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Vie di salvezza: La sconfitta della dualità in Abhinavagupta
Vie di salvezza: La sconfitta della dualità in Abhinavagupta
Vie di salvezza: La sconfitta della dualità in Abhinavagupta
E-book336 pagine4 ore

Vie di salvezza: La sconfitta della dualità in Abhinavagupta

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Info su questo ebook

Lo śivaismo kaśmiro è una tra le più suggestive correnti sapienziali dell’India antica, secondo la quale il mondo non sarebbe altro che una costruzione del sé interiore, di cui i sensi non fornirebbero che una rappresentazione. Il tutto non sarebbe altro che l’espressione, il corpo di un venerando dio, Śiva, percepito nei due aspetti di distruttore e di riparatore. E la salvezza, suprema identificazione dell’uomo con la causa di tutte le cose, Śiva, potrà essere raggiunta attraverso la disciplina: il devoto deve riuscire a bloccare dentro di sé il flusso mentale, il pensiero discorsivo, e prendere consapevolezza di essere già liberato. Il metodo che gli consentirà di liberarsi dalle proprie responsabilità karmiche costituisce l’oggetto principale di questo libro, che dopo aver tratteggiato a grandi linee il complesso panorama dello śivaismo medievale, si concentra sulle cosiddette scuole kaśmire, e in particolare sul Paramārthasāra di Abhinavagupta (tradotto in Appendice), per individuare un percorso soteriologico sospeso fra rituale e speculazione.
La realtà ha sempre due volti, e proprio quei sentimenti e quelle affezioni dell’anima, che ci offuscano e ci legano maggiormente al sensibile, possono diventare strumento di illuminazione e di liberazione.
LinguaItaliano
Data di uscita13 ott 2021
ISBN9791280353252
Vie di salvezza: La sconfitta della dualità in Abhinavagupta

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    Anteprima del libro

    Vie di salvezza - Alberto Pelissero

    Archidoxa. Collana di Storia delle Religioni

    Direttore

    Ezio

    Albrile

    Comitato scientifico

    Chiara Ombretta

    Tommasi

    Università di Pisa

    Igor Dorfmann-Lazarev

    SOAS

    University of London

    Ali

    Faraj

    Università degli Studi di Milano-Bicocca

    Giuseppe

    Muscolino

    Antonella

    Sannino

    Università degli Studi di Napoli "L

    Orientale"

    Nathan Morello

    Ludwig-Maximilians-Universität München

    Archidoxa

    Collana di Storia delle religioni

    Un viaggio incantato è la conoscenza, sgomitando tra parole, segni e sogni; una contaminazione tra erudizione e meraviglia.

    La collana si propone di portare all'attenzione di un pubblico colto ed interessato ai temi della storia delle religioni testi di grande valore scientifico, che percorrano nella forma i dettami di una saggistica di qualità.

    Alberto Pelissero

    Vie di salvezza

    La sconfitta della dualità in Abhinavagupta

    Copyright WriteUp Site© 2021

    ISBN 979-12-80353-25-2

    www.writeupbooks.com

    redazione@writeupbooks.com

    via Michele di Lando, 106 — Roma

    I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,

    di riproduzione e di adattamento anche parziale,

    con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

    Non sono assolutamente consentite le fotocopie

    senza il permesso scritto dell’Autore.

    I edizione: giugno 2021

    Sommario

    Nota del 2021
    Introduzione
    I. I trentasei Principi di Realtà (Tattva)
    II. La dialettica delle tre maculazioni (mala)
    III. Il riso e la pula. Il karman nel Paramārthasāra
    IV. La Gerarchia Dei Viventi
    Appendice
    Bibliografia

    Yājñavalkya, quando d’un uomo morto la parola se ne è andata nel fuoco, il soffio vitale nel vento, l’occhio nel sole, la mente nella luna, l’udito nelle regioni celesti, il corpo nella terra, lo spirito nello spazio etereo, i peli nelle erbe, i capelli negli alberi, il sangue e lo sperma nelle acque, dove si trova in realtà questo uomo? Prendi la mano, o diletto Ārtabhāga, noi due soli lo sapremo: questo nostro colloquio non è da farsi in pubblico. E uscirono e parlarono fra loro. E ciò di cui parlarono fu l’azione: buoni si diventa infatti con le azioni buone, cattivi con le cattive.

    Bṛhadāraṇyakopaniṣad 3,2,13

    perché le loro opere li seguono

    Apocalisse 14,13

    Nota del 2021

    Il presente volume costituisce la rielaborazione di un libro (Alberto Pelissero, Il riso e la pula. Vie di salvezza nello śivaismo del Kaśmīr, Edizioni dell’Orso, Alessandria 1998) tratto dalla mia tesi di laurea, discussa nel 1985. La domanda che mi sono posto era se ci fosse qualcosa da salvare in quel vecchio lavoro; la risposta spetta al pubblico che valuterà il risultato. Quanto al paratesto, sono state soppressi la dedica, una prefazione di Mario Piantelli (generosa e indulgente nei confronti dell’autore), l’indice delle citazioni e l’indice analitico. Quanto al testo (e alle note), sono state apportate modifiche di importo variabile, dalla semplice rimozione di refusi alla aggiunta, riformulazione o soppressione di intere frasi. La bibliografia, originariamente strutturata per argomenti, è stata riorganizzata mantenendo solo la distinzione tra fonti primarie e secondarie, con qualche limitato aggiornamento.

    I miei ringraziamenti vanno anzitutto a Ezio Albrile, che mi ha proposto di ribubblicare Il riso e la pula in una nuova versione riveduta e aggiornata; e ai miei maestri Stefano Piano e Mario Piantelli: se il lettore troverà qualcosa di buono nel libro è merito loro.

    Introduzione

    Questo saggio si propone di affrontare un problema, quello dell’azione (karman), di una certa importanza per lo sviluppo di un insieme di correnti del pensiero indiano che si richiama alla figura divina di Śiva, figura assai complessa e ricca di contraddizioni, o per meglio dire di aspetti contrastanti che paiono contraddittori agli occhi di chi vi si accosti senz’essere animato da spirito di empatia intellettuale se non ancora di partecipazione emotiva e spirituale nei suoi confronti.

    Dal punto di vista formale si è trattato principalmente di rendere leggibile una tesi di laurea, impresa che, come ognun sa, consiste principalmente nel tentativo di tradurre in corretto italiano il gergo accademico in cui in origine la dissertazione è composta. Quanto l’opera sia riuscita sta al lettore giudicare.

    Le scuole, i testi, gli studi

    La letteratura dello śivaismo kāśmīro, ossia di quel fascio di scuole che traggono ispirazione dal culto del dio Śiva fiorite soprattutto in Kaśmīr, rappresenta una produzione importante sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo.¹

    Si tratta di testi molto vari come indole, ma piuttosto omogenei come contenuto. Gli elementi di datazione sono scarsi, e la loro discussione non si presta a un’esposizione che vuol essere anche divulgativa come quella che viene offerta qui. I manoscritti pervenuti sono perlopiù tardi, almeno per quanto riguarda le opere di autori storicamente identificabili.² Autorevoli studiosi italiani³ hanno intrapreso una serie di ricerche sulle fonti manoscritte e hanno prodotto edizioni critiche, traduzioni e studi di opere significative precedentemente ancora inedite o mal note. La guida meno incerta per stabilire lo stato del testo restano i commentari: ma non tutti i testi sono commentati e non tutti i commentari sono pervenuti.

    I tantra śivaiti sono una massa di letteratura anonima, che si occupa principalmente di tecniche di meditazione e di pratiche rituali. Seguirà una scolastica, opera di autori più o meno storicamente identificabili con una certa sicurezza, che tenterà di sistematizzare e organizzare in un insieme coerente il messaggio contenuto nei testi rivelati. E proprio in questo consiste probabilmente l’originalità della componente śivaita della letteratura tantrica rispetto agli orientamenti śākta o vaiṣṇava. Senza questa scolastica i testi rivelati resterebbero una sorta di massa indistinta, senza un indirizzo preciso.

    In primo luogo si noti che al diffuso termine tantrismo (da tantra che vale genericamente libro) va attribuito valore generico, laddove più specificamente la produzione tantrica di orientamento śivaita (śaiva) prende il nome di āgama (tradizione), quella viṣṇuita (vaiṣṇava) assume spesso il nome di samhitā (raccolte), e quella dei fedeli della Dea (śākta) si vede riservare il termine tantra inteso questa volta in senso proprio e non generale.

    Gli śaiva-āgama, considerati opere non composte da mano d’uomo ma sgorgati dalla bocca stessa della divinità, vengono divisi tradizionalmente in tre gruppi: quelli di orientamento non dualista (advaita), quelli dualisti (dvaita) e quelli misti (dvaitādvaita). L’epoca presunta di composizione spazia dal settimo al decimo secolo della nostra era. Data l’attribuzione alla divinità i nomi dei compilatori restano sconosciuti. Tra i più importanti citiamo solo il Kāmika, il Kālottara, il Kiraṇa, il Mataṅga(parameśvara), il Mṛgendra, il Suprabheda (orientamento prevalentemente dualista), il Netra, il Mālinīvijaya, il Rudrayāmala, il Vijñānabhairava e lo Svacchanda (orientamento non dualista, con varie suddivisioni al suo interno). Le tradizioni cui questi fanno capo sono diverse, e l’orientamento delle varie scuole (dualista, dualista-e-non-dualista, non dualista) che si appoggiano a essi è tale che spesso i testi vengono citati non solo a sostegno di una tesi, ma per confutarli, o ancora per accettare una dottrina particolare pur ribadendo l’estraneità della concezione generale del testo ai dogmi riconosciuti dalla scuola. Ogni tantra in linea di principio è diviso in quattro parti, che trattano rispettivamente dell’atto rituale (kriya), della condotta che il devoto deve seguire (caryā), delle discipline ascetiche (yoga) e della gnosi mistica (jñāna). Questa pare tuttavia una suddivisione prevalentemente teorica, tant’è che solo il Suprabhedāgama vi fa riferimento sin dal titolo (che vale "l’āgama ben ripartito"), e gli unici altri due che rispettano la quadripartizione sono il Mṛgendra e il Kiraṇa. Sono i commentatori che insistono su questo schema di classificazione, che è ben lungi dall’essere presente ovunque.

    Il lessico molto specializzato utilizza spesso immagini estremamente concrete della sfera sessuale. Per un processo comune all’evoluzione della spiritualità indiana, nel corso del tempo tali riferimenti all’erotica vengono via via percepiti come traslati, interpretati in senso allegorico e non più letterale. Da qui l’equivoco oramai diffuso dello śivaismo tantrico come religione pansessualistica: se è pur vero che il nucleo originale presenta un linguaggio concreto, non si può negare che le formulazioni mature lo intendono in maniera eminentemente simbolica. L’approfondimento di questa letteratura è quindi particolarmente difficile per lo studioso non indiano.

    Bisogna anzitutto considerare che questa letteratura è stata per un certo tempo a torto considerata estranea alla tradizione vedica. Al contrario l’esame dei testi mostra che gli epiteti assegnati a Śiva (o ad altre divinità: Viṣṇu per i tantra del pāñcarātra) sono tipicamente vedici. La continuità con le upaniṣad, specie quelle tarde, è evidente. Vi è un momento di fusione con le scuole del vedānta: così in ambito viṣṇuita gli śrīvaiṣṇava di Rāmānuja accettano sostanzialmente i testi del pāñcarātra e il vedānta śaṅkariano non considera sfavorevolmente le scuole āgamiche del Kaśmīr. Quest’ultima affermazione è tuttavia controversa, perchè sostanzialmente vale solo se si considera corretta l’improbabile attribuzione di un testo di orientamento tantrico a Śaṅkara (il Prapañcasāratantra). Nei circoli śaṅkariani contemporanei del Kerala si cita uno śloka secondo il quale il genuino seguace dell’advaita sarebbe interiormente śākta, esteriormente śaiva, e vaiṣṇava quanto alla condotta mondana. Vi è in conclusione, per quanto riguarda il mondo degli āgama, un continuo scambio con la tradizione hindūista che si richiama al Veda.

    Ciò che distingue la letteratura āgamica da quella vedica è altro. In linea di principio la letteratura vedica è aperta a tutti gli appartenenti ai tre gruppi sociali superiori (specialisti del sacro, guerrieri, produttori) di sesso maschile. Gli āgama invece sono diretti a sezioni molto più ristrette della società indiana: i devoti dell’una o dell’altra grande divinità (Śiva, Viṣṇu o la Dea), i quali recepiscono un insegnamento divino che presenta delle scorciatoie alle vie più usuali (ritualistica, devozionale, gnostica) verso la liberazione. Questi testi sono dunque destinati a un’utilizzazione limitata, sotto la guida di tradizioni costituite da maestro in discepolo, che affondano in età tendenzialmente immemorabili. È quindi decisamente erroneo considerare lo śivaismo āgamico prodotto di una religiosità popolare.

    Questa miscomprensione appare ancora più evidente quando si passi a considerare la vasta fioritura di scuole di pensiero che si richiamano agli śaiva-āgama.

    Una prima distinzione, che è divenuta fonte di un altro equivoco, è quella tra scuole settentrionali o kāśmīre e scuole meridionali, le quali ultime si esprimono in sanscrito ma anche in tamil (śaivasiddhānta). Sono definizioni largamente di comodo, dacché è con ogni evidenza chiaro che le tesi di orientamento śaivasiddhānta che, per esempio, Abhinavagupta attacca nel Tantrāloka, sono sostenute da esponenti della scuola che risiedono in Kaśmīr. Né mancano studi⁵ che tentano di mostrare un’originaria componente kāśmīra nelle scuole che poi si diffonderanno al Sud del subcontinente.

    Questo chiarimento ci permetterà di collocare da un lato il gruppo delle scuole kāśmīre, genericamente improntate a un orientamento non dualista (advaita), dall’altro quello delle scuole facenti capo allo śaivasiddhānta, genericamente dualiste (dvaita), senza attenerci a un criterio di rigida collocazione geografica. In altri termini la contrapposizione significativa si rivela quella tra dualisti e non dualisti, indipendentemente da considerazioni geografiche o linguistiche.

    Possiamo ora presentare a grandi linee alcune tra le più importanti opere della letteratura speculativa e devozionale dello śivaismo āgamico.

    Iniziamo con lo śaivasiddhānta. Vi è anzitutto un’antologia di vite di santi e maestri, nota come Tiruttoṇṭattokai, di Cuntarar (VII sec. d.C.), morto a diciotto (o trentadue) anni appena. Questa biografia è servita di base a un’opera dell’undicesimo secolo, che la amplia e abbellisce: il Periyapurāṇam di Cēkkilār, vissuto a Cidambaram (Tamilnāḍu, 50 Km a Sud di Pondichéry), sede di un celebre tempio śivaita. Il Periyapurāṇam narra le vite di sessantatré santi designati con il titolo di nāyanmār, il più recente dei quali è lo stesso Cuntarar. Altra figura importante è il più antico Tirunāvukkaracu (sanscrito Vāgīśa, il Signore della Parola), più noto come Appar (il padre venerando), contemporaneo di re Mahendravarman I della dinastia Pallava (inizio del settimo secolo d.C.), che visse sino a ottantuno anni. I suoi inni, assieme a quelli di altri tre maestri (ācārya) che costituiscono con lui la serie dei quattro maestri comuni (sāmānyācārya) dei sessantatré nāyanmār, sono raccolti nel Tēvāram, in cui la figura più affascinante è forse quella di Campantar, che vive appena sedici anni, e anziché morire scompare in un cono di luce proiettato dall’emblema aniconico di Śiva (liṅga) del santuario di Nallurberumān. Sorte analoga incontra Māṇikkavācakar, autore del Tiruvācakam e del Tirukkovāiyār, vissuto trentadue anni, scomparso a Cidambaram nel sancta sanctorum del tempio, nel settimo secolo d.C.

    I quattro maestri comuni, ossia Appar, Campantar, Cuntarar e Māṇikkavācakar, sono da una tradizione tardiva posti a numi tutelari di quattro diverse vie di salvezza, basate rispettivamente sulla condotta rituale, sull’atto rituale, sull’ascesi e sulla gnosi salvifica. Occorre notare che queste quattro categorie sono imposte con una certa forzosità, come parte di quel processo di sanscritizzazione⁶ della cultura autoctona tamil, che pur messo in opera assai presto da vasti e influenti settori di un movimento sacerdotale proveniente dal Nord colonizzato dagli indoeuropei, non ha potuto mai cancellare del tutto l’originalità della cultura indigena.

    Al seguito di questi maestri ve ne sono degli altri, tra cui un’antica santa: Kāraikkālammaiyār. Vissuta nel sesto secolo, fu immortalata negli inni di Cēkkilār sei secoli più lardi. L’iconografia la rappresenta prostrata ai piedi di Śiva, con il corpo emaciato e il seno vizzo, mentre canta i suoi inni accompagnandosi con la musica.

    La sistematizzazione teoretica, iniziata con il Tirumantiram di Tirumūlar (quinto-sesto secolo d.C.) ha il suo fiorire con i due trattati di Uyyavantar I e II (l’uno discepolo dell’altro, databili al dodicesimo secolo), e con i quattordici trattati di Meykaṇṭar (tredicesimo secolo), il più importante dei quali è lo Śivajñānabodha (la comprensione della gnosi di Śiva). Esso, a onta del titolo sanscrito, è in tamil, e conta appena dodici strofe. La sua importanza tuttavia è capitale, come si può evincere dal numero e dalla mole dei commenti che lo glossano. Anzitutto vi è il commento del maestro del padre di Meykaṇṭar, poi divenuto discepolo di quest’ultimo, Sadāśivācārya (tredicesimo secolo), noto anche come Aruḷnanti: lo Śivajñānasiddhiyar (il compimento della gnosi di Śiva) in 328 strofe (śloka), primo di otto commentari. Tra questi vale la pena di citare quello di Śivāgrayogin (diciassettesimo secolo), in dodicimila śloka in sanscrito.

    Altro maestro importante è Umāpatiśivācārya (tredicesimo secolo), autore di sette trattati in sanscrito o in tamil. Tra questi ultimi va ricordato lo Śivaprakāśam (lo splendore di Śiva). Né va dimenticato l’Uṇmaiviḷakkam di Manavācakaṅkaṭantār. Si tratta, come si vede, d’una letteratura imponente.

    A fianco di questa corrente principale vi è poi una scuola minore dello śaivasiddhānta, che si occupa perlopiù di ritualistica. Il suo maestro più importante è Aghoraśivācārya. Questi commenta un’opera dell’undicesimo secolo che costituisce un po’ la summa dello śivaismo āgamico: il Tattvaprakāśa (lo splendore dei principi di realtà) del re Bhoja, leggendolo in chiave decisamente dualistica, spesso forzando la mano all’orientamento più sfumato e meno coerentemente settario dell’originale. Aghora compone anche un manuale di ritualistica (Kriyākramadyotikā delucidazione delle procedure del rituale) che segue molto da vicino la più nota Somaśambhupaddhati (manuale di Somaśambhu).

    Le scuole settentrionali o non-dualiste (advaita) poi possono dividersi in due sezioni, giusta una classificazione di Jagdish Chandra Chatterji⁷ fatta propria da Kanti Chandra Pandey: la divisione tra scuola della vibrazione (spanda) e scuola del riconoscimento (pratyabhijñā). La prima denominazione fa riferimento alla vibrazione dell’unico principio da cui prenderebbe origine l’esistenza del cosmo e dell’uomo; la seconda allude al riconoscimento da parte del devoto che in realtà non esiste alcuna dualità, e che egli stesso è identico a quell’assoluto che tanto bramava attingere.

    La prima sezione comprende in primo luogo le opere di Vasugupta (attivo tra 1’825 e 1’850 secondo Pandey): gli Śivasūtra (aforismi di Śiva, commentati poi da Kṣemarāja nella Śivasūtravimarśinī) e le Spandakārikā (strofe mnemoniche sulla vibrazione, commentate da Kallaṭa nel suo Spandasarvasva).

    Particolarmente interessante la genesi del primo: gli Śivasūtra sarebbero stati scoperti da Vasugupta (che propriamente più che l’autore dovrebbe essere considerato il redattore secondo la tradizione) nel modo seguente. Nel corso di un’apparizione onirica Śiva stesso mostrò a Vasugupta come trovare gli Śivasūtra incisi su una lastra di roccia.

    Gli Śivasūtra furono commentati parzialmente ancora da Kallaṭa, con il Tattvārthacintāmaṇi, e interamente da Bhāskarācārya (Śivasūtravārtika). Di Kṣemarāja (prima metà dell’undicesimo secolo) si possono ricordare, oltre alla Śivasūtravimarśinī summenzionata, altri commentari: allo Svacchandatantra (Svacchandoddyota), al Netratantra (Netroddyota), al Vijñānabhairavatantra (Vijñānabhairavoddyota), allo Dhvanyālokalocana di Abhinavagupta (a sua volta commento dello Dhvanyāloka, la luce della suggestione estetica di Ānandavardhana), al primo śloka delle Spandakārikā (Spandasandoha), e all’intera opera (Spandanirṇaya). La sua opera originale più importante è il Pratyabhijñāhṛdaya (il nucleo segreto del riconoscimento), autocommentato, che costituisce una delle fonti importanti della seconda sezione della classificazione di Chatterji.

    Essa comprende anzitutto la Śivadṛṣṭi (la visione di Śiva) di Somānanda, autore pure della Parātriṃśikāvivṛti, commento d’una sezione (Parātriṃśikā o Parātrīśikā trentina della suprema) del Rudrayāmalatantra. L’altro autore importante della scuola è Utpaladeva, che compose le Īśvarapratyabhijñākārikā (strofe mnemoniche del riconoscimento del Signore) autocommentate due volte (Īśvarapratyabhijñāvṛtti e vivṛtti), l’Ajaḍapramātṛsiddhi, l’Īśvarasiddhi (con vṛtti), la Sambandhasiddhi (con vṛtti, tutt’e tre vanno sotto il nome collettivo di Siddhitrayī triplice perfezione), e il commento (vṛtti) alla Śivadṛṣṭi di Somānanda.

    Altre due scuole importanti sono quella del kula (famiglia, intesa come cerchia iniziatica)⁸ e quella che ne costituisce una sottocorrente (con varie suddivisioni al suo interno), che ha nome krama o mahārtha, studiate da Kanti Chandra Pandey, Liliane Silburn e Navjivan Rastogi.⁹ Maestri di quest’ultima sono Lakṣmaṇagupta (figlio di Utpaladeva), Bhūtirāja e il figlio Bhūtirājatanaya. Una trattazione sintetica delle due scuole (oltreché di alcune opzioni della scuola trika, anch’essa sostanzialmente riconducibile al kula) è contenuta nella Mahārthamañjarī di Gorakṣa (alias Maheśvarānanda: dodicesimo secolo). Su altri autori più propriamente dvaita, quali Sadyojyoti (Bhogakārikā, Mokṣakārikā, Tattvatrayanirṇaya, Tattvasaṅgraha), Nārāyaṇa Kaṇṭha (Mṛgendrāgamavṛtti), e su scuole śaiva non strettamente āgamiche di vario orientamento (vīraśaiva, liṅgāyat, kāpālika, kālamukha, quella facente capo al Brahmasūtrabhyāṣya di Śrīkaṇṭha di tendenza advaita e simili) si rimanda alle presentazioni contenute in studi particolari.¹⁰

    Un cenno più esteso merita la scuola pāśupata, ossia dei fedeli di Paśupati, il Signore degli esseri soggetti a legame secondo l’interpretazione della scuola, anche se di per sé il termine Paśupati potrebbe più immediatamente tradursi come il Signore degli animali. Al suo interno viene teorizzato un modello di trasferimento del karman, del risultato etico dell’azione, della massima importanza. La scuola, fondata dal maestro Lakulīśa (alias Nakulīśa: terzo o secondo secolo a.C.) è molto antica e autorevole, tanto da meritarsi un posto nel Sarvadarśanasaṅgraha (la silloge di tutti i sistemi) di Mādhava (attivo intorno al 1350), una silloge delle opinioni dei diversi sistemi: il pāśupatadarśana viene esaminato accanto allo śaivasiddhāntadarśana e allo śivaismo kāśmīro (pratyabhijñādarśana). A maggior motivo che altrove si avverte qui l’inconsistenza delle interpretazioni dello śivaismo come religione popolare extravedica: la letteratura pāśupata (espressa nei Pāśupatasūtra di Lakulīśa con commento di Kauṇḍinya e nelle Gaṇakārikā) è farcita di citazioni dalla rivelazione (śruti) e dalla tradizione (smṛti) brahmanica, ed è rivolta essenzialmente a dei brahmani.

    Abhinavagupta e il Paramārthasāra

    Ma l’autore che direttamente ci concerne è Abhinavagupta, un vero gigante della tradizione śivaita (śaivasampradāya), scrittore assai prolifico e complesso, che abbraccia nelle sue trattazioni tutte le scuole esistenti al suo tempo, osservando un’impostazione advaita senza per questo aderire ciecamente all’una o all’altra scuola che a quest’orientamento si richiama (pratyabhijñā, spanda, kula, krama, trika). Su di lui, nato intorno al 950/960 e attivo sin verso il 1014/1015 d.C., e sulle sue molte opere, perlopiù edite per la prima volta nella Kashmir Series of Texts and Studies (KSTS), assai studiate in Italia da Raniero Gnoli e Raffaele Torella, che ce ne restituiscono edizioni da fonti manoscritte inedite, traduzioni di pregio e acutissimi studi, esiste un unico studio d’insieme, opera pionieristica ma ancor oggi valida di Kanti Chandra Pandey.¹¹

    L’opera che ci proponiamo di usare come base per il nostro esame delle vie di salvezza offerte al devoto, che gli consentano di aver ragione del proprio karman, è il Compendio della Realtà assoluta (Paramārthasāra). Il suo autore Abhinavagupta non è nuovo alla compilazione di sunti compendiosi, avendo composto tre epitomi della sua opera maggiore, l’enciclopedia tantrica Tantrāloka: il Tantrasāra, il Tantroccaya e la Tantravaṭadhānikā, di estensione decrescente. Il Paramārthasāra è un breve trattato (105 śloka: non si tratta però di un’epitome di un’opera più estesa, ma di un trattato autonomo), che Abhinavagupta riconosce¹² essere un adattamento in chiave śaiva delle Ādhārakārikā (alias Paramārthasāra) di Ādhāra (alias Ādiśeṣa).

    L’impostazione del testo di Ādiśeṣa è interpretata da Chatterji, Pandey e Silburn come di orientamento sāṃkhya, da Henry Danielson come conforme a un’impostazione bhedābhedādvaita.¹³ Secondo i primi, dunque, l’ispirazione andrebbe ricondotta alla scuola dualista del sāṃkhya che tanta influenza esercita sullo yoga, secondo l’altro punto di vista dovrebbe essere fatta risalire a un orientamento che cerca di conciliare dualismo e non dualismo. Sia come sia, l’opera che Abhinavagupta ne deriva ha marcata impronta non dualistica.¹⁴

    Un’altra opera importante di Abhinavagupta tenuta presente è il già menzionato Tantrāloka, edito anch’esso nella KSTS con il commento di Jayaratha, recentemente ripubblicato in India, e tradotto in italiano da Raniero Gnoli (senza commentario).

    Le altre opere citate e commentate nel testo sono rinvenibili nelle note bibliografiche. Tra le più importanti citiamo solo il Mṛgendrāgama con i suoi due commentari, edito nella KSTS (con il solo commento di Nārāyaṇa Kaṇṭha) e tradotto in francese da Michel Hulin; i Pāśupatasūtra di Lakulīśa; lo Śataratnasaṅgraha di Umāpati e la Śaivāgamaparibhāṣāmañjarī di Vedajñāna, due antologie di citazioni āgamiche.

    Struttura del saggio

    La struttura del presente saggio, articolato in quattro capitoli, è semplice e risponde a un unico criterio: la progressiva riduzione del campo d’indagine. Si parte infatti da una trattazione generale delle categorie di base della scuola, i trentasei principi di realtà (tattva) (I capitolo), per passare all’esame delle tre maculazioni (mala) del principio cosciente individuale nelle scuole śaiva kāśmīre di orientamento non dualista (II capitolo) e all’analisi del Paramārthasāra limitatamente al tema del karman e dei metodi per aggirarne o sconfiggerne l’efficacia (III capitolo), concludendo con l’accenno ad alcuni problemi più specifici sulla collocazione gerarchica di taluni gruppi di figure peculiari del sistema nel loro proprio universo di categorie (IV capitolo).

    È sembrato opportuno limitare al minimo i riferimenti bibliografici in nota, come pure la bibliografia finale, che potrebbe contare molti più titoli. Le citazioni di testi sanscriti sono state generalmente soppresse, o se indispensabili relegate in nota, per non appesantire troppo il dettato e consentire una lettura agevole al pubblico non specialista.

    Ci si augura che la lettura di quest’opera consenta a chi vi si accosti di comprendere un po’ meglio lo spessore di pensiero che sta dietro anche a scuole che un esame affrettato tenderebbe a liquidare come devozionali, negando loro autonomia speculativa.¹⁵ Ancora una volta s’impone la necessità di mettere da parte, finché esaminiamo il mondo indiano, le nostre categorie concettuali, che rischiano sempre di celarci molto più di quel che non ci aiutino a vedere.


    1 Va detto che la validità della formulazione śivaismo kāśmīro è stata messa in dubbio da studi soprattutto di A. Sanderson (si veda la bibliografia) per la sua genericità: scuole come la krama, la spanda, la pratyabhijñā e la trika sono troppo eterogenee per sopportare di essere costrette entro un contenitore che si rivela sempre più come generico e inadeguato dal punto di vista concettuale.

    2 I testi degli āgama, tradizionalmente attribuiti a divinità, sono conservati in manoscritti anche abbastanza antichi. Le scritture più note sono la grantha e la śāradā, in uso la prima in aree di cultura tamil, quindi al Sud, la seconda invece in Kaśmīr, dunque al Nord. La scrittura grantha ha un andamento curvilineo, tipico delle scritture dravidiche, laddove la śāradā presenta caratteristiche assai simili al cursus angolare della devanāgarī. Ma esistono anche manoscritti in telugu, malayāḷam e in varie scritture nepalesi.

    3 Basti citare R. Gnoli e R. Torella, su cui si veda la bibliografia.

    4 Per un inquadramento generale del tantrismo si veda A. Pelissero, Letterature classiche dell’India, Morcelliana, Brescia 2007, pp. 348-385.

    5 R. Gnoli, Gli āgama śivaiti nell’India settentrionale, in Indologica Taurinensia, vol. I (1973), pp. 61-69.

    6 Sul concetto di sanscritizzazione si vedano gli scritti di M.N. Srinivas in bibliografia.

    7 Si vedano anzitutto J.C. Chatterji, Kashmir Shaivism, Śrīnagar 1914, Chandigarh 1981 e K.C. Pandey, Abhinavagupta: an Historical and Philosophical Study, Varanasi 1936, ed. ampliata 1963; nonché R.K. Kaw, The Doctrine of Recognition (Pratyabhijñā Philosophy). A Study of its Origin and Development and Place in Indian and Western Systems of Philosophy, Hoshiarpur 1967; J. Rudrappa, Kashmir Saivism, Mysore 1969; L.N. Sharma, Kashmir Saivism, Varanasi 1972; F.L. Kumar, The Philosophy

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