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Gli anni del Grande Terrore: Il 1935 e gli altri anni
Gli anni del Grande Terrore: Il 1935 e gli altri anni
Gli anni del Grande Terrore: Il 1935 e gli altri anni
E-book520 pagine7 ore

Gli anni del Grande Terrore: Il 1935 e gli altri anni

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Info su questo ebook

Séguito dei Figli dell’Arbàt, pubblicato nel 1988, questo romanzo storico copre gli anni 1935-1936. Il clima di paranoia di Stato instaurato dal regime bolscevico e rafforzato da Stalin, il terrore come metodo di governo, la menzogna, il ricatto e la falsa confessione come armi di raccolta di dati per i processi-farsa. Il concetto di “stato nello stato”, inaugurato da Ivàn il Terribile nel Cinquecento con l’opričnina, torna in auge con gli “organi” (servizi segreti) che spadroneggiano racchiudendo al proprio interno i poteri esecutivo, giudiziario e legislativo. Un incubo da cui la Russia sembra non svegliarsi mai.
LinguaItaliano
Data di uscita5 lug 2022
ISBN9788831462730
Gli anni del Grande Terrore: Il 1935 e gli altri anni

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    Anteprima del libro

    Gli anni del Grande Terrore - Anatolij Rybakov

    Anatólij Rybakóv

    Gli anni del grande terrore

    Il 1935 e gli altri anni

    a cura di Bruno Osimo

    Copyright © Bruno Osimo 2022

    Titolo originale dell’opera: Тридцать пятый и другие годы

    Traduzione dal russo di Bruno Osimo

    Bruno Osimo è un autore/traduttore che si autopubblica

    La stampa è realizzata come print on sale da Kindle Direct Publishing

    ISBN 9788831462723 per l’edizione hardcover

    ISBN 9788831462730 per l’edizione elettronica

    Contatti dell’autore-editore-traduttore: osimo@trad.it

    Traslitterazione

    La traslitterazione del russo è fatta in base alla norma ISO 9:

    â si pronuncia come ‘ia’ in ‘fiato’ /ja/

    c si pronuncia come ‘z’ in ‘zozzo’ /ts/

    č si pronuncia come ‘c’ in ‘cena’ /tɕ/

    e si pronuncia come ‘ie’ in ‘fieno’ /je/

    ë si pronuncia come ‘io’ in ‘chiodo’ /jo/

    è si pronuncia come ‘e’ in ‘lercio’ /e/

    h si pronuncia come ‘c’ nel toscano ‘laconico’ /x/

    š si pronuncia come ‘sc’ in ‘scemo’ /ʂ/

    ŝ si pronuncia come ‘sc’ in ‘esci’ /ɕː/

    û si pronuncia come ‘iu’ in ‘fiuto’ /ju/

    z si pronuncia come ‘s’ in ‘rosa’ /z/

    ž si pronuncia come ‘s’ in ‘pleasure’ /ʐ/

    1

    Il giorno stabilito la posta non arrivò, né giunse una settimana più tardi. Un giorno però da Fed'ka, il commesso, arrivò una slitta proveniente da Kéžma con delle merci.

    Saša fece un salto allo spaccio. Poiché Fédâ non aveva aperto la porta principale, lo fece passare dal terrazzino posteriore, dalla dispensa.

    «Ti hanno portato della roba?»

    «Qualcosa, sì.»

    «E non sai come mai non è arrivata la posta?»

    «Non ne ho idea. Ma se vuoi comprare lo stesso qualcosa, te lo segno.»

    «Non mi serve nulla, grazie.»

    Saša passò a trovare Vsévolod Sergéevič, che era steso sul letto coperto con una barčatka[1] dei padroni di casa.

    «È malato?»

    «No, no, sto bene.»

    «Come mai è a letto?»

    «Che cosa posso fare?»

    «Come mai la posta non arriva?»

    «La posta? Vuole che arrivi la posta? Io non ci spererei tanto, se fossi in lei.»

    «Non capisco.»

    «Non capisce? E quello che sta succedendo nel nostro paese lo capisce? I nemici della classe operaia hanno ucciso il compagno Kìrov, e lei vuole che a questi nemici venga recapitata regolarmente la corrispondenza? Andiamo, Saša! Le autorità si stanno preparando, capisce, preparando a reagire al colpo, tanto da far tremare la terra di tutta la Russia. Perché non venga più voglia a nessuno di uccidere i dirigenti della classe operaia, perché i nemici della classe operaia, di cui si sta cercando di accertare l'identità, non abbiano più il coraggio di inviare sicari la cui identità è pure ancora in corso di accertamento. E mentre si sta indagando sui sicari e sui loro mandanti, durante la preparazione di una reazione distruttrice, lei aspetta una lettera e sente nostalgia dei giornali. Ma quali lettere vuole che recapitino ai nemici della classe operaia? Vuole proprio che questi nemici si mettano d'accordo per sfuggire alla punizione che si meritano per l'omicidio che hanno compiuto? Ma quali giornali? Vuole dare ai nemici del popolo la possibilità di aggiornarsi sulla realtà dei fatti per poter orchestrare altre congiure? No, caro, questa possibilità non l'avrà. E dica anche grazie che non le hanno ancora fatto niente, che con il gelo che fa non la mandano a Krasnoârsk a piedi.»

    «Va bene, va bene!» disse Saša scoppiando a ridere. «Ma la smetta di fare paura a me e, soprattutto, a sé stesso.»

    Vsévolod Sergéevič si alzò a sedere sul letto e fissò Saša.

    «Le starei facendo paura? Al contrario, la sto tranquillizzando. È molto che non vede Kaûrov?»

    «Kaûrov? L'ho visto per strada qualche giorno fa.»

    «Non lo vedrà più.»

    Saša lo guardava con aria interrogativa.

    «Glielo posso assicurare...» confermò Vsévolod Sergéevič «l'hanno portato via stanotte.»

    «Di notte?»

    «Be', era ormai quasi mattino. Circa tre ore fa è arrivata una slitta, ci hanno caricato le sue cose e l'hanno portato via.»

    «Non l'ha visto nessuno» osservò Saša costernato.

    «Certo che no. Nemmeno i cani hanno abbaiato. Dormivano tutti. Così stanno le cose. Si ricorda il suo compagno di viaggio Volódâ Kvačadze?»

    «Certo.»

    «Ecco, lui l'hanno mandato sotto scorta a Krasnoârsk. E lo stesso si dica di tutti pelli che la pensano come lui della zona dell'Angarà e della Cuna. E tutti quelli che lei conosce per averli incontrati a Gol'tâvino, Marìâ Fëdorovna, ex socialrivoluzionaria[2], Anatolij Georgievič, ex anarchico, e quella bella donna... Frida. Vanno a prenderli tutti. Presto verrà anche il nostro turno.»

    «Li hanno davvero trasferiti?»

    «Saša, lei non mi conosce da un giorno, sa che non faccio pettegolezzi, non metto in giro voci. Dico soltanto quello che so con certezza. Tutte le persone che ho nominato e molte altre sono già state mandate a Krasnoârsk. A Kéžma ha conosciuto una vecchia esule, Elizavéta Petróvna Samsónova?»

    «Sì, la conosco.»

    Saša le aveva portato i soldi, venticinque rubli, da parte di Marìâ Fëdorovna.

    «Ecco, hanno portato via anche quella vecchia, che per inciso ha settantadue anni.»

    Saša si strinse nelle spalle.

    «Capisco che i giovani, come Volódâ, Frida, me e anche lei si possano mandare in un campo di lavoro, è tutta forza preziosa. Ma una vecchietta di settantadue anni a Krasnoârsk non può nemmeno arrivarci, morirà senz'altro durante il viaggio.»

    «E allora? Chi dovrebbe preoccuparsene, secondo lei? Mi meraviglio davvero, Saša. Viene impartito un ordine: i confinati con gli articoli tali e le condanne talaltre vanno immediatamente trasferiti a Krasnoârsk. Che cosa crede, che il responsabile locale, un dirigentucolo qualunque, si metta a pensare che ce n'è una che è vecchia, malata e che gli fa pena? Se lo facesse, potrebbero fucilarlo per mancato adempimento dell'ordine. Allora trasferisce anche lei, così almeno l'ordine l'ha eseguito. Se la vecchietta schiatta in viaggio non è affar suo, non è lui a risponderne. Se invece arriva viva a Krasnoârsk, le danno altri cinque anni dì campo di lavoro e poi la trasferiscono di nuovo a destinazione: se resiste, bene, se no, la depennano. L'importante è che i conti tornino. Nelle liste c'è, non importa se da viva o da morta, l'importante è che ci sia. Se è morta, basta fare una piccola correzione, sottrarre uno al totale, volgare aritmetica. Comunque non so se riguarda anche lei, Saša, visto che è un pesce piccolo, ma secondo i loro concetti io e Mihaìl Mihàjlovič siamo recidivi e, come dice la canzone, ci aspetta la condanna

    «E va bene» replicò tranquillo Saša. «Aspetteremo.»

    Così continuarono a vivere a Mozgova, in capo al mondo, completamente isolati, intuendo però che nel mondo stava accadendo qualcosa di tremendo, la cui onda lunga presto avrebbe raggiunto anche loro.

    Zida, Saša quasi non la vedeva. Avevano allontanato due insegnanti da Kama. Una aveva il marito al confino, ed era stata trasferita a Krasnoârsk; l'altra, che era stata confinata, dopo la condanna si era fermata a vivere a Kelma. E anche se si sapeva tutto già da prima, ora, dopo l'assassinio di Kìrov, erano venuti tempi nuovi, il paese veniva ripulito dagli elementi sospetti ed entrambe le insegnanti erano state licenziate e sostituite da Zida. Così dalle sette alle dieci di mattina Zida aveva lezione a Mozgova, alle dieci andavano a prenderla in slitta, la portavano a Kéžma, e a tarda sera la riportavano indietro. Le poche volte che Saša la incontrava per strada, si fermava, la salutava e le domandava gentilmente come stava. Lei distoglieva lo sguardo, diceva che andava tutto bene, ma che doveva lavorare molto.

    «Zida,» disse una volta Saša «sono stato ingiusto quella volta, ho fatto male a offenderti e me ne dispiace. Se puoi, scusami.»

    Zida alzò infine lo sguardo su di lui.

    «D'accordo, Sàšok, è ormai acqua passata.»

    «Mi rendo conto che è passato» continuò Saša «e che quello che è rotto non torna più come prima. Ma io vorrei che restassimo amici.»

    «Certo,» sorrise Zida «certo, come potrebbe essere altrimenti?»

    Così finì la loro conversazione.

    Non si incontravano più: Zida era sempre o a Mozgova o a Kama e Saša presto trovò un lavoro.

    Nel gennaio del 1935 vi furono temperature molto rigide, come non ce n'erano state a memoria d'uomo. I vecchi se ne stavano seduti nelle isbe e dicevano:

    «Non è un inverno, è un invernaccio».

    Il presidente del kolhóz, Ivàn Parfénovič, aveva molte preoccupazioni. Distribuire duecento vacche in un villaggio dove fino a qualche anno prima ce n'erano state duemila natural-mente non era difficile: le stalle per il bestiame c'erano ancora, di donne nel kolhóz ce n'erano tante e non si era ancora persa l'abitudine di badare alle bestie.

    Ma tenere dietro alla mandria comune disseminata in decine di stalle non era semplice. La maggior parte delle vacche erano incinte e bisognava nutrirle con attenzione, dar loro da bere acqua non fredda almeno tre volte al giorno. L'acqua arrivava dall'Angarà, dove per prelevarla veniva fatto un buco nel ghiaccio. La lettiera doveva essere pulita, fresca, bisognava portarle in giro almeno due o tre ore al giorno, stare attenti che non cadessero, che non prendessero colpi e, quando cominciavano le doglie, trasferirle nel reparto apposito, come indicavano le istruzioni. Le vacche erano dieci volte di meno, le istruzioni dieci volte di più. Poi bisognava stare attenti alle correnti perché le vacche non si prendessero un raffreddore, e i portoni delle stalle erano diventati vecchi, si erano rotti, nessuno se ne preoccupava perché tanto non c'erano quasi più bestie.

    Il kolhóz da tre anni aveva cominciato a costruire una vaccheria, in parole povere una stalla per due file di vacche. Ma la costruzione non procedeva spedita, c'era sempre qualche impedimento. Il legname, comunque, l’avevano portato sul luogo già dall’anno precedente, era legna buona, larice, ma era fresca, perciò si stava asciugando. A ben vedere, in realtà, accanto a ogni isba si stavano accumulando da anni meravigliose travi secche ancor da prima dell'avvento dei kolhóz, e si sarebbero potute benissimo utilizzare per la stalla, ma quello era legname privato e ci sarebbero state molte complicazioni. Per di più i preventivi parlavano di costruzione di una nuova vaccheria e nel preventivo c'era la voce «preparazione del materiale», perciò bisognava abbattere i larici, tagliare i rami, portare la legna dal bosco, tutto unicamente per rispettare il preventivo, osservare la legge. Così era stato fatto l'anno passato, anzi, quello prima ancora... ed era ora di mettersi al lavoro.

    Nella regione avevano compilato un rapporto sulla costruzione delle nuove vaccherie, ed era venuto fuori che non ne stavano costruendo nemmeno una... Se la cavavano tutti benone utilizzando le stalle delle varie isbe. Le autorità locali naturalmente si erano preoccupate: inviare un rapporto del genere al distretto sarebbe equivalso ad andare difilato sotto processo per intralcio dello sviluppo della zootecnia: ci avrebbero senz'altro aggiunto la responsabilità per tutte le vacche morte, e magari ai responsabili sarebbe toccata perfino la fucilazione per sabotaggio. Allora era stato impartito l'ordine: entro la primavera, per la figliatura, le vaccherie dovevano essere terminate, a qualsiasi costo.

    Ivàn Parfénovič formò dunque una squadra a capo della quale mise il padrone di casa di Saša, Savva Lùkič, che in passato era stato un bravo falegname, come del resto accade sovente nelle popolazioni delle campagne.

    «Potresti aiutarmi anche tu» disse a Saša Savva Lùkič «Le giornate le segnamo a mio nome, e io ti passo i soldi.»

    «E Ivàn Parfénovič che ne penserà?»

    «È stato lui a dirmelo» rispose ingenuamente Savva Lula.

    Così Saša si mise a fare il falegname.

    Nella squadra erano in sei: Savva Lùkič, Saša e altri quattro contadini. Squadravano le travi, le appoggiavano a una sbarra, le fissavano ai lati con staffe, le passavano con la šnurka, una corda annerita con un pezzo di legno carbonizzato sul fuoco, e sulle travi restava il segno per il taglio con l'ascia.

    Saša squadrò due lati in modo che ogni faccia fosse larga venticinque centimetri, chiamò i contadini per farsi aiutare a girare la trave, fissò e lisciò gli altri due lati in modo da ottenere quattro facce, poi preparò gli angoli e la trave era pronta.

    Savva Lùkič andò a guardare il suo lavoro, camminava su e giù lungo la trave.

    «Farai la squadratura, può andare.»

    «È un ragazzo giovane, carne fresca» risero bonariamente i contadini.

    Savva Lùkič squadrò un'estremità della trave, poi ci provò anche Saša e ci riuscì. Anche se faceva molto freddo, il lavoro era piacevole. I trucioli cadevano accanto alla trave, c'era un odore di fresco, di gelo.

    I contadini avevano portato enormi sassi, anzi massi di pietra: dato che faceva freddo, non era possibile scavare le fondamenta, allora l'imbragatura delle travi veniva appoggiata sulla pietra, il vano veniva foderato di assi, riempito e poi ancora ricoperto di assi.

    Saša squadrava le travi per l'imbragatura superiore e quella inferiore e insieme con un altro contadino segava travicelle di due metri, in ognuna delle quali veniva praticata una scanalatura per il muschio secco.

    «Se mancano il cuneo e il muschio, il falegname schiatta» ripeteva Savva Lùkič. A casa era taciturno, era sempre a fare qualcosa nella stalla, mentre là, al lavoro, si lasciava spesso andare, citava continuamente proverbi.

    Gli altri contadini preparavano assicelle, assi, lavoravano alle seghe longitudinali, uno in alto e uno in basso. Lavoravano con allegria, senza prendersela: anche se uno dei due teneva la sega nel modo sbagliato, danneggiando il pezzo, ricominciavano tranquilli, senza litigare. Se il taglio incontrava intoppi, se capitava un chiodo o un ferro, ci scherzavano sopra.

    Saša andava a dormire presto e si svegliava all'alba insieme al vecchio. Per quell'ora la vecchia aveva già preparato la colazione per loro, che mangiavano e andavano a lavorare.

    Ogni tanto la sera passava a trovarlo Vsévolod Sergéevič.

    Era un po' giù, anche se cercava di farsi coraggio. Andava a trovarlo una donna di Kežma; Vsévolod Sergéevi'č si dava da fare, preparava da mangiare, la donna era magra, invecchiata troppo presto.

    Ma un giorno Vsévolod Sergéevič andò alla vaccheria in costruzione. Il vecchio lo notò per primo.

    «Sanâ, vengono da te.»

    «È successo qualcosa?»

    Vsévolod Sergéevič agitò un pacco.

    «È arrivata finalmente la posta! Ho preso i suoi giornali e le sue lettere.»

    «Vsévolod Sergéevič, grazie!»

    Saša gli prese le lettere, si tirò sulle braccia le kokol'dy[3], si tolse gli ispodni[4], aprì una busta, guardò la data e girò subito pagina: i messaggi di Vàrâ erano sempre in fondo. In quella lettera di Vàrâ non c'era nulla. Aprì la seconda busta, ma non c'era nulla nemmeno là.

    Nella terza, infine, c'erano due righe.

    Fu preso dalla gioia per il solo fatto di vedere la calligrafia di Vàrâ.

    Vàrâ scriveva brevemente:

    «Non c'è niente di nuovo. Vivo, lavoro, ho nostalgia... ti aspetto».

    Che cos'altro poteva scrivergli apertamente? Nulla, così come nemmeno luì sapeva bene cosa scriverle. Ma gli bastavano quelle due parole. L'importante era che lei lo aspettasse, l'importante era che gli restasse ormai meno di due anni da ammuffire in quella maledetta Mozgova. Ecco che cosa contava! E dopo, che lo lasciassero tornare a Mosca o no, si sarebbero comunque visti!

    Sorridendo, si mise in tasca le lettere. Nella tasca sinistra quella in cui aveva scritto Vàrâ, nella destra le altre.

    «Vsévolod Sergéevič, vada a casa mia, dia un'occhiata ai giornali, arriveremo presto anche noi.»

    Savva Lùkič, uomo di buon cuore, un vecchietto d'oro, si mise ad arrotolare una sigaretta.

    «Perché ti sei infilato le lettere in tasca? Leggi, leggi!»

    «Le guarderò dopo» rispose Saša.

    Cominciava a fare buio: finirono il lavoro, misero gli strumenti nella cassa e la nascosero tra le travi.

    A casa Vsévolod Sergéevič porse il giornale a Saša.

    «Legga!»

    «Aspetti, lasci che mi svesta.»

    Saša si tolse il pellicciotto, il cappello, posò sulla stufa le kokol'dy, le maniche, si cambiò le scarpe e prese il giornale.

    C'era la risoluzione sul terrorismo del Comitato Centrale Esecutivo dell'Urss pubblicata subito dopo l'assassinio di Kìrov:

    «Ai codici penali processuali delle Repubbliche dell'Unione vanno apportate le seguenti modifiche relative all'istruzione e all'esame dei processi riguardanti organizzazioni e atti terroristici contro gli attivisti del potere sovietico:

    1. L'istruttoria di questi processi deve concludersi entro dieci giorni.

    2. L'atto d'accusa deve essere consegnato agli imputati entro un giorno dall'esame del caso in tribunale.

    3. Il caso va esaminato senza ascoltare le parti.

    4. Non sono consentiti ricorsi in cassazione né la trasmissione di istanze di grazia.

    5. L'esecuzione della condanna a morte deve essere effettuata subito dopo la proclamazione della condanna stessa».

    «Già...» disse pensieroso Saša «niente male.»

    «È una legge di guerra» constatò Vsévolod Sergéevič «ma la guerra non c'è. Nessuno Stato, nessuna autorità oserebbe privare l'imputato del diritto alla difesa, e questa risoluzione lo priva non solo dell'avvocato ma anche della possibilità di difendersi da solo: se gli viene consegnato l'atto di accusa un giorno dopo, non può certo prepararsi alla difesa. Nessuno oserebbe privare l'imputato del diritto a ricorrere in cassazione, i giudici sono uomini e possono sbagliarsi; nessuno ha il diritto di togliere all'imputato la speranza che gli venga concessa la grazia, senza misericordia non possono esistere gli Stati. La risoluzione è peggiore delle leggi di guerra, perché non riguarda soltanto glì omicidi ma in generale il terrorismo contro gli attivisti del potere sovietico. E un concetto, caro Saša, estendibile, si può far passare per terrorismo quello che si vuole, per attivista del potere sovietico si può intendere chiunque, a partire da Stalin per finire al contabile di un kolhóz, magari minacciato di morte da un contadino per avere imbrogliato con il conteggio delle giornate di retribuzione. E una risoluzione sullo sterminio incontrollabile di persone innocenti e indifese. È una legge sull'illegalità di massa.»

    Scosse la testa.

    «Si ricorda che cosa disse Puškin a Gógol' dopo avere sentito leggere i primi capitoli delle Anime morte? Dio, come è triste la nostra Russia. E che cosa potremmo dire dopo questa risoluzione? Russia infelice? E ha notato l'efficienza? Il primo dicembre hanno ucciso Kìrov e c'è già una legge pronta da pubblicare. Che gliene sembra?»

    «Non le ho mai parlato, Vsévolod Sergéevič, del mio giudice istruttore. Si chiama D'âkov, un tipo secco con gli occhiali. Una canaglia come ce ne sono poche. Ha inventato lui il mio caso. E pensi che si offendeva quando non volevo firmare il verbale, si arrabbiava: Lei non vuole aprirsi davanti al partito Schifoso! Perché mi è venuto in mente? Ah, già... Se una risoluzione del genere fosse uscita un anno e mezzo fa, avrebbe potuto accusare di terrorismo anche me. La logica è semplice. Come mai nel numero festivo del giornale murale non ha citato il nome del compagno Stalin? Perché lei è contro il compagno Stalin. Lei non vuole che sia lui a dirigere il partito e il paese. E come può eliminarlo? Soltanto uccidendolo, uccidendo il compagno Stalin, nostro padre e maestro, nostra guida. Ah, non ha mai detto nulla di simile? Ci mancherebbe altro, non sono certo cose da andare a raccontare in giro. Ma lei ha nutrito in sé questa intenzione e, in circostanze favorevoli, l'avrebbe messa in atto. Lei è un potenziale terrorista, i suoi amici sono potenziali terroristi, nel complesso siete un'organizzazione terroristica. Perciò faremo un processo senza difensori, la condanna non avrà appello e la fucilazione avverrà un'ora dopo la conclusione del processo.»

    «Già,» annuì Vsévolod Sergéevič «in questo senso può quasi considerarsi fortunato.»

    Saša sorrise.

    «Insomma, sono stato proprio baciato dalla fortuna. Non le sembra che dovremmo berci sopra?»

    «Non mi oppongo. E voglio anche spiegarle per quale motivo lei è fortunato davvero...»

    Saša aveva un poco d'alcol, la padrona di casa tagliò del pesce affumicato e si diede da fare intorno alla stufa.

    Saša rilesse le lettere, mentre Vsévolod Sergéevič dava un'occhiata ai giornali.

    «Che cosa succede, Saša... Ovunque processi, stermini di massa, sono stati deportati da Leningrado migliaia di nobili, di ex borghesi, di figli di ex borghesi, ma perché questi? E il popolo! Il popolo sta a guardare? Che dice! Il popolo non sta a guardare, non tace, no! Guardi, legga, il popolo vuole punizioni. In tutto il paese, da Odessa a Vladivostók, ci sono assemblee: smascherare, eliminare, fucilare! Nemmeno il partito tace. Alle riunioni di partito si indaga su quelli che tramano, i comunisti si pentono, si battono il petto, riconoscono i loro errori: non hanno vigilato abbastanza. Ma no, non serve a nulla. Questi pentimenti vengono considerati insufficienti, tardivi, insinceri.»

    La padrona di casa tolse dalla stufa la pentola con le patate.

    Saša chiamò Savva Lùkič e si sedettero a tavola. Bevvero il primo bicchierino, mangiarono il rituale boccone per accompagnarlo, sì versarono il secondo bicchierino.

    «Allora, perché sarei fortunato?» domandò Saša.

    «Perché si trova a Mozgova» rispose Vsévolod Sergéevič togliendo la pelle al pesce. «Lei vive in un ambiente sterile. Se lei fosse libero, dovrebbe prendere parte anche lei a queste riunioni, pretendere smascheramenti, fucilazioni, stermini.»

    «Potrei anche non partecipare.»

    «Non è vero. Lavorando in un ambiente qualsiasi, lei non potrebbe sfuggire in nessun modo alle riunioni. Non dico che dovrebbe necessariamente intervenire e prendere di mira qualcuno, chiamarlo nemico, complice di un nemico, o dire che non si è pentito, che sta tramando cose del genere. No! Ma insieme a tutti gli altri dovrebbe votare a favore della fucilazione, alzerebbe la sua mano con tutti gli altri, perché in caso contrario, se votasse contro, qualcuno sosterrebbe che anche lei è un nemico, e seduta stante la porterebbero da chi di dovere.»

    «E lei come si comporterebbe?»

    «Io? La cosa non mi riguarda. Finché esiste il potere sovietico non ho altra strada: confino, campo di lavoro, prigione, campo di lavoro, prigione. E spero che non verrà loro in mente di organizzare quelle assemblee nei campi o nelle prigioni. In prigione e in campo di lavoro non ci sarebbe nessuno disposto ad alzare la mano.»

    «Ma supponiamo, in linea teorica, che al termine della condanna la rilascino. Lei abita in una piccola città, lavora, al lavoro c'è un'assemblea, si stanno giudicando dei nemici, vogliono fucilarli, tutti naturalmente votano a favore. Lei voterebbe?»

    Vsévolod Sergéevič continuava in silenzio a togliere la pelle dal pesce.

    «E allora?» domandò Saša. «Non lo so, Saša, onestamente non lo so. A quelle assemblee ci sono persone che credono sinceramente a ciò che c'è scritto sul giornale, a quello che martellano nella testa della gente. Ma può darsi che ci siano anche coloro che non ci credono ma che votano perché pensano ai figli.» «Lei non ha figli.»

    «No. E le dirò tranquillamente: probabilmente alzerei la mano anch'io. Perché? Perché il mio solo voto non cambierebbe nulla. Perché la ragione non vale contro la forza. Perché infine se andassi al patibolo solo io, non cambierebbe nulla, ammazzerebbero me insieme con gli altri. Loro confesserebbero, si pentirebbero: perché dovrei morire per persone così deboli? Sono loro che, a suo tempo, hanno organizzato tutto questo, sono comunisti, membri del Komsomól, hanno mandato a morire essi stessi delle persone. Ora è venuto il loro turno: perché dovrei insorgere a loro difesa?»

    Ma lei ha detto che deportano nobili, ex borghesi e i loro figli. I bambini non hanno certo mandato a morire nessuno, bisogna pur difenmderli.»

    Vsévolod Sergéevič finì di pulire il pesce e ne mangiò un boccone.

    «Buono questo pesce, fantastico. Lei solleva una questione seria, Saša. Molto seria e molto attuale. Ma è attuale per lei, Saša, non per me. Io non avrò mai dilemmi del genere, sono in un’altra orbita. Lei invece, Saša, è nella stessa orbita in cui gira questo Stato, lei è nella loro orbita e non ne uscirà mai, perciò il problema si presenterà a lei.»

    «Va bene,» disse Saša «quando mi si presenterà, lo risolverò. Ma la sua decisione non mi convince.»

    «Rinnego la mia decisione, non ci avevo riflettuto abbastanza» replicò Vsévolod Sergéevič. «Ho semplicemente detto come si sarebbe comportato al mio posto una qualsiasi persona ragionevole: avrebbe alzato la mano, avrebbe fatto come tutti. In questo sta la tragedia della Russia, la tragedia del popolo russo. E io non voglio giudicare nessuno, le persone sono persone, l'uomo è uomo.»

    «E come la mettiamo con la predestinazione particolare del popolo, con la sua missione speciale? E come si inserisce in tutto ciò il principio cristiano ortodosso

    «Saša, lei con queste domande primitive vuole negare la nostra... o diciamo la mia filosofia?»

    «Non sono un filosofo,» ribatté Saša «ma sono convinto che nessun popolo ha un ruolo messianico, una predestinazione messianica. Non esiste un popolo superiore, esistono solo le persone: brave e cattive persone. E bisogna creare una società in cui non esista nulla che le faccia diventare cattive.»

    «Qualsiasi idea di società perfetta, Saša, è illusoria.»

    «D'accordo, la società perfetta non esiste e difficilmente potrebbe esistere. Ma una società che tende alla perfezione sarebbe già un'ottima prospettiva» disse Saša.

    «Non sembra però che la nostra società tenda alla perfezione. La società è fatta di persone e noi le trasformiamo in spazzatura.» Vsévolod Sergéevič si alzò. «Me ne vado. Io domani posso dormire tutto il giorno, ma voi dovete lavorare. Vede, si sono nemmeno quello.» farle fare il falegname, invece io non posso fare nemmeno quello.»

    Saša scoppiò a ridere. «Ho una raccomandazione.» Indicò il padrone di casa. «Mi ha aiutato Savva Lùkič»

    «E perché non avrei dovuto aiutarlo?» disse Savva Lùkič «Il lavoro bisogna ben finirlo. L'hanno ordinato i capi.»

    «Avrebbe potuto prendere anche me.»

    «Tu sei una persona istruita, hai studiato» fece con stupore Savva Lùkič «Il nostro lavoro non ti piacerebbe.»

    Vsévolod Sergéevič se ne andò.

    Saša rilesse le lettere della mamma, guardò ancora le righe di Vàrâ, concise, modeste, ma anche in quelle trovò un significato recondito. «Vivo, lavoro, ho nostalgia... ti aspetto.»

    Le scrisse con altrettanta concisione, soppesando bene ogni parola:

    «Cara Vàren'ka, quando ricevo la posta, guardo subito se c'è qualcosa da parte tua».

    Chissà se anche lei poteva vedere qualcosa dietro alle sue parole.

    Era tutto quello che si sentiva in grado di scriverle. A Mosca non le aveva dimostrato particolare interesse, ora quell'interesse sarebbe potuto apparire come nostalgia della libertà, dei conoscenti, o semplicemente di una donna. Saša non voleva essere frainteso.

    Forse se avesse scritto: «Come vorrei sapere che cosa stai facendo» lei si sarebbe comportata con più coraggio, con più decisione; o forse, pensava Saša, voleva soltanto tenerlo su: era una brava ragazza, di buon cuore.

    «Vivo, lavoro, ho nostalgia... ti aspetto.» Certo, qualcosa dietro c'era... Qualunque cosa ci fosse, anche quelle due righe le aveva aspettate con trepidazione. La ferma fiducia di Vàrâ nel futuro dava speranza anche a lui.

    Le lettere della madre erano tranquille, ma c'era qualcosa che lo metteva in guardia. In una lettera la mamma scriveva:

    «Vera ha traslocato dalla dacia, sebbene ci si possa vivere anche d'inverno. Non ha voglia di badare alla legna per la stufa».

    In questo messaggio non c'era niente di speciale. Ma nella lettera successiva di nuovo:

    «Vera ha chiuso la dacia per l'inverno».

    Che cosa voleva dire? Perché lo ribadiva due volte di seguito? Per distrazione? O era successo qualcosa a zia Vera o a suo marito o ai figli, a suo cugino e a sua cugina? Scrisse subito alla madre:

    «Come stanno zia Vera, zio Volódâ, Svetlana, Valera? Dove sono, come stanno?».

    Bisognava tranquillizzare la madre. In quella lettera le chiese di cercare nei cassetti della scrivania il libretto universitario e la patente di guida (che non erano stati requisiti durante la perquisizione) e, se li avesse trovati, di conservarli fino al suo arrivo perché gli sarebbero serviti. Lo scrisse soltanto per tranquillizzarla, per convincerla che sarebbe tornato presto, per rafforzare in lei la speranza della sua liberazione. Lui non ci sperava. Le chiese anche di mandargli certi suoi libri sulla Rivoluzione francese. A scuola ne aveva studiato a fondo la storia, se ne era interessato anche dopo, aveva raccolto libri e ora ne sentiva la mancanza, voleva rileggerli. E scrisse anche che lavorava alla costruzione di una vaccheria, che il lavoro era piacevole, lo pagavano bene, gli bastava per mangiare e dormire e che dunque non occorreva che gli mandasse soldi.

    Per terminare la lettera restò alzato fino a tardi. Persino la vecchia gli disse dalla stufa:

    «Perché ti cavi gli occhi? Fatti il letto, stenditi».

    «Domani parte la posta, voglio finire la lettera» rispose Saša.

    Andò a dormire tardi e si svegliò mentre Savva Lùkič stava già facendo colazione.

    «Sono là in un attimo, Lùkič!»

    Saša si vestì in fretta, si lavò e andò a mangiare la frittata che era già pronta a tavola.

    Il vecchio uscì in cortile.

    «Va'» gli disse Saša. «Ti raggiungo in due salti.»

    Savva Lùkič tornò subito.

    «C'è la slitta della polizia...»

    «Viene da noi ?»

    «Chi lo sa?»

    Non aveva messo via nulla, niente era pronto. Saša si protese verso le sue lettere, non voleva che le toccassero mani estranee, ma per nasconderle non avrebbe fatto in tempo a preparare nessun bagaglio. Ma sì, che venissero, aspettassero, non avrebbero avuto altra scelta.

    Ecco fatto, stava finendo la vita sull'Angarà. In quale campo di lavoro sarebbe continuata? Probabilmente non avrebbe mai più rivisto sua madre, né suo padre, né Vàrâ.

    Prese una sigaretta dal pacchetto e la accese. Guardò dalla finestra che era coperta di brina, non si vedeva nulla. Si mise ad ascoltare: lo scricchiolìo dei pattini non si sentiva più.

    Sbatté il cancello, si aprì la porta: tornò Savva Lùkič

    «È passata, Sanâ. Sia gloria al Signore» e si fece il segno della croce.

    «Dove sono andati?»

    «Hanno girato a quell'altro angolo.»

    Quell'altro voleva dire il secondo, poiché il primo si chiamava questo.

    A prendere chi? Probabilmente Maslov.

    «Lùkič', faccio un salto là, poi ti raggiungo al lavoro.»

    «Vai, vai, non avere fretta, ce la caveremo anche da soli» disse il vecchio.

    La slitta era ferma davanti alla casa di Maslov e accanto si erano fermati Vsévolod Sergéevič e Petr Kuz'mìč.

    Si avvicinò soltanto Saša, sulla porta c'era Mihaìl Mihàjlovič Maslov con la valigia in mano e lo zaino in spalla. Quando aveva fatto i bagagli? Possibile che vivesse con le valigie sempre pronte?

    Davanti a Maslov camminava un poliziotto col fucile, dietro ne veniva un altro, un ragazzo alto e dritto con le labbra strette in segno di disprezzo.

    Maslov posò la valigia e lo zaino sulla slitta.

    Dopo si volse verso Vsévolod Sergéevič. Si abbracciarono, si baciarono. Baciò e abbracciò anche Pëtr Kuz'mìč. A Saša protese la mano. Saša la strinse e guardò Mihaìl Mihàjlovič negli occhi.

    Poi chiese: «Mihaìl Mihàjlovič, vuole lasciare detto qualcosa a Ol'ga Stepànovna?».

    «Vsévolod Sergéevič ha l'indirizzo, scriverà.»

    Ci pensò su un po' e poi aggiunse: «Grazie del pensiero...».

    2

    Saša andò al cantiere. I contadini sopra l'imbragatura inferiore posavano una trave ogni due metri, per separare una posta dall'altra. La fissavano a incastro, perché risultasse una costruzione solida. In tutta la lunghezza dei montanti c'erano scanalature in cui venivano fissate orizzontalmente le travi che avrebbero costituito le pareti.

    Il lavoro era bello e di precisione e Saša era stupefatto che tutto venisse lavorato con strumenti tanto rozzi: una scure, una sega e un gattuccio, scalpello, sgorbia, pialla, piallone e pialletto; di come si potesse ottenere tanta precisione con il filo a piombo e la livella.

    E anche a lui sarebbe capitato di fare quel lavoro, ma quel giorno era arrivato tardi, e così lo avevano di nuovo messo a squadrare le travi per l'imbragatura superiore.

    «Hai salutato il tuo compagno?» domandò Savva Lùkič

    «Sì.»

    «Dove l'hanno mandato?» si interessò il contadino Stepan Timoféevič, un uomo abbronzato, col naso ricurvo, magro.

    «Chi lo sa» rispose Saša.

    «Forse ha scontato la condanna» disse Savva Lùkič

    «E quindi sarebbe in libertà?» intervenne Stepan Timofeevič ridendo. «Per liberare la gente non mandano i poliziotti.»

    «A Kéžma la gente dice che hanno ammazzato uno dei capi, lo scrivono nei giornali» disse l'altro contadino, che si chiamava anche lui Stepan, Stepan Luk'ânovič. «Che l'ha ucciso un trockista contrario ai kolhóz, per l'abolizione dei kolhóz.»

    «Ma cosa vogliono mai abolire» rise Stepan Timoféevič. «Cosa vogliono abrogare? Ormai hanno distrutto tutto...» Savva Lùkič si guardò prudentemente intorno:

    «Allora si vede che non ci credi».

    «A cosa?»

    «Che tutto dipende da Dio» disse Savva Lùkič «Come Dio ha disposto le cose, così vanno.

    «Dio, Dio, tutto dipenderebbe da Dio» rispose stizzoso Stepan Timoféevič. «E dov'è la vostra chiesa? Dio non fa niente per te. Ti sembra che questa vaccheria te la fabbrichi Dio? Visto che muoiono le vacche, noi costruiamo la vaccheria.»

    «E tu non costruirla» disse il terzo contadino, Evsej. Saša non ne conosceva il patronimico, gli altri ogni tanto al nome aggiungevano solo qualche rima poco rispettosa.

    «E come faccio?» rispose con cattiveria Stepan Timoféevič. «Questi qui» indicò Saša «finiscono la condanna e se ne vanno dove vogliono. Ma per noi contadini la strada non è mai aperta. Noi non abbiamo il passaporto[5]. Ci tengono sempre nello stesso posto. Sta' fermo e non ti muovere!: eccola la nostra libertà!»

    «Ti ha morso un serpente?» chiese Savva Lùkič «Se qualcuno ti sente e lo va a spifferare, lo sai che cosa ti può capitare?»

    «Lo so» rispose tetro Stepan Timoféevič «e moriremo anche per questo, perché stiamo tutti zitti, manco avessimo ingoiato una scopa!»

    «Siamo qui per lavorare, abbiamo parlato anche troppo.»

    Effettivamente era quasi mezzogiorno; si rimisero al lavoro.

    I contadini volevano parlare, e non avevano nessun motivo per non farlo, se non fosse stato per la presenza di Saša, che era un estraneo: loro sapevano che in presenza di estranei era meglio tenere la lingua a posto. Che quadro penoso...

    Dopo una settimana o due convocarono a Kéžma Pëtr Kuz'mìč. Non vennero a prenderlo i poliziotti, gli ordinarono tramite il soviet di villaggio di presentarsi là un certo giorno.

    «Magari mi lasciano andare, che ne dite ragazzi, eh?» guardò negli occhi Saša e Vsévolod Sergéevič cercando conforto, sostegno. «La mia condanna è scaduta in novembre.»

    «E come mai se ne è rimasto qui, se è scaduta?» domandò Saša. «Poteva ricordarglielo.»

    Pëtr Kuz'mìč scosse la testa.

    «È pericoloso ricordarlo, Aleksàndr Pàvlovič: se gli ricordi che la tua vecchia condanna è scaduta, magari te ne appioppano un'altra... Non mi hanno portato via come Mihaìl Mihàjlovič. E poi l'articolo per cui sono qui non è politico.»

    «Come sarebbe non è politico?» Vsévolod Sergéevič scoppiò a ridere. «Controrivoluzione economica: non mi sembra proprio un articoletto da niente!»

    «Resta il fatto che è un articolo economico e non politico» ribatté Pëtr Kuz'mìč.

    «Va bene» lo interruppe Vsévolod Sergéevič. «Vada a Kéžma, così le dicono di che cosa si tratta e poi ce lo racconta.»

    Quando Pëtr Kuz'mìč fu partito per Kéžma, Vsévolod Sergeevič disse a Saša:

    «Può anche darsi che lo lascino andare, non si sa mai, la macchina burocratica... C'è la scheda, la condanna è scaduta, non ci sono disposizioni. Certo, ora che c'è stata la faccenda di Kìrov... Ma vallo a capire, staremo a vedere!».

    Verso sera tornò Pëtr Kuz'mìč, allegro, gioioso. Era stato liberato! Mostrò il documento. «Per decorrenza dei termini di carcerazione... con riferimento alla seconda risoluzione del Consiglio dei Commissari del popolo sul sistema dei passaporti.» Gli veniva dunque negato il diritto di abitare nelle grandi città.

    «E io che me ne faccio delle grandi città» disse eccitato Pëtr Kuz'mi'é. «Non me ne faccio proprio nulla. Sono nato e cresciuto a Staryj Oskol, là ci sono mia moglie, le mie figlie, tutti i miei parenti. Andrò là.»

    «Ha i soldi per il viaggio?» domandò Saša.

    «Me la caverò... Per arrivare fino a Kéžma mi sono messo d'accordo con il postino, vuole poco, soltanto dieci rubli. Il biglietto per Staryj Oskol penso che costi venticinque o trenta rubli. Tra una cosa e l'altra ce la dovrei fare con cinquanta rubli, e quelli ce li ho.»

    «E bere, mangiare...»

    Pëtr Kuz'mìč tranquillizzò Saša con un gesto della mano.

    «Non morirò certo di fame. La padrona di casa mi preparerà senz'altro qualche biscotto, mi darà pesce affumicato, frittate, poi l'acqua calda per il tè alle stazioni è gratis... Non si preoccupi, me la caverò.»

    Il giorno dopo col carro del kolhóz Pëtr Kuz'mìč se ne andò a Kéžma. Salutando Saša e Vsévolod Sergéevič scoppiò in singhiozzi perché si vergognava della propria fortuna.

    «Che Dio conceda anche a voi di uscirne.»

    «Davvero, speriamo» aggiunse in tono dolce e derisorio Vsévolod Sergéevič. «Stia tranquillo, e non metta su uno spaccio!»

    «Che dice, Vsévolod Sergéevič!» Il vecchietto arretrò spaventato. «Quale spaccio, di questi tempi! Cara grazia se mi prendono come commesso!»

    «È meglio che faccia il guardiano» suggerì Vsévolod Sergéevič.

    «E perché?»

    «È più tranquillo. In un negozio si ha una responsabilità materiale e, se dovesse succedere qualcosa, se la prenderebbero subito con lei. Come guardiano invece se ne sta in pelliccia, si scalda...»

    «No, Vsévolod Sergéevič, come potrei? Conosco il mio mestiere dall'infanzia, posso ancora tornare utile.»

    Le ultime parole le pronunciò ormai dalla slitta. Il cocchiere tirò le redini e i cavalli partirono.

    «Addio, che il Signore sia con voi» gridò Pëtr Kuz'mìč.

    «Quell'uomo non ha capito nulla» disse cupo Vsévolod Sergéevič.

    La liberazione di Petr Kuz'mìč risollevò un poco gli animi. Per di più presto giunse la notizia che nel villaggio di Zaimka era stato liberato per scadenza dei termini anche padre Vasilij. Dunque non era un'azione su vasta scala, ma specifica, non facevano di tutti un mazzo, decidevano caso per caso.

    Tuttavia dopo un'altra settimana giunse alla vaccheria in costruzione una bambina che, fermatasi di fronte a Saša, gli disse: «Vsévolod Sergéič ti chiama».

    Era la figlia della padrona di casa di Vsévolod Sergéevič. Saša capì subito che dovevano essere andati a prenderlo per trasferirlo.

    Saša lo trovò in forma, attivo, mentre stava preparando i bagagli. Fino a quel momento si era roso il fegato perché non conosceva il proprio destino, poteva soltanto aspettare, ma ormai tutto era deciso, era di nuovo in strada; ormai sapeva bene che cosa lo aspettava; e per ciò che lo aspettava bisognava essere forti, pronti a tutto.

    «Le hanno ordinato di presentarsi?»

    «Che differenza fa? Vengono a prendermi da Kama. E a Kama c'è un gruppo piccolo ma, a quanto pare, l'ultimo in partenza per Krasnoârsk. Lei non c'è finito, quindi può sperare, anche se di gruppi magari ce ne saranno ancora molti, Saša, e quindi è bene che si tenga pronto a tutto... Sa, Lìdiâ Grigór'evna Zvâguro, per esempio, non è stata convocata; a giudicare dagli avvenimenti di questo periodo avrebbero dovuto convocarla per forza, e invece non la toccano. Quindi c'è ancora da aspettarsi molto. E questi sono per lei...» aggiunse Vsévolod Sergéevič indicando una pila di libri «so che non è un grande ammiratore della filosofia, ma ci sono anche libri interessanti, e io di portarli con me... Tanto me li requisirebbero in ogni caso... Se dovessero trasferirla, li lasci a qualcuno, oppure

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