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Il male quotidiano: Incursioni filosofiche nell'horror
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E-book378 pagine5 ore

Il male quotidiano: Incursioni filosofiche nell'horror

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Info su questo ebook

In ogni sua forma l’horror ha il coraggio di svelare ciò che suscita paura e disgusto, sperimentando con la narrazione, osando spingersi oltre i confini della nostra consueta percezione della realtà. Questa è la sfida che lancia alla riflessione filosofica e che è opportuno accogliere, indagando il funzionamento di un genere paradossale e indefinibile, pure così tanto vicino da toccare l’intimo del reale che siamo.
LinguaItaliano
EditoreRogas
Data di uscita3 mag 2022
ISBN9791221326574
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    Anteprima del libro

    Il male quotidiano - Davide Navarria

    Avvertenza

    La complessa ricchezza della narrazione horror ci ha posto di fronte a una sfida importante, rispetto alla quale abbiamo deciso di rispondere con le nostre migliori risorse: selezionando e sperimentando. Chi apra questo libro con la speranza che vi venga offerta una panoramica esaustiva sul genere non può che restarne deluso, come delusi d’altronde saremmo stati noi del nostro lavoro se si fosse piegato alla presunzione dell’onniscienza, ambendo non solo a riepilogare ogni manifestazione significativa, bensì anche a rifletterne con cognizione di causa. La strada che abbiamo scelto di percorrere consiste piuttosto nel costruire delle possibili rotte nell’immenso oceano dell’orrore, soffermandoci di volta in volta su quelle opere che, secondo noi, mettono meglio in scena alcune questioni urgenti, provocando il pensiero e la risposta, pratica prima che solo teorica, del loro fruitore. Scriviamo fruitore e non spettatore perché nonostante la predominanza netta di film e serie TV , la nostra scrittura ha incrociato anche altre forme espressive del genere, come la letteratura e il videogioco, adottando quindi una prospettiva cosiddetta transmediale, senza presumere neanche qui alcuna esaustività. Ci interessava scavare ed esplorare più che mappare. Quanto ci sia riuscito di rilanciare il dialogo filosofico di queste narrazioni, spetta al nostro interlocutore valutarlo. Noi lo lasciamo al nostro mostruoso tentativo ammonendolo che è irto di anticipazioni e dettagli scabrosi, ma che speriamo ciò lo invogli ancora di più ad aprire questa porta.

    Orrore: provarlo, pensarlo

    – Che facciamo?

    – Perché non aspettiamo qui ancora un po’… e vediamo che succede?

    – Sì…

    Due uomini esausti, contemplando il loro futuro incerto e la loro caducità, decidono di restare in attesa di eventi che hanno ormai accettato di non poter controllare. Sembra quasi di poter leggere una nota di speranza nel loro fatalismo, che potrebbe benissimo concludere una qualunque pellicola intimista, vagamente esistenzialista, socialmente impegnata ma attenta alla dimensione psicologica dei protagonisti. In effetti, si tratta proprio del finale di un film del genere, che tuttavia ha anche, soprattutto, la caratteristica di essere uno dei migliori horror di sempre: La cosa di John Carpenter (1982). La sua grandezza si misura secondo quelle coordinate in parte manifeste e in buona misura impalpabili che decretano la magnificenza di qualsiasi opera d’arte, ma si lascia altresì comprendere molto bene se si fa riferimento alla sua capacità di ristrutturare un linguaggio che travalica il genere, affondando le proprie radici nella trama di Dieci piccoli indiani di Agatha Christie (1939) ed essendo stato ripreso da altri, come Quentin Tarantino nel suo, tutt’altro che horror, The hateful eight (2015).

    Per definire qualcosa come tutt’altro che horror sarebbe tuttavia necessario aver in primo luogo chiarito che cosa l’horror sia. Provarci significa però addentrarsi in un terreno melmoso, scivoloso, dominato dall’oscurità più che dalle chiare certezze, in cui forma e contenuto quasi fanno tutt’uno e ci impastoiano in un meccanismo di sabbie mobili e nodi scorsoi, da cui non usciamo davvero bene. Fuor di metafora, il fallimento del concetto, inteso come termine che definisce qualcosa in maniera univoca e incontrovertibile, è un’esperienza piuttosto frustrante e a tratti dolorosa, che chiunque sia abbastanza onesto circa le proprie capacità intellettuali compie con cadenza quasi quotidiana. Non è necessario essere filosofi per accorgersi che la realtà è molto più complessa di qualsiasi nostro sforzo per definirla e, quindi, pensarla e comunicarla. Ma essere filosofi non è nemmeno sufficiente per riconoscerlo. Anzi, per lo più la filosofia è stata praticata come chiave di risoluzione dell’esistente, come disciplina, cioè, capace di ridurre il reale tutto a segmenti comprensibili, formule efficaci, suggerimenti pratici, indicazioni teoriche, liberandoci dal peso della sua complessità, dalla sua insostenibile irriducibilità. Per farlo, la riflessione filosofica ha dovuto porre l’uomo che filosofa, e con lui l’umanità tutta (o quasi tutta), in una posizione privilegiata, quasi come se non appartenesse davvero a quella realtà che lui, e soltanto lui, può vedere e comprendere. Senza avere la presunzione di riassumere l’intera storia del pensiero occidentale in poche righe, è opportuno chiarire come una certa presunzione del filosofare nei confronti del mondo si regga sulla profonda illusione di non esser parte di questo stesso mondo, d’essere altro o di altra natura. Questa finzione si regge sullo svilimento e la cancellazione di tutto ciò che fa del soggetto umano una porzione di realtà: la sua fallibilità, la sua caducità, la sua corporeità. Proprio quelle caratteristiche che l’horror, per dirla con un francesismo molto efficace, mette a giorno.

    Mettere a giorno la notte come dimensione della vulnerabilità dell’esistenza è allora ciò che accade in quel genere, qui ancora indefinito, che è l’horror. Piuttosto che interrogarsi sulla sua natura in termini di « che cosa è» potrebbe essere allora più proficuo, e magari interessante, provare a considerare « come è» [1] . In questa prospettiva, la natura dell’horror si può meglio inquadrare come una modalità narrativa che prende le mosse proprio dal mostrare la nostra costitutiva insufficienza. Senza tatto alcuno, in maniera implacabile. Quasi come fosse la verità stessa a mettersi all’opera, per mostrare che la verità che ci appartiene è in realtà il bisogno di credere che qualcosa come la verità esista, mentre, in realtà, abbiamo solo la realtà, e tanto basta. Anzi, è pure troppo. Con questo troppo, questa eccedenza di reale e di complessità, l’horror gioca contro l’insufficienza umana, mettendo in scena l’eccesso di ciò che, in modo più essenziale, viviamo con cadenza quasi quotidiana: il fallimento di ciò con cui credevamo di dominare il reale e, insieme, la consapevolezza che del reale, imprendibile, incomprensibile, irriducibile, siamo parte anche noi.

    Un’appartenenza che si configura come insfuggibile e che per questo ci angoscia, prima ancora di spaventarci. Abbiamo sempre paura di qualcosa di definito, ma è ciò che sfugge ogni possibilità di definizione ad angosciarci. Come sentirci intrecciati a ciò che non solo non possiamo comprendere, ma nemmeno conoscere, e che ci penetra dentro, anzi è già da sempre stato il nostro dentro, non meno del nostro fuori. Sentirci, non saperci: non è la coscienza razionale della nostra realtà, della nostra appartenenza al reale a mancarci, bensì la consapevolezza, quell’atteggiamento conoscitivo che investe in egual misura ogni componente della nostra soggettività, la cui dimensione plurale, composita, integrata, si palesa proprio nel momento in cui diventiamo consapevoli della limitatezza della nostra coscienza, della complessità della nostra realtà.

    Questo farsi consapevoli è ciò che l’horror mette in scena e così facendo ci mette in corpo. Passa infatti per la nostra esperienza corporea l’efficacia della sua narrazione, che non può lasciarci indenni. Che si tratti di una lettura o di una visione, lo sconfinamento tra la realtà narrata e lo spettatore deve poter accadere, affinché la stessa narrazione si dia: la pelle deve accapponarsi perché l’orrore, letteralmente, sia. Dobbiamo essere coinvolti da quanto vediamo, per quanto improbabile sia, dobbiamo lasciarci coinvolgere, non solo perché, come per ogni finzione, dobbiamo saper sospendere la nostra incredulità, ma soprattutto perché dobbiamo renderci vulnerabili a quanto qualcun altro subisce. Fruire l’orrore, in ogni sua forma, significa allora provarlo, prima ancora che pensarlo, sebbene anche il pensiero sia sempre, già da sempre, coinvolto.

    Non solo perché il pensiero insieme al corpo già da sempre ci costituisce, ma perché le connessioni tra queste due dimensioni sono tali da poter essere percorse in entrambe le direzioni: esiste un pensiero sul corpo, che da questo prende le distanze, per provare a prenderne il controllo, ed esiste un pensiero dal corpo, troppo a lungo tacitato, che del primo è la più pulsante e vitale componente, ciò che ci tiene, letteralmente, insieme. Così, come qualcosa di intero e integro, facciamo i conti con lo smembramento che l’horror mette in scena a ricordarci della nostra corporeità, della nostra concretezza, della nostra limitatezza e offrendoci nel contempo l’esperienza incarnata di un pensiero che si confronta con l’angoscia del reale che siamo. Un esperimento che è quasi un allenamento, a trovare la nostra posizione e la nostra forza, per quando l’improbabile che si trova sullo schermo si presenterà, senza schermo alcuno, nella nostra esistenza, per quando cioè la nostra vulnerabilità carnale sarà per noi così palese che non potremmo continuare a considerarla irreale.

    Una complessa stratificazione di realtà e finzione, che si produce anche quando l’horror resta lo strumento con cui ancorarci a questa negazione, relegando al regno del mostruoso e del fantastico la dimensione più concreta del nostro esistere corporeo. In questa prospettiva, l’unico vero lieto fine dell’horror è la possibilità di ritornare al reale senza finzione, fingendo che in quella finzione non ci fosse nulla di reale. Anche se non è così: nella continuità perfetta tra tessuto dell’esistenza e quello della narrazione, la sospensione delle preoccupazioni immediate del vitale, che ogni fruizione di opere d’invenzione comporta, crea l’illusione che si tratti di qualcosa d’altro. I toni e i modi dell’implausibile ci convincono che quanto leggiamo e vediamo non possa accadere e non sia dunque reale. Eppure, nella sua capacità di toccarci, al punto da farci avvertire la nostra stessa vulnerabilità insieme a quella di coloro che nell’horror sono minacciati, colpiti, uccisi, l’orrore rivela la sua omogeneità rispetto al reale che viviamo e che siamo, in un modo che ci è familiare.

    C’è in altre parole un punto di contatto, che passa per l’esperienza fisica dell’angosciato terrore, ma che si nutre, a livello di costruzione narrativa, di un coacervo di riferimenti noti capaci di creare una comunicazione efficace con lo spettatore. Di parlargli. Di toccarlo. D’altronde, non è forse già un orrore la storia di quella bambina che per smettere ai suoi piedi di danzare nelle splendide scarpe rosse dovette farseli amputare? E la vicenda delle mogli di Barbablù, ormai resti di donne che furono, atrocemente dilaniate, una dopo l’altra, dal marito? E la leggenda dei changeling, calata nella contemporaneità dalla regia di Eastwood, è davvero meno terrificante delle storie di madri che, in un modo non casuale su cui torneremo, invadono molta della produzione horror? E, in fondo, sono questi racconti altro che una maniera di parlare di ciò di cui non si può parlare, di intimare di tacere di ciò di cui si vorrebbe gridare?

    Come la fiaba, ma senza la sua volontà educativa e la sua disciplina narratologica, l’horror è la prosecuzione della vita con altri mezzi, all’incrocio tra due tendenze contrapposte, che qui tendono a coincidere, quella che usa la finzione per accrescere l’illusione e quella che la vive per aumentare la percezione del reale. Una contradditorietà che spaventa molto più dei contenuti dell’horror stesso: chi non li guarda non teme infatti di essere spaventato dai mostri, ma di cominciare a vederli nella vita reale. O, che è davvero lo stesso, a riconoscerli. Anche nella realtà che si è.

    Perché il vero orrore è sempre la realtà. Soprattutto la realtà che si è e che, non diversamente dal contesto reale che ci circonda, sfugge alla nostra comprensione, al nostro controllo, alla nostra direzione, imponendosi dispoticamente, violentemente, atrocemente. L’orrore più profondo è quello che nella finzione muove le labbra di Kurtz in un mormorio agghiacciante e mortifero – «L’Orrore! L’Orrore!» –, quello che nel reale deforma i volti di chi ha visto il terrore farsi realtà, farsi bomba, farsi mutilazione, farsi accanimento contro l’integrità dei corpi e di chi questi corpi erano. Senza scopo umano che non sia quello troppo umano di realizzare l’orrore per esorcizzare il reale della propria finitudine, di combattere l’angoscia provocandone, di emanciparsi dall’inestricabile appartenenza alla realtà provando a dominarla con il terrore. Con altri mezzi, è proprio ciò che facciamo nella produzione e nella fruizione dell’horror.

    Questo è lo snodo, il punto di contatto che il racconto si incarica di mediare affinché possa raggiungerci senza distruggerci, come altrimenti accade nel reale. La consapevolezza di quanto sia reale questo nostro essere reali, impregnati di un’oscurità che nessuna luce emenda, di una vulnerabilità che nessuno scudo tutela. Di essere noi anche nei recessi di ciò che non appartiene o che non lasciamo appartenga alla nostra coscienza razionale: il nostro inconscio assassino, parricida, matricida, vendicativo, seviziatore, il nostro corpo viscido, pulsante, pieno di secrezioni, scarti, sangue. E per tramite di questa realtà che siamo e non possiamo isolare da un presunto «noi» più autentico, sentirsi mescolati al resto del reale e dell’umano, senza possibilità di distinguersene davvero.

    Tutto questo costituisce una tale sfida al pensiero che la riflessione filosofica non può abdicare al compito di affrontarla, sporcandosi le mani e ricordandosi così di avere un corpo. Questo pensare incarnato, tremante, disgustato, vivo è la prospettiva che proponiamo come alternativa rispetto alla pur straordinaria analisi tecnico-estetica che caratterizza la maggior parte dei saggi all’intersezione tra filosofia e horror. Ripercorrere le trame che tessono il testo del reale (e) della narrazione è piuttosto lo scopo del presente lavoro, per ottenere il quale abbiamo dismesso ogni smania di controllo e onnipotenza, rinunciando anche, da un punto di vista metodologico, alla ricostruzione rigorosa di ogni contributo, narratologico o saggistico sia mai stato fornito alle tematiche che abbiamo individuato come portanti. Lungi dal proporre una rassegna fenomenologica, la nostra metodologia di indagine si concentra sulla possibilità di muovere delle incursioni sull’horror, nelle sue molteplici forme, a partire da un reale che gli è affine in un modo che è la stessa narrazione orrorifica a palesare. L’auspicio è quello di mettere in luce il potenziale filosofico insito nel funzionamento di questo stile di scrittura filmica, testuale, videoludica, grafica, vale a dire nella sua capacità di istituire un legame esperienziale con lo spettatore partecipante, traendolo nella notte che già da sempre lo abita [2] .

    [1] Molti dei lavori critici sull’horror muovono da una definizione del genere, coniandola o accogliendola da altri. Il problema di questo approccio, oltre a essere proprio di un certo modo di fare filosofia in cui non ci riconosciamo pienamente, è l’inevitabile esclusione di alcune narrazioni che funzionano come horror, sia che si muovano ai margini di questa modalità di messa in opera, sia che se ne allontanino più nettamente (è quanto accade, per esempio, in un testo fondamentale come N. Carroll, The Philosophy of Horror or Paradoxes of the Heart, Routledge, London/New York, 2004, in cui il filosofo è portato dalle sue stesse scelte a escludere dal genere un film come Lo squalo ‒ cfr. ivi, pp. 12 ss., soprattutto p. 37).

    [2] Nonostante questo lavoro muova da un’unica intenzione e sia frutto di un’intensa collaborazione, abbiamo proceduto a una stesura separata delle diverse sezioni, poi integrate dal confronto insieme. In particolare, Davide Navarria ha scritto i capitoli I, II, III e la conclusione, Selena Pastorino la presente introduzione e i capitoli IV, V, VI.

    Capitolo I - Il mondo sanguina

    La notte sogno Apollo che porta un messaggio lirico/Ma si ubriaca al primo bicchiere di dionisiaco.

    Rancore, Centro asociale

    Ah, disse lo svedese, voltandosi e ridendo, tu sì che sai dare una spiegazione a tutto.

    A. Blackwood, I salici

    Quella bestia è al di sopra delle nostre forze. Non è una cosa reale o naturale.

    P. Benchley, Lo squalo

    [Visione]: Gli umani sono strani, credono che l’ordine e il caos siano in qualche modo opposti, e cercano di controllare ciò che non si può. Ma c’è della grazia nei loro fallimenti e questo non lo hai compreso.

    [Ultron] Sono spacciati.

    [Visione]; Sì, ma una cosa non è bella perché continua nel tempo; è un privilegio essere tra di loro.

    Avengers. Age of Ultron

    1.1. Penso, dunque sono spacciato

    Il mondo è perlopiù un posto orribile e la realtà, in molte occasioni, intollerabile. Ammettiamo dunque la verità: l’ hashtag «andrà tutto bene» è una cagata pazzesca. Non andrà sempre e comunque bene, presto o tardi moriremo e nel frattempo molti di noi vivranno male, afflitti da un’ampia gamma di dolori psico-fisici, in miseria materiale, spirituale o entrambe, vittime innocenti di sporche guerre e atroci malattie o «semplicemente» infelici perché irrealizzati e privi di scopi, depressi e annoiati, morti dentro – Walking Dead.

    C’è poco da stare allegri: che esista o meno un felice e compiuto aldilà del mondo, il nostro mondo è spesso insopportabile. [1] La strategia più diffusa per fronteggiare questa merdosa evidenza prevede la costruzione di sistemi di contenimento teorico-pratici, esorcismi protettivi in grado (a volte) di porre un argine quantomeno psicologico all’inquietante mistero che ci sovrasta. È il frutto coerente della pulsione a consolare che ci contraddistingue come specie. «Ma no, non è un inferno, ci sono tante oasi di paradiso!» Sarà, ma intanto tutto continua a rovinare inesorabile, e noi ce la facciamo giustamente addosso.

    In un angolino del nostro cervello echeggiano e rimbombano le parole di Arthur Schopenhauer, Jean Paul Sartre, Franz Kafka, Friedrich Nietzsche e molti altri protagonisti della storia del pensiero che hanno scosso le solide certezze dell’Occidente. Parole scomode, che ci costringono a fare i conti con la morte di Dio, la fine delle grandi narrazioni e il fallimento di quelle micro. Ma soprattutto, cosa ancor più spaventosa, ci inchiodano faccia a faccia con i nostri stessi demoni.

    Il Novecento: secolo dis-astroso per eccellenza. Noi siamo i fortunati eredi di un’oscura tornata storica, destinati a raccogliere i cocci dell’apocalittico collasso.

    Lo sentite anche voi questo ritmo crescente? È il Balrog di Morgoth che emerge dall’oscurità in un tripudio di ombre, fiamme e cattiveria, lanciate contro l’intrepida Compagnia dell’Anello. È sempre la stessa storia: caos e cosmo, ordine e disordine, essere e divenire, cronache di ghiaccio e fuoco. Una battaglia costantemente rinnovata.

    Noi, certamente, facciamo il tifo per i buoni, e stiamo dalla parte del bene. Ma questo non semplifica le cose perché a un livello più profondo, strutturale, l’armonia non è generata che dal perenne contrasto tra gli opposti, e il fragile equilibrio dell’universo si raggiunge solo attraverso il conflitto. Polemos [la guerra] è padre di tutte le cose, di tutti re. [2]

    Eterno e inconciliabile dissidio tra flusso caotico del divenire e confortante (e illusoria) staticità dell’essere. Un dinamismo che si svolge là fuori, ma anche nella nostra testa. Caos e cosmo: Eraclito e Dioniso da una parte, Parmenide e Apollo dall’altra. Se i primi due avrebbero apprezzato le scene più truculente e intollerabili di Martyrs, Saw, Non aprite quella porta, senza chiudere gli occhi né distogliere lo sguardo, i secondi avrebbero agito diversamente.

    E dunque: l’horror sta dalla parte del caos o del cosmo? È vocazione a sconfiggere i mostri, sciogliere gli enigmi, rischiarare le tenebre? Spesso è così. Ma se fosse solo questo, come spiegarci la costante riapertura delle ferite, il male che ritorna all’assalto nell’ultimo fotogramma della pellicola, il ghigno malefico stampato sul volto del protagonista «buono» infine contagiato dalla depravazione, che profana e turba le nostre ingenue aspettative?

    Forse l’horror non è dalla parte dei buoni né da quella dei cattivi, non sta con Dio né con Satana. Semplicemente non si schiera: si piazza nel mezzo, e se la ride beffardo. Siamo noi moderni, dualisti e manichei, ad aver perso la capacità di cogliere la segreta intimità tra gli essenti, l’intricato tessuto ontologico che Eraclito e Nietzsche, Lovecraft e Cronenberg, in modi e tempi diversi, hanno portato alla luce nell’unico modo possibile: scavando nelle tenebre.

    1.2. L’uomo tragico. In equilibrio tra caos e cosmo

    Tali cose non possono accadere in questo mondo tranquillo, in cui uomini e donne vivono e muoiono, combattono, trionfano, o forse falliscono e cadono preda del dolore, e si affliggono e patiscono strani destini per molti anni… Ma non questa, Phillips, non cose come questa. Ci dev’essere una spiegazione, una via d’uscita da questo terrore. Perché, vecchio mio, se una cosa del genere potesse accadere, il nostro mondo sarebbe un incubo.

    A. Machen, Il grande Dio Pan

    In Nascita della tragedia Nietzsche ha individuato in Euripide e Socrate gli «assassini» dello spirito vitale che innervava la tragica e armonica bellezza dello spirito greco. Per il filosofo tedesco, nella civiltà ellenica si sarebbe a un certo punto raggiunto un magico e delicatissimo equilibrio tra forza e forma, essere e divenire, caos e cosmo. In una prima fase della loro produzione culturale, i greci sarebbero stati in grado di sopportare la cruda brutalità del caos, senza per questo disprezzare l’ordine e la bellezza della forma. Ecco l’uomo tragico: un soggetto in grado di contemplare il cielo azzurro e cristallino, come di fronteggiare il volto orrido e spaventoso dell’abisso, senza nascondere la testa sotto la sabbia o invocare iperuranici conforti.

    Un equilibrio destinato, per Nietzsche, a non durare. Il Socrate platonico, con la sua insistenza su logos, razionalità e ordine avrebbe attribuito forma stabile alla forza pulsante e diveniente dell’essere, tentando di ingabbiare la vita pulsante in una definizione univoca e comprensibile, rimuovendo ogni elemento mostruoso e incontrollabile dall’esistenza. L’abisso del caos chiuso e sigillato, come gli dèi primigeni e i titani scacciati dall’Olimpo. Socrate: un terrorista della logica e del concetto.

    Euripide, dal canto suo, conferendo una struttura lineare e coerente a trame e personaggi delle sue opere avrebbe soffocato l’imprevedibile sviluppo degli eventi, trasformando l’accidentata narrazione del dramma umano in un cerchio chiuso e definito. Nelle sue storie il realismo della vicenda si sarebbe sviluppato in direzione di una composizione finale dei singoli avvenimenti. Così, alla fine, tutto torna. E la vita smette di essere interessante. Questa, in estrema sintesi, la diagnosi di Nietzsche.

    A fronte di tale diagnosi, la cura proposta dal filosofo è nota: torniamo a Dioniso, tuffiamoci nel caos e sguazziamo nell’abisso, perché l’esistenza è abisso. E balliamo nudi, senza pudore, come il temibile giudice Holden di Cormac McCarthy. [3] La vita è un flusso e noi dobbiamo assecondarne il gioioso seppur doloroso movimento. Siamo invitati a ridere in faccia alla morte godendo senza rimorso dell’attimo glorioso, perché il destino di ogni qui e ora coincide con il suo eterno ritornare.

    Se ci collochiamo nella prospettiva dell’hegelismo scopriamo qualcosa di analogo a quanto prospettato da Euripide. Hegel ci presenta una realtà in travaglio, ferita e sanguinante – ecco il caos – che si realizza un passo alla volta attraverso lo scontro, la fatica, le guerre e le logomachie, ma che infine giunge felicemente a compimento – ed ecco il cosmo.

    I titoli di coda della realtà trasudano razionalità, ordine, compiutezza. Lo Spirito Assoluto, la Ragione Cosmica che si è dipanata nel corso dei secoli, dall’aurora dello spirito greco per planare infine nelle pagine della Fenomenologia dello Spirito, è finalmente auto trasparente evidenza, Realtà in sé e per sé. Punto. La filosofia scioglie(rebbe) così l’enigma dell’esistenza. Alt, fermiamoci un attimo: non è forse l’esatto opposto di quanto avviene, normalmente, in un horror che si rispetti?

    Al termine di una storia dell’orrore non ci attendono né il «vero» né, tantomeno, la risoluzione dell’Enigma. Permangono piuttosto inquietudini, dubbi, nodi irrisolti.

    Troneggia, nell’ horror, l’anello che non tiene, la non-pacificazione delle contraddizioni, l’Altro, il Mistero. La lacerazione permane, il reale non è sanato, ma persiste in stato d’emergenza, precarietà, naufragio. In Hegel il cerchio del reale si chiude con un happy ending cosmico. Invece, noi sappiamo che la verità è un’altra. La verità dell’orrore, quella che ci terrorizza, e che tuttavia sola ci interessa: il cerchio non si chiude, la ferita si apre e riapre incessantemente. Il mondo sanguina.

    1.3. Tutto è contaminato

    Era sorta in lui la speranza tentatrice di una porta che si aprisse sull’altrove, e che, una volta trovata, immettesse il viaggiatore nelle profondità del­l’ignoto, i cui echi risuonavano tuttora nel fondo della sua memoria. Forse la porta si trovava nel mondo visibile, forse era solo nella sua mente e nell’anima. Probabilmente nella metà inesplorata del suo cervello si nascondeva il misterioso legame che l’avrebbe svegliato contemporaneamente a vite passate e future, in dimensioni dimenticate; il legame che lo avrebbe unito alle stelle e alle infinite eternità che si stendono oltre… [4]

    H.P. Lovecraft, Tutti i racconti

    Il problema è che questa vita non è un puzzle – metafora inefficace e fuori misura –, perché i singoli tasselli cozzano, non s’incastrano facilmente, non s’incastrano punto. E quelli centrali li hai persi. Morale della favola: non è possibile imprigionare l’esistenza nei rigidi confini di una vicenda ordinata dove alla fine tutto torna. Nessun happy ending alla Walt Disney. Non ci sono regole, fondamenti, nature pregresse, la vita si vive day by day: l’essenza non precede mai l’esistenza diceva Sartre, è piuttosto il contrario.

    È illusorio e fuorviante immaginare un modello preconfezionato, idea perfetta e compiuta di «umanità» che ognuno di noi dovrebbe poi realizzare nell’arco della propria vicenda personale. [5] Essere al mondo coincide col venir gettati in un abisso senza appigli. «Esistere»: un verbo irregolare fino all’illegalità, che non trovi fino in fondo «spiegato» in alcun libro di testo. L’horror (quello serio), allestendo una scena nella quale tali dimensioni emergono in modo esplicito o per il tramite di allegorie e simboli, può farsi potente alleato della verità dell’esperienza. Una verità scomoda e urticante, schietta e brutale, dura come la pietra e accecante come il fulmine. Eccedente gli argini del logos e trasudante pianto e stridore di denti.

    Vita umana è tensione asintotica imperfetta e sgrammaticata – addirittura a-grammaticale. Una perpetua notte del giudizio, H24, esposizione costante all’epidemia che è l’aria stessa che respiriamo, più letale del virus globale che ha sconvolto le nostre comode routine. In Breaking Bad Walter White, dopo aver inutilmente tentato di cacciare dal suo laboratorio una mosca che minacciava d’interferire con l’ambiente asettico e protetto (rovinando così la cristallina perfezione della blue sky), rinuncia infine a perseguire il paranoico obiettivo di preservare la purezza del suo cosmo, riconoscendo infine che «Tutto è contaminato». [6]

    Il virus, come il terremoto, la guerra, la mosca o il naso irregolare di Vitangelo Moscarda [7] sono tutti particolari odiosi e imprevedibili che evidenziano ed estremizzano la struttura già disordinata, ingiusta e (in prima battuta) insensata del nostro presunto cosmo. Non richieste lenti d’ingrandimento, che ci costringono a mettere a fuoco un rimosso che riemerge trionfante.

    La vita è ingiusta. Eppure ci ostiniamo a lottare per tenere fuori l’oscurità della notte buia e senza stelle, mentre il vento soffia impietoso e i lumicini si spengono uno dopo l’altro, e noi restiamo sempre più soli. Da soli o in compagnia dell’uomo nero.

    Eppure siamo ancora qui a cercare di farci forza gli uni gli altri, fronteggiando orrori quotidiani come si può e si riesce, perché siamo illogicamente convinti, come l’hobbit Samvise Gamgee, che ci sia del buono in questo mondo, e che è giusto lottare per questo.

    Non ho mai prestato molto credito al nichilismo – che in questa versione Nietzsche qualificherebbe come incompiuto –, e chiunque continui a respirare, bere e mangiare dopo aver dichiarato che nulla ha senso è solo un vigliacco o un mentitore, o entrambe le cose. Ma non ho mai nemmeno creduto fino in fondo a una provvidenziale rete di salvataggio pronta ad afferrarci al volo prima del fatidico impatto mortale con il suolo. Credo piuttosto che la stranezza assoluta della vita, la sua perturbante weirdness risieda nella necessità di convivere in qualche modo – nessuno sa come – con i due ingredienti fondamentali dell’essere: il caos e il cosmo. Il mondo ha una struttura «caosmica», un intreccio inestricabile delle due forze, un ordito sfilacciato e incoerente di perpetua sopraffazione, sovrapposizione, inesausta interazione tra i due livelli.

    In principio era il Logos, che si è incarnato per venire ad abitare in mezzo a noi… Forse, invece, in principio era il Caos, e allora sarebbe stato meglio non essere mai nati. È possibile che da qualche parte nello spazio profondo, in questo stesso istante, si agiti osceno e informe il dio cieco e folle Azathoth che gorgoglia e bestemmia al centro del­l’universo, orribile inquilino del mondo immaginato da H.P. Lovecraft, il cui pantheon è più simile a un divino, apocalittico bestiario che al solare olimpo ellenico. Forse i Grandi Antichi hanno creato la vita sulla terra «per scherzo o per errore». [8]

    Oppure niente di tutto questo, né Logos, né Caos, né niente, e la vita vive e basta, come sostiene Schopenhauer, cantore dell’illusorietà – e «schifosità – del reale. Chi può dire se arrivati al punto Omega dello spazio e del tempo la notte divorerà infine ogni cosa, o se al centro dell’universo risiede benefico e benedetto un fuoco inestinguibile di bene e salvezza per tutto e per tutti?

    Nessuno lo sa. E allora, che si fa? Quello che si fa sempre, ovviamente: continuare a vivere e a lottare. E a guardare, ascoltare e leggere storie che ci parlano di mostri, alieni, divinità amiche o ostili e di cose venute dallo spazio.

    1.4. La serietà dell’orrore. Scopare con la morte

    Il mio piacere è la meraviglia, l’inesplorato, l’inaspettato, ciò che è nascosto e quell’alcunché d’immutabile che si cela dietro l’apparente mutevolezza delle cose. Rintracciare quel ch’è passato nel vicino; l’eterno nell’effimero; il passato nel presente; l’infinito nel finito; queste sono le fonti del mio piacere e di ciò che io chiamo bellezza.

    H.P. Lovecraft, Teoria dell’orrore

    No, l’aspetto minaccioso del soprannaturale è che attacca la mente moderna dove è più debole, dove abbiamo rinunciato alla corazza protettiva della superstizione senza sostituirla con una difesa d’altro tipo. Nessuno di noi pensa razionalmente che sia stato un fantasma ad attraversare il giardino ieri notte, eppure di sicuro ieri notte a Hill House stava succedendo qualcosa, e il rifugio istintivo della mente – il dubbio – viene meno. [9]

    S. Jackson, L’incubo di Hill House

    Perché siamo attratti dall’orrore? È che l’essere umano è curioso e morboso. Ama

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