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Elogio della Perplessità (e dell'Allegria)
Elogio della Perplessità (e dell'Allegria)
Elogio della Perplessità (e dell'Allegria)
E-book572 pagine5 ore

Elogio della Perplessità (e dell'Allegria)

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Info su questo ebook

Tutte le cose buone ridono, tuttavia, senza nessuna pretesa di insegnare alcunchè ad alcuno, tenteremo di raccontare anche la perplessa solitudine umana in questo nostro strano mondo osservandola da varie e contrapposte angolazioni e secondo il punto di vista di uomini illustri che l'hanno, a loro volta, vissuta e che abbiamo il piacere di leggere e l'onore di citare. Ognuno ne potrà poi trarre le conclusioni che gli sono più consone. Tutto ciò, sia per sciogliere che per rafforzare (perchè no?) i nostri dubbi, se è vero che, come diceva R. Char, "il dubbio si trova all'origine di ogni grandezza".
LinguaItaliano
EditoreAlfeo Zin
Data di uscita15 dic 2014
ISBN9786050342611
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    Elogio della Perplessità (e dell'Allegria) - Alfeo Zin

    Alfeo Zin

    Elogio della

    perplessità

    (e dell’allegria)

    Concept design e stampa: Dreossi & C.

    Via Pra’ di Risi, 17 Z.I., 33080 Zoppola (PN) - Tel. 0434 571796 www.dreossi.com - info@dreossi.com

    Prima edizione: maggio 2007

    Ristampa: settembre 2007

    Ristampa: dicembre 2007

    Ristampa: febbraio 2011

    Edizione 2011 - Pordenone

    © Dreossi Editore

    Tutti i diritti sono riservati.

    È vietata la riproduzione anche parziale dell’opera, in ogni forma e con ogni

    mezzo, inclusi la fotocopia, la registrazione e il trattamento informatico, senza

    l’autorizzazione del possessore dei diritti.

    Ogni riferimento a cosa o persona è puramente casuale.

    A Ivo Molmenti

    INDICE

    Introduzione....................................................... pag. 9

    Cap. 1 - Dell’amore ........................................... pag. 23

    Cap. 2 - Della sessualità .................................... pag. 39

    Cap. 3 - Del matrimonio ................................... pag. 67

    Cap. 4 - Dell’amicizia ........................................ pag. 93

    Cap. 5 - Del buon Dio....................................... pag. 115

    Cap. 6 - Delle religioni...................................... pag. 127

    Cap. 7 - Della società ........................................ pag. 161

    Cap. 8 - Della politica ....................................... pag. 185

    Cap. 9 - Del lavoro ............................................ pag. 207

    Cap. 10 - Dell’arte e della genialità................... pag. 233

    Cap. 11 - Dell’uomo grande e del piccolo.. pag. 261

    Cap. 12 - Della morte........................................ pag. 279

    Cap. 13 - Del senso…………............................. pag. 313

    Conclusioni ........................................................ pag. 329

    Introduzione(1)

    [] nella solitudine, luomo si divora da solo, nella moltitudine, lo divorano i molti. Ora scegli.

    (F. Nietzsche)

    Si dice che essere pieni di dubbi sia un segno inequi- vocabile di debolezza intellettuale; d’altra parte, vivere convinti che questo mondo sia un agglomerato di assolute certezze significa essere (eventualmente) un imbecille; la prudenza, quindi, suggerisce di astenersi dalle dichiarazio- ni perentorie.

    Ma, al di là di ogni ragionevole dubbio e di ogni cer-

    tezza, dovrebbe ormai essere chiaro ad ognuno come la nascita, la vita e la morte siano le cose più intime, private, personali dell’umana condizione.

    Pare infatti che nessuno possa nascere, vivere e morire al posto di un altro; sono cose, queste, così riservate che in fin dei conti, e in tutti i casi, ognuno se le deve sbrigare da solo.

    Quindi molto sbrigativamente, e senza letizia, potrem- mo affermare che la solitudine sembra essere una delle caratteristiche fondamentali della nostra esistenza; come possiamo essere certi che chiunque si lasci andare ad af-

    1 Tutte le note del libro (numerate) sono inserite a piè di pagina. Le lettere tra paren- tesi [es. (A)] si riferiscono invece alle citazioni e si trovano alla fine di ogni capitolo.

    fermazioni di tale ovvietà correrà il rischio di essere preso a calci nel ventre.

    Ma, se si danno per ovvie tali premesse, può sembrare curioso come la maggior parte delle persone, passi gran parte della propria vita cercando a tutti i costi compagnia: nell’amore, nell’amicizia, nel buon Dio, oppure in grandi, e a volte strani, ideali.

    Pare però che per molti (se non per tutti) questo biso- gno di compagnia, vissuto per lo più come mancanza, al- tro non sia che mancanza di conoscenza di Sé. Succede (a proposito di dubbi) che prima o poi ci si chieda: chi sono io?. Ciò significa che ci si è persi di vista e questo si verifica soprattutto nel periodo che va dall’adolescenza alla maturità (nel bambino e nel vecchio c’è in genere una mag- giore autostima, dovuta al naturale egoismo del bambino e alla saggezza acquisita del vecchio). Ed è curioso come una persona, a forza di sentirsi dire sei un babbeo, finisca per crederci davvero e, spesso, si comporti come tale anche se non lo è. Ciò dimostrerebbe ad sufficentia che non sempre dal valore ha origine la valutazione, ma che, a volte, è vero proprio il contrario, e cioè che è la valutazione sei un bab- beo ad originare il valore babbeo.

    Quanto detto infirmerebbe a priori sia la validità del giudizio degli altri che la necessità della loro compagnia, sia per chi vuole essere capito che per chi, attraverso gli altri, vuole capirsi.

    Pare infatti che il cercare compagnia sia molto spesso un cercare se stessi nell’Altro, il quale verrebbe utilizzato da ognuno come fosse uno specchio. L’Altro, riflettendo la nostra immagine (possibilmente gradevole), ci farebbe vedere la nostra vera identità: io sono come mi vede l’Altro o meglio, come desidero che mi veda; ciò mi dà sicurezza

    e mi rende quasi felice. Scriveva J. P. Sartre: «lo sguardo d’altri forma il mio corpo nella sua nudità, lo fa nascere, lo scolpisce, lo produce come è, lo vede come io non lo vedrò mai! L’Altro possiede un segreto: il segreto di ciò che io sono» (A). Purtroppo, lo svelamento di un tale segreto può riservare delle brutte sorprese, come ad esempio il già cita- to sei un babbeo; il che, all’apparir del vero, non sembra affatto gratificante.

    Ma nella solitudine la nostra identità va lentamente sfu- mando; non mi vedo più, mi sento perduto e... cerco di nuo- vo compagnia, con tutti i rischi che ciò comporta.

    Si sa che la paura della solitudine è molto spesso dovuta ad insicurezza, che altro non è che paura di noi stessi: della nostra debolezza, sia essa fisica, morale o intellettuale; in poche parole è paura di non farcela (da soli).

    È così che si origina spesso un processo di autocom- miserazione dovuto al travisamento di una realtà che, in assoluto, non è né buona né cattiva; è soltanto così comè, al di là di ogni fatalismo, o del riferire ad altro (al destino, alla sfortuna o al castigo divino) l’origine dei nostri guai.

    Molto spesso, infatti, siamo noi stessi a fare la realtà buona o cattiva, sia relativamente alle nostre convinzioni, che in assoluto. Scrive il filosofo P. Flores D’Arcais: «È solo l’uomo a decidere cosa sia il male, ma con tale decisione lo crea in senso pieno. Poi il male esiste» (B).

    Molto più semplicemente, si dice che ognuno può essere parte diligente per la soluzione di un problema, oppure, a causa dei propri dubbi, parte fondante del problema stesso. Se poi si cercano soluzioni in compagnia, quasi sempre si genera confusione, si complicano le cose, dimostrando a noi stessi e agli altri nient’altro che la nostra incapacità e debolezza; non aveva tutti i torti chi affermava: «Viviamo

    drammaticamente in un mondo che non è drammatico» (C).

    A scanso di equivoci, è chiaro che nessuno può negare l’assoluta necessità del rapporto con gli altri e l’arricchimen- to che deriva ad ognuno dal confronto interpersonale; l’uo- mo, si sa, è un animale sociale ed il suo alto grado di evolu- zione è dovuto essenzialmente alla sua socialità; è evidente, quindi, come l’Io e il Tu siano concetti interdipendenti.

    È risaputo poi quanto sia difficile trovare in noi stessi la forza fisica e morale per affrontare in solitudine l’avventura esistenziale; inoltre, non sempre nel dolore e nella solitu- dine si formano gli uomini migliori, anzi, a volte proprio i peggiori. A tal proposito il terribile Zarathustra di Niet- zsche sentenziava: «Nella solitudine si rafforza ogni cosa: anche l’interna bestia [...] La terra ebbe fin’ora alcunché di più sudicio di un santo nel deserto? Intorno a costui si sca- pricciava non soltanto il demonio, ma anche il maiale» (D).

    Del resto, la solitudine viene in genere considerata come una prerogativa di santi, anacoreti, vecchi misantropi o, ad- dirittura, come la via che conduce alla disperazione, senza tener conto minimamente che essa è parte costitutiva so- stanziale del nostro essere; una dote, quindi, che noi possia- mo utilizzare nel migliore o peggiore dei modi.

    È anche vero che i momenti più belli, più esaltanti, più spirituali, spesso si originano e si manifestano in solitudi- ne; per queste ragioni vorremmo rivisitarla, riconsiderarla nei suoi vari aspetti e sfumature, senza doverla necessaria- mente assimilare alla tristezza ed al dolore.

    D’altra parte, è risaputo quale equivoco spesso si celi dietro lo stare tutti insieme appassionatamente; osservava infatti M. Heidegger: «Ognuno tiene gli occhi addosso all’altro […] in un brulicante ed equivoco starsi a sorve- gliare reciproco […] Sotto la maschera dell’essere l’un per

    l’altro domina l’essere l’un-contro-l’altro» (E).

    Se poi vogliamo analizzare, pur superficialmente, come si vive e ci si relaziona nel caos del nostro tempo, in quest’orgia comunicativa dove… «ciascuno è spettatore- attore-autore della medesima soap opera, del convivere nel conformismo, del pensare medio che diventa pensare uni- co. La società senza Individui» (F), ci sembrerà abbastan- za condivisibile che una buona solitudine vada rivalutata, vissuta in positivo, accettata come normale all’esistenza. Di conseguenza, anche l’imprescindibile e naturale rapporto con gli altri dovrebbe essere vissuto, per quanto possibile, in modo sereno e costruttivo ma sufficientemente disin- cantato, tenendo presente quanto ha detto in proposito A. Machado: «Enseña el Cristo: a tu projimo, amaràs como a ti mismo, mas nunca olvides que es otro - Insegna il Cristo: amerai il tuo prossimo come te stesso, ma non dimenticare mai che è un altro» (G).

    Al destarsi dell’autocoscienza, l’uomo consapevole dice:

    Io sono un Io, ossia sono un individuo Unico e Irripetibi- le; in seguito, con amarezza, verrà anche a scoprire che IO significa SOLO! E sarà altrettanto solo quando dovrà fare le sue scelte, quando dovrà decidere come vorrà vivere: in una scialba quotidianità, tragicamente o gioiosamente, senza speranza o senza illusioni. Ma, obbietterà qualcuno, esistono l’amore, l’amicizia, gli Ideali, Dio…; verissimo, ma è anche vero che, molto spesso, proprio da lì si originano i nostri guai (e lo vedremo in seguito); e siamo anche convin- ti che avere dei sogni nel cassetto è molto importante, aiuta a vivere, anche se Kant non era dello stesso parere; diceva infatti, non ricordo dove: «… io, nel cassetto, ci tengo solo le mutande».

    A questo punto non vorremmo che tutto ciò venisse in-

    teso come irriducibile pessimismo; d’altra parte, qualcuno ha saggiamente detto che «l’ottimista vede solo il bello… e qui sta il brutto» (H); c’è poi da dire che la realtà è sempre in movimento e anche la cosiddetta verità è un concetto che si evolve e si modifica nel tempo e nello spazio, per cui ciò che ci sembra giusto (vero) qui-oggi spesso non lo è più là-o domani(2). È inevitabile, quindi, che il modo di pensare e le scelte che si operano debbano essere neces- sariamente adeguate al tempo e al luogo in cui ci si trova; del resto, pensarla per sempre allo stesso modo per coerenza può essere talvolta indice di grande stupidità.

    Per quanto detto, ci sembra opportuno ricordare chi, con sereno disincanto, ha affermato che «non esiste in genere che una possibilità per sopportare la vita: un certo grado di superficialità» (I). E, aggiungiamo noi, senza di- menticare il riso, il buon riso(3) e un pizzico di follia che ci possano far superare, ogni tanto, la nostra triste e se- riosa razionalità e ci facciano ritrovare l’esilarante umori- smo, la meravigliosa fantasia, il poetico non senso assapo- rabili, ad esempio, nelle parole del poeta cileno Vicente Huidobro: «Encontrè un pajaro desconocido que me dijo: si yo fuera dromedario no tendria sed. Que hora es? - Ho incontrato un passero sconosciuto che mi ha detto: se io

    2 Riguardo alle metamorfosi del significato: «… il pensiero non è una presa concet- tuale, il pensiero che si sviluppa non conosce il concetto che immobilizza, il vero pensiero resta in cammino. Il sistema è una pura trovata rassicurante» (M. Heidegger, Cosa significa pensare, Ed. Sugarco, 1988, pag. 216. Cit. anche da U. ECO in, Opera aperta, Ed. Bompiani, 1988, pag. 184)

    3 F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, Ed. Ghelfi, 1956, pag. 188: «… e sia per- duto per noi ogni giorno, in cui non danzammo almeno una volta! E falsa suoni ogni verità che non abbia saputo destare almeno una volta il riso…».

    fossi dromedario non avrei sete. Che ora è?» (L).

    Ci rendiamo conto come tutto ciò sia alquanto difficile da digerire per coloro che della vita hanno capito tutto, e possiamo facilmente immaginare il loro sguardo interroga- tivo e beffardo; del resto non c’è nessuna ragione che possa spingere un accumulatore di danaro o un assiduo frequen- tatore di discoteche (extasi inclusa) a recarsi una sola volta ai bordi di una scogliera per ascoltare il vento e la propria anima (se c’è) e, là dove singhiozza il mare, scoprire che «a lungo andare ne risulta qualche cosa per cui vale la pena di vivere su questa terra, come, per esempio, la virtù, l’arte, la musica, la danza, la ragione, lo spirito, qualche cosa che trasfiguri, qualche cosa di raffinato, di folle o di divino» (M) e poi (perché no?) andare anche in discoteca.

    Ma evidentemente (e per fortuna) non siamo fatti tutti allo stesso modo; ognuno ha il diritto-dovere di pensarla come gli pare e di vivere in pace con i propri simili, evitan- do certe pericolose commistioni; un po’ come sentenziava un vecchio e ignorante (?) contadino mentre governava i suoi animali: I polli devono stare con i polli, i conigli con i conigli, i porcelli con i porcelli, e… gli stupidi con gli stu- pidi. Parole che, con la loro ruspante saggezza, rinforzano quanto affermava Baudelaire: «... il mondo è fatto di gente che non può pensare se non in comune, a bande. Vi sono anche persone che non possono divertirsi se non in comiti- va. Il vero eroe si diverte da solo» (N).

    Ma l’uomo e il mondo sono degli esseri relativi e il prin- cipio del loro essere è la relazione; quindi anche se, come vedremo, l’amore, l’amicizia, gli ideali e Dio, continueran- no a produrre grandi entusiasmi (spesso seguiti da altret- tanto grandi delusioni), sarà forse opportuno cercare di vivere i suddetti rapporti con adeguate speranze e maggior

    disincanto e consolarsi considerando che, almeno nella so- stanziale solitudine di ognuno, gli uomini sono tutti uguali e vivono (prima o poi) gli stessi problemi esistenziali, spes- so assurdi e contraddittori.

    Ci rendiamo anche conto che «l’uomo a cui non piace nessuno è assai più infelice di chi non piace a nessuno» (O), per cui un certo scetticismo verso un eccessivo scetticismo può essere salutare e, a volte, necessario. Purtroppo, i rap- porti umani sono sempre ed inevitabilmente accompagnati da una certa conflittualità, in quanto ogni incontrarsi signi- fica, in fin dei conti, confrontarsi.

    Eppure, nei momenti di tristezza lo stare insieme può rappresentare la migliore soluzione: nelle feste, ad esempio, può succedere che ci si possa veramente divertire, anche se spesso, in simili occasioni, si è costretti ad osservare il na- scere di strane promiscuità, commistioni del tutto impro- babili e persone che, pur in compagnia, si sentono più sole che mai, tanto da farci considerare che, a volte, è meglio essere soli da soli che soli in compagnia(4).

    Si sa che in ogni situazione, nel bene o nel male, c’è sem- pre il rovescio della medaglia; le persone si incontrano per scambiare quattro chiacchiere, i propri pareri, le proprie esperienze, e spesso va a finire che si scambino le proprie solitudini, le proprie miserie, le proprie mogli, le proprie malattie veneree, fino ad arrivare ad un gratificante quanto liberatorio scambio di insulti.

    D’altra parte anch’io, come tutti, ho desiderato passare una serata in compagnia, e non di rado mi sono trovato, ob-

    4 G. BATAILLE, cit. in Micromega. Almanacco di Filosofia, Ed. Periodici culturali,

    1996, pag. 255: «… la festa, d’altra parte, è sempre per qualche aspetto una rievocazio-

    ne dell’infelicità; l’infelicità stessa ha una affinità segreta con la festa».

    torto collo (contro voglia), in simili situazioni e ho dovuto spendere il mio breve tempo conversando con un imbecille tutto gonfio delle sue certezze o, peggio ancora, con una virago determinata ad entrare a forza nella mia già difficile esistenza (... libera nos a malo – liberaci dal male!).

    Sempre in quei casi, sono stato colto da ardente deside- rio di andarmene e, a stento, ho trattenuto nella strozza il grido: povera umanità! Sulla via del ritorno, riflettendo sulla famosa formula chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo, mi sono risposto con le parole dell’umorista Pierre Dac: «Io sono Io, vengo da casa mia, e voglio tornar- ci al più presto possibile» (P).

    È nostra speranza che quanto è stato detto (e quanto di- remo in seguito) non venga considerato come una collezio- ne di detti e di sentenze(5), oppure una sorta di enigmistica tascabile, dato che ognuno avrà modo di notare la contrap- posizione di osservazioni molto spesso enigmatiche, se non volutamente contraddittorie. D’altra parte, crediamo che chi afferma una cosa e il suo contrario non sempre deb- ba essere per forza rinchiuso in manicomio. Quindi, senza nessuna pretesa di insegnare alcunché ad alcuno, tentere- mo di raccontare la perplessa solitudine umana in questo nostro strano mondo osservandola da varie e contrapposte angolazioni e secondo il punto di vista di uomini illustri che l’hanno, a loro volta, vissuta e che abbiamo avuto il piacere di leggere e l’onore di citare. Ognuno ne potrà poi trarre le conclusioni che gli sono più consone. Tutto ciò, sia per sciogliere che per rafforzare (perché no?) i nostri dub-

    5 L. BORGES, cit. in Micromega. Almanacco di Filosofia, Gruppo Editoriale L’Espres- so, 2002, pag. 51: «Constato con una specie di agrodolce malinconia che tutte le cose del mondo mi conducono ad una citazione o a un libro».

    bi, se è vero che, come diceva R. Char: «Il dubbio si trova all’origine di ogni grandezza» (Q).

    Alfeo Zin

    NOTE ALL’INTRODUZIONE

    (A) J. P. SARTRE,

    LEssere e il Nulla,

    Ed. A. Mondadori, 1958, pag. 447.

    (B) P. FLORES D’ARCAIS, Micromega. Almanacco di Filosofia, Ed. Periodici culturali, 1997, pag. 18.

    (C) J.G. SANTAJANA cit. da F. SAVATER in, Micromega. Almanacco di filosofia,

    Ed. Periodici culturali, 1996, pag. 224.

    (D) F. NIETZSCHE,

    Così parlò Zarathustra,

    Ed. Ghelfi, 1956, pag. 303.

    (E) M. HEIDEGGER,

    Essere e tempo,

    Ed. Longanesi & C., 1992, pag. 220.

    (F) P. FLORES D’ARCAIS,

    Micromega. Almanacco di Filosofia,

    Gruppo Editoriale L’Espresso, 1999, pag. 39.

    (G) A. MACHADO cit. da M. CACCIARI in,

    Micromega. Almanacco di filosofia,

    Ed. Periodici culturali, 1996, pag. 121.

    (H) R. GERVASO,

    Aforismi,

    Ed. TEN (Tascabili Economici Newton), 1994, pag. 90.

    (I) G. SIMMEL,

    Note postume,

    cit. da R. SAFRANSKI in,

    Micromega. Almanacco di filosofia,

    Gruppo Editoriale L’Espresso, 1999, pag. 231.

    (L) V. HUIDOBRO,

    La porte des poetes,

    Association Internationale «La porte cultures»,

    1991, pag. 42.

    (M) F. NIETZSCHE cit. da A. CAMUS in,

    Il mito di Sisifo,

    Ed. Bompiani, 1964, pag. 99.

    (N) C. BAUDELAIRE,

    Diari intimi,

    Ed. Dall’Oglio, 1957, pag. 663.

    (O) LA ROCHEFOUCAULD,

    Massime,

    Ed. TEN (Tascabili Economici Newton), 1993, pag. 63.

    (P) PIERRE DAC cit. da F. SAVATER in,

    Micromega, 5/98,

    Gruppo Editoriale L’Espresso, 1998, pag. 208.

    (Q) R. CHAR cit. da P. FLORES D’ARCAIS in,

    Micromega. Almanacco di Filosofia,

    Ed. Periodici culturali, 1996, pag. 222.

    DELL’AMORE

    "Il discorso amoroso è oggi di una estrema solitudine."

    (R. Barthes)

    Soltanto un inguaribile ottimista può credere, oggi, di po- ter dire alcunché di nuovo sull’amore, dato che, da che mon- do è mondo, si è già detto e scritto di tutto sull’argomento.

    Già nel quindicesimo secolo Giordano Bruno ironizza- va pesantemente su questo fatto: «…Ecco vergato in car- te, richiuso in libri, messo avanti gli occhi, e intonato agli orecchi, un rumore, uno strepito, un fracasso d’insegna, di motti, d’epistole, di sonetti, d’epigrammi, di libri, di pro- lissi scarfazzi, di sudori estremi, di vite consumate… per quegli occhi, per quelle guance, per quel busto, per quel bianco, per quel vermiglio, per quella lingua, per quel la- bro, per quel crine, quella veste, quel manto, quel guanto, quella scarpetta, quella pianella…» (A).

    D’altra parte, ognuno sa che l’uomo ha usato, usa tut- tora, e userà sempre l’amore come mezzo privilegiato, na- turale, apparentemente semplice e collaudato, per cercare compagnia; quindi deve esserci (e c’è) una ragion sufficiente che ci farà proseguire, probabilmente in eterno, sulla stra- da del rapporto amoroso.

    Ma che tale rapporto possa risolvere o meno il proble- ma della solitudine individuale rimane ancora, per molti

    23

    aspetti, da chiarire. Vediamo, allora, quali sono le origini di questo sentimento e quali sono le sue implicazioni ri- guardo la solitudine stessa.

    Cominciamo dal cosiddetto amore platonico: è il più pudico, il più spirituale delle varie forme d’amore; sembra quasi che ogni amante cerchi nella persona amata niente- meno che la propria anima, escludendo a priori la volgarità del rapporto fisico.

    Infatti l’amore e la brama del sesso sono sentimenti che si escludono a vicenda, tanto che il pensiero di un rapporto sessuale con l’essere amato è spesso considerato inconce- pibile dall’innamorato, il quale intravede in tale rappor- to uno scadimento del proprio ideale, quindi la negazione dell’amore stesso.

    Si direbbe che all’uomo particolarmente sensibile il so- vrapporre ad un amore spirituale l’amore fisico procuri un vago sapore d’incesto, proprio come affermava J.J. Rousse- au il quale, dopo aver posseduto M.me de Warens, scrive- va: «Je ne sais quelle invincible tristesse.: jétais comme si javais commis un inceste – … io non so quale invincibile tristezza… è stato come se avessi commesso un incesto» (B). Otto Weininger, a cui dobbiamo molte delle acute os- servazioni che troveremo di seguito, ha perentoriamente dichiarato: «Mente, o non ha mai saputo cosa sia l’amore, chi afferma di amare ancora la donna che egli desidera…» (sessualmente) (C).

    A chi asserisce che i due sentimenti (amore e desiderio sessuale) siano in fondo la stessa cosa facciamo notare che l’attrazione sessuale aumenta con la vicinanza fisica, men- tre l’amore è più forte che mai quando la persona amata è assente; una poesia di Eluard ce ne dà riscontro:

    24

    Je te cherche par delà lattente

    Je te cherche par delà moi-même

    Et je ne sais plus, tant je taime

    le quel de nous deux est absent (D)

    Io ti cerco oltre l’attesa

    Io ti cerco oltre me stesso

    E non so più, tanto io t’amo, quale di noi due sia l’assente.

    In questi versi sembra quasi che l’amore sia originato da una strana passione per lassenza della persona amata, e che questa passione sia un sentimento che si nutre di sé lo si può capire dalle parole del filosofo Sergio Givone: «Pas- sione dell’assenza è la nostalgia. Non di questa o quella cosa, ma assenza in quanto tale. Certo essa prende molti nomi e figure, secondo i gradi di una progressiva indeter- minazione: l’amata, la patria, il divino, l’ideale, l’assoluto… è bisogno che non vuole essere soddisfatto» (E).

    Una poetessa cilena, si esprime così, semplicemente ma efficacemente al riguardo:

    Buscame en el andèn de los trenes que parten, en los muelles que sobran,

    en los puertos perdidos () (F)

    Cercami nel marciapiede dei treni che partono, nei moli che emergono,

    nei porti perduti (…)

    Da quanto sopra, pare di capire che il vero amore non sia per nulla il luogo della vicinanza e del contatto fisico, ma piuttosto il luogo della nostalgia e di una solitudine quasi cercata e vissuta volontariamente.

    C’è un detto Islamico che dice: «lasciami solo, affinché il mio desiderio di te si accresca di giorno in giorno…». Ma questo vale forse di più per i rompiscatole piuttosto che per gli innamorati, la cui solitudine è da tutti facilmente

    25

    riconosciuta. Infatti, ciascuno nel periodo dell’amore di- venta diverso da quello che è; osservava R. Barthes: «Se il soggetto amoroso è solo, è perché egli si colloca contro il Mondo, in una situazione tale che egli è solo a vedere ciò che vede"» (G), soprattutto nella persona amata (a scan- so di equivoci, va ribadito che in questo capitolo parliamo esclusivamente di amore platonico).

    Si sa che nell’innamoramento i comportamenti e le rea- zioni dell’uomo e della donna sono alquanto differenziati; ma, per quanto riguarda l’innamorato maschio, c’è da os- servare che, spesso, la situazione degenera in atteggiamenti per certi versi tragicomici: «Per molti, l’amore comincia con le peggiori accuse verso se stessi, con tentativi di mor- tificarsi e far penitenza (atteggiamento ascetico). Comincia talvolta con un rivolgimento morale e sembra che la donna amata emani una purificazione interiore, anche se non si è mai parlato con lei, o la si è veduta pochissime volte… essa è spesso una ragazza giovanissima, priva di fascino e di esperienza, altre volte un’idiota, spesso una civetta volut- tuosa, che in genere, tranne colui che l’ama, nessuno trova dotata di qualità sovrannaturali…» (H).

    Ciò viene confermato da questa acuta analisi: «Sia che si senta colpevole nei confronti dell’essere amato, sia che voglia impressionarlo mostrandogli la sua infelicità, il soggetto amoroso abbozza una condotta ascetica di auto- punizione». (I)

    L’ascesi è rivolta all’altro: «voltati, guardami, renditi con- to di cosa stai facendo di me. È un ricatto morale: io metto di fronte all’altro la figura della mia propria scomparsa…» (L). Negli anni cinquanta Nino Taranto, in un’ironica can- zonetta, così cantava ad Agata:

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    Agataguarda, stupisci, come è ridotto questuomoper te

    Ora, se vogliamo guardar bene, tutte queste forme di ascesi sono moralmente riprovevoli, sia in linea di principio che come disposizione psicologica; l’uomo non capirà mai abbastanza quali imperdonabili errori stia commettendo con simili atteggiamenti: il primo nei confronti di se stesso, in quanto in quel tipo di amore egli diventa un mendìco e la sua è la più vergognosa delle preghiere; il secondo è

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