un mondo, in realtà) si apre un panorama intenso che merita di essere esplorato.
Puoi non essere d’accordo con le affermazioni qui sopra tra virgolette, perché per te Angoscia
sarà altro, così come Felicità
. Però l’operazione di Silvia Vernuccio, l’autrice di questo libro, è pregevole, avvincente, onesta e audace.
In realtà noi siamo umani soprattutto grazie alle emozioni. Ma ci hanno insegnato, non si sa bene come ci siano riusciti, a diffidare di loro, a guardarle un po’ in cagnesco. Fino al punto che, pur rendendoci conto che esistono, non sappiamo bene cosa siano, a cosa servano e perché dovremmo scomodarci a parlarne.
Eppure, eppure…
Adoro la frase L’assenza di prove non è prova di assenza
. Viene attribuita a Carl Sagan, valente astronomo e divulgatore, nonché una delle massime espressioni dello scetticismo scientifico. Si capisce che è uno di quelli che davvero mi sarebbe piaciuto conoscere dal vivo ma purtroppo è morto nel 1996.
La frase punta il dito fortemente contro la necessaria superficialità in cui noi umani inciampiamo per il semplice fatto che, se un’informazione non intercetta i nostri sensi, pensiamo che non esista. Proprio, del tutto! Non solo nell’intercettazione casuale, ma anche nella nostra ricerca attiva di dati, il modo in cui impariamo è limitato dai filtri cognitivi, più o meno inconsapevoli, che non ci permettono mai di vedere la realtà per intero. In questo scenario umano di incompletezza, le emozioni sembrano assenti, fuori dai radar e da qualsiasi considerazione.
Per capire come andassero veramente le cose, nel 2002 due ricercatrici, H. A. Elfenbein e N. Ambady hanno passato al vaglio un cospicuo numero di studi sull’intercettazione e successiva decodifica delle emozioni altrui sul lavoro: in termini tecnici, le due studiose hanno fatto una meta-analisi [1] , un’analisi delle evidenze emerse da altre analisi. Sì, vero, parliamo di luoghi di lavoro e di ambienti organizzativi. D’altronde sono popolati da umani, esattamente come ogni altro ambiente sociale, che ha le sue etichette e i suoi rituali.
Ebbene, una delle evidenze consolidate è che le emozioni incluse nella famiglia della paura
(che vanno dal timore al terrore) tendono a inibirci dal mostrare altre emozioni considerate dalla tradizione e dalla pressione sociale come negative o disdicevoli. Parliamo di rabbia, tristezza, disgusto, disprezzo. Già nel 1993, uno studio di Chris Argyris [2] , accertò che, nonostante del tutto inutile e nocivo, reprimere le proprie emozioni sia ancora una consuetudine socialmente accettata, che si accentua in presenza di persone che ammantiamo di una qualche autorità.
Lasciamo per un attimo gli studi di psicologia sociale e organizzativa e facciamo un salto indietro di duemilacinquecento anni…
" Si raffiguri l’anima come la potenza d’insieme di una pariglia alata e di un auriga. Ora tutti i corsieri degli Dei e i loro aurighi sono capaci e di buona razza, ma quelli degli altri esseri sono un po’ sì e un po’ no (…), uno è nobile e buono, e di buona razza, mentre l’altro è tutto il contrario. Di qui consegue che, nel nostro caso, il compito di tal guida è davvero difficile e penoso ."
Così Platone, nel suo Fedro
, usa il mito della biga alata per spiegare come la nostra anima sia composta, secondo lui, da tre parti. È interessante notare le somiglianze che troviamo tra le figure del mito millenario e il modo in cui potremmo pensare all’insieme delle nostre facoltà mentali, quelle che usiamo per " intus-legere ", leggere le informazioni che il mondo ci offre e grazie alle quali vi entriamo. La nostra intelligenza, appunto.
Nel mito, la figura dell’auriga è la mente razionale, la logica, un costrutto determinato e deterministico che lavora su cause-effetti lineari. Quella che per molti è la vera
intelligenza. Che, però, ha un compito " difficile e penoso , perché il mondo e le informazioni che racchiude seguono moti astrusi, ambigui e privi di certezze. Questa è la colpa dei due cavalli, buoni
un po’ sì e un po’ no ": quello un-po’-sì , trotterella nel campo di un intelletto, seppur meno razionale, tendente allo spirituale; quello un-po’-no galoppa velocissimo verso il mondo delle emozioni, delle pulsioni e dei sentimenti. Di fatto, i due cavalli non vanno per nulla d’accordo tra loro, rendendo faticoso il lavoro dell’auriga e accidentato il percorso della biga.
Ancora nel Fedro, Platone dice che, nelle facoltà divine, la potenza d’insieme
facilita la comprensione del mondo. Nelle facoltà umane questa potenza ha perso le ali nel conflitto tra i cavalli. E così, l’anima " precipita fino a che non s’appiglia a qualcosa di solido, dove si accasa (…). Questa composita struttura d’anima e di corpo fu chiamata essere vivente . In questo precipitare, le intelligenze umane sembrerebbero vivere distanti dalla loro forma migliore, vicina alla divinità. Allora annaspano, alla ricerca di un riavvicinamento e
(…) poiché non ne hanno la forza, sono spinte qua e là, e cadendosi addosso si calpestano a vicenda nello sforzo di sopravanzarsi l’un l’altra. Ne conseguono scompiglio, risse ed estenuanti fatiche, e per l’inettitudine dell’auriga molte rimangono sciancate e molte ne hanno infrante le ali. Tutte poi, stremate dallo sforzo, se ne dipartono senza aver goduto la visione dell’essere e, come se ne sono allontanate, si cibano dell’opinione. [3] In uno scenario cruento da inferno dantesco, le nostre
parti mentali" sembrano lottare tra loro, senza più ali, alla ricerca di una supremazia e di un risultato vagamente onorevole.
Insomma, da Platone a Elfenbein e Ambady, passando per Argyris, sembriamo non avere scampo e quel cavallo un-po’-no sembra destinato a essere reietto e fuori dal branco, perché sembra impossibile da domare. Così, l’auriga così tanto intelligente preferisce lasciarlo nella stalla più estrema, lontana dagli altri, tanto è intrattabile. Se può, fa addirittura finta che non esista. E invece c’è, è proprio lì, per nulla assente, anche se gli altri non hanno prova diretta della sua presenza, se non, forse, qualche nitrito in lontananza...
L’ipotesi di raggiungere la completezza della forma divina di cui Platone parla è remota, ammesso che sia desiderabile. D’altronde, senza un’integrazione delle nostre differenti parti mentali, saremo sempre frammentati, in difficoltà e sguarniti, sia come individui sia come specie. In effetti, la ricaduta sistemica dei dati emersi dalla meta-analisi di Elfenbein e Ambady riporta tutta la nostra inadeguatezza, dato che non siamo mai abbastanza allenati al portato delle emozioni e a gestire i suoi effetti sociali. Ci spaventano sia le conseguenze negative, sia quelle che, forse per pudore, consideriamo troppo positive: in generale, non le sappiamo esprimere così bene a parole e il nostro corpo tende a farle trapelare con troppa ingenuità, mostrandoci nudi a noi stessi e a chi sa ben vedere. Per questo dobbiamo coprirci, tendiamo a sottostimare la presenza delle emozioni, plaudendo alla loro artefatta assenza.
Una risposta a questa inadeguatezza, per chi volesse osare, sta nel conoscere e familiarizzare con quel cavallo un-po’-no , cercando le prove della sua presenza. Per esempio, potremmo dare a emozioni e sentimenti un nome preciso, sapere quali sono i loro inneschi e come decorrono, nella loro forma sana. Potremmo imparare a esprimerle in una forma accettabile, così da rendere gli altri e la società preparati a riconoscerle, includerle, gestirle e farne tesoro.
Ecco quello che ha fatto Silvia in questo prezioso suo libro: ha dato un nome proprio alle sue emozioni e ai suoi sentimenti. Nelle sue fotografie
ha cercato di dar loro il volto umano che hanno e che meritano, perché è bellissimo e naturale. Ci ha sfidati, con dolcezza e decisione insieme, a metterci al loro cospetto e a confrontarci con loro. Segno di una dimestichezza di cui tutti dovremmo dotarci, ha condiviso i suoi racconti intorno a ciascuna emozione, invogliandoci a costruire le nostre storie e a scattare le nostre fotografie emozionali.
Non so quali saranno le vostre, ma per me la fotografia di Paura
è " l’angolo conosciuto da cui combatto, perché non posso e non voglio più scappare , quella di
Soddisfazione non parla di balli, come per Silvia, ma
afferra il sole con le dita aperte, in cima a una montagna ".
Auguro a tutti di trovare la propria Empatia
, e suggerisco a tutti di scrivere una lettera alla propria Rabbia
. C’è tanto da imparare su di noi e sugli altri. Magari questo libro ci darà l’ispirazione e la spinta di cui abbiamo bisogno.
INCONTRA LE TUE EMOZIONI
Una storia di eroi
Quando ero piccola trascorrevo molto tempo da sola e mi piaceva riempire quelle ore scrivendo o leggendo o guardando serie televisive. La mia serie preferita era Buffy l’ammazzavampiri , un telefilm che ho guardato e riguardato più volte nel corso degli anni e che ogni tanto, quando sento il bisogno di fare il punto della situazione
e tornare sui miei passi, ancora riguardo con grande piacere.
Buffy era una semplice adolescente di provincia, ma non era una ragazza qualunque. Era la Cacciatrice, la persona prescelta a difendere il mondo dalle forze delle tenebre, vampiri e demoni di ogni sorta — un onere dal quale lei non voleva sottrarsi perché più che essere solo un compito, faceva parte della sua identità.
Certo, per Buffy sarebbe stato bellissimo potersi concedere il lusso di essere una ragazza qualunque, con dei normalissimi problemi da adolescente da affrontare invece che ritrovarsi, ogni volta, a dovere fronteggiare