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Un’infanzia lunga cent’anni
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Un’infanzia lunga cent’anni
E-book400 pagine6 ore

Un’infanzia lunga cent’anni

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Info su questo ebook

Traduzione di Marijana Puljić 
A Pola, tra i banchi del mercato dell’antiquariato di via Ciscutti, il  usicista Slavko Declaro ritrova un oggetto della sua infanzia e ne rimane abbagliato. È il globo dorato che da bambino si soffermava ad ammirare nello studio del padre dell’amico Vladimir e che si schiude lungo la linea dell’equatore. Dall’altra parte del mondo, l’hippie stagionato Vladimir Strahinja sta manifestando a Wall Street insieme ad altri antiglobalisti, quando riceve una telefonata da Pola che gli annuncia l’inaspettata morte della madre. Le circostanze del decesso di Gita Strahinja non sono chiare: il corpo viene rinvenuto seminudo, con la camicia da notte rialzata sui fianchi, in una posizione innaturale. Si sospetta un delitto, ma la polizia chiude il caso come morte naturale. I due amici non credono agli inquirenti, decidono di indagare da soli per scoprire com’è morta Gita e soprattutto capire perché alcuni oggetti di valore della famiglia Strahinja stanno misteriosamente comparendo tra le vie di Pola; proprio come il globo dorato ritrovato da Slavko. Un noir che porta in sé le tinte di una saga familiare e di un romanzo urbano storico sociale: attraverso la storia familiare di Slavko e Vladimir si ripercorrono cent’anni di storia della magnifica città di Pola, condannata a vivere una sorta di ‘infanzia centenaria’ a causa degli sconvolgimenti etnico-politici ciclicamente subiti.
LinguaItaliano
Data di uscita24 lug 2023
ISBN9791259600929
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    Anteprima del libro

    Un’infanzia lunga cent’anni - Amir Alagić

    Un’infanzia lunga cent’anni

    Amir Alagić

    Titolo originale: Stogodišnje djetinjstvo

    Published by Durieux, Zagreb, 2017.

    Slavko Delcaro, compositore e insegnante, è nato a Pola nel 1966. La sua composizione, Il pensiero di Prežihof, può essere ascoltata sulla piattaforma soundcloud collegandosi al profilo Slavko Delcaro, all’indirizzo: . Vive e lavora a Pola.

    La fine del mondo è imminente,

    crolli pure, non fa niente!

    Tratto da Biće skoro propast sveta

    diretto da Aleksandar Petrović

    1. Il mare ha sommerso l’emisfero boreale

    I fatti iniziarono a farsi più chiari di colpo, quando al mercatino dell’antiquariato del sabato in via Ciscutti, Slavko Delcaro vide un globo dorato che si schiudeva lungo la linea dell’equatore, come le labbra di un grosso pesce.

    Lentamente e con prudenza, come si fa con le cose rare e preziose, lo afferrò per il piedistallo cilindrico su cui ruotava la base e che sosteneva una piccola sfera terreste non più grande di una pesca matura. Al posto dei continenti la sfera era ricoperta da sottili foglioline dorate che da tempo sgretolatesi verso la cima infondevano il cattivo presagio che il mare avesse sommerso tutto l’emisfero boreale.

    Premette un pulsante e i due emisferi si spalancarono. Dal centro della Terra brillò un accendino dorato adagiato nel velluto verde. Pareva uno di quei piccoli pesi con cui si stabiliscono i grammi al mercato. Richiuse gli emisferi e li fece girare sul piedistallo. Subito cominciò a risuonare una melodia familiare, quasi dimenticata, che tanti anni prima, da bambino, era penetrata nelle sue orecchie e che, in quel momento, già dopo la prima battuta così zoppa e arrancante, si era messa a danzargli attorno alla testa per riversarsi poi nella via dimostrando che gli era rimasta vicino per tutto quel tempo, proprio come la moltitudine di immagini dell’infanzia perdute, che quella melodia portava con sé.

    Un antico disagio che a malapena riconosceva si impossessò di lui. Da quando lo aveva visto la prima volta, ben trentacinque anni prima, aveva desiderato di possederlo, anche a costo di rubarlo. Con quel desiderio erano trascorsi i mesi e gli anni della sua infanzia. Lo guardava attentamente con la coda dell’occhio, pensava ai vari modi per nasconderlo e portarlo via, con la sua immaginazione fanciullesca ponderava quanto danno e quanta vergogna avrebbe procurato a sé e ai suoi se l’avessero sorpreso a rubare, e ogni volta, giusto il peso leggero dell’accendino che sembrava un piccolo peso da bilancia, vinceva la paura e desisteva. A lungo andare quel desiderio si era raffreddato, proprio come nella troppa attesa si raffredda l’amore per la giovane che un ragazzo non ha osato avvicinare in tempo. Poi era cresciuto e frequentava sempre più di rado la casa dove, nell’angolo della grande scrivania, si pavoneggiava il globo d’oro. Gli sembrava che avendolo tolto da davanti agli occhi, lo avesse anche dimenticato, ma proprio come la ragazza desiderata viene solo apparentemente scordata e rimane invece per tutta la vita un muto dolore, così anche a Slavko bastò guardare di nuovo il globo perché in lui divampasse tutta l’inquietudine repressa.

    Lo fissò a lungo rigirandoselo tra le mani. Il venditore pensò che ormai il cliente fosse cotto a puntino e che bastasse aggiungere ancora qualche banale frase da mercante per concludere facilmente l’affare. Non sospettava minimamente che in quel momento Slavko si fosse allontanato e che per lui non esistessero più né il venditore, né via Ciscutti, né Pola, né tutto quel vasto e reale mondo. Esisteva solo il piccolo globo dorato nella minuscola Via Lattea di qualche minuscolo universo perduto nei grovigli cerebrali di un uomo che di colpo ritornava bambino. E se avesse guardato il suo riflesso in una delle vetrine circostanti, non vi avrebbe visto un uomo alto un metro e ottantacinque, irsuto, con la barba e già un poco provato, ma un bambino calvo che i genitori avevano rapato a zero tra mille urla quando i pidocchi di una qualche nidiata di cani gli si erano infilati sotto la radice dei capelli.

    Qualcosa gli si era palesato tra i grovigli dei ricordi, forse la nascita di una micro-stella, e quel qualcosa lo costrinse a sbirciare sotto il piedistallo, lì dove si stagliava un graffio lungo e sottile come una cicatrice, un graffio che anni prima proprio lui, preso dalla rabbia e dalla gelosia, aveva tracciato con l’ago del compasso. Quando aveva visto con quale facilità il delicato strato d’oro si era lasciato penetrare dall’ago affilato, si era spaventato. Forse aveva commesso quel gesto rude e improvviso perché mosso da ripicca infantile – se non può essere mio, allora lo distruggo – e aveva accettato il fatto che il globo non gli sarebbe mai appartenuto.

    Non c’era dubbio, era il globo della scrivania del – da tempo defunto – dottor Radovan Strahinja, marito della signora Gita, insegnante in pensione, la quale – pace all’anima sua – aveva lasciato questo mondo nemmeno due settimane prima.

    Certe cose semplicemente non hanno prezzo, pensò Slavko prima di chiedere al venditore quanto costasse quel ricordo nascosto tra dozzine di oggetti metallici rosicchiati dalla ruggine: candelabri, coltelli, lampade, caschi, monetine, gioielli, vecchi giocattoli a forma di autobus e aeroplani, bambole di latta, e poi custodie d’argenteria, stoviglie per il caviale e le salse, per le carni rosse e il pesce, per questo e quest’altro. Con i ricordi non si mercanteggia, fu ciò che gli passò per la testa subito dopo, e così provò a dimezzare il prezzo, al che il mercante disse il suo, Slavko ribatté e alla fine, come spesso accade, alla metà del prezzo aggiunsero la metà dell’altra metà, e per centocinquanta kune riuscì ad aggiudicarsi qualcosa che non era mai stato suo e che per tutta l’infanzia gli era danzato davanti agli occhi, attirandolo.

    Mai, nella sua vita, Slavko aveva rubato, e lì, sotto l’assalto di quell’irresistibile desiderio infantile, ridimensionato ma mai rimosso, gli sembrava di averlo fatto. Ficcò il globo nella borsa di tela tra l’insalata iceberg e alcuni pomodori, qualche sugarello inerte dagli occhi un po’ torbidi, un gambo di prezzemolo e tre cipolle bianche, poi corse a casa evitando le persone che incontrava lungo la strada.

    Nell’appartamento trovò un caldo insopportabile. Il sole batteva dritto sulle finestre del soggiorno, come se si fosse alzato in punta di piedi. Quando abbassò le persiane tutto il muro si coprì di puntini luminosi come un cielo notturno che si illumina di stelle. L’eccitazione che lo aveva spronato ad affrettarsi lungo il tragitto di colpo svanì e Slavko si sentì vuoto e stanco. Sistemò il cibo nel frigorifero e pensò che ormai si era abituato a lasciare che il pranzo si trasformasse in cena.

    Succedeva la stessa cosa anche su tutto il resto: ciò che abitualmente accade alle persone in un determinato periodo della loro vita, a lui accadeva troppo tardi, quando sia il desiderio che l’esigenza di quella determinata cosa sarebbero dovuti sparire. Questo gli lasciava nel petto una sensazione di incompiutezza e di perdita. Ne era consapevole, ma non aveva mai trovato la forza di cambiare. Arrancava a rilento rispetto alla vita, rintanandosi in disparte, da dove poteva godere di un’ottima visuale, ma senza la possibilità di agire; gli orologi e i calendari non fanno domande, le lancette strisciano e le foglie cadono... Solo la figlia l’aveva fatta per tempo, senza mai pensare – anche se di motivi per farlo ne avrebbe avuti – che forse non fosse sua.

    A ogni modo, in quelle condizioni non avrebbe potuto cucinare nulla. Così si mise sul divano, posò il globo sul tavolino davanti a sé e l’osservò a lungo mentre si confondeva nel cosmo dipinto sulla parete. In un’ora sconosciuta, durante quel viaggio astrale seduto sul divano, venne travolto dalla grande e soffice ala del sonno.

    Lo svegliò una melodia familiare accompagnata dal cigolio, anch’esso quasi melodioso, di un meccanismo arrugginito. Non riusciva a realizzare per quanto tempo avesse dormito. Vedeva appena che tutte quelle stelle si erano riversate e alla fine sparse sul muro vicino. Nel frattempo il sole aveva fatto molta strada.

    La ragazzina, come incantata, osservava il globo girandolo e rigirandolo in continuazione.

    «Finito scuola?», le chiese confuso, e lei, senza neppure guardarlo, rispose che per prima cosa le vacanze erano iniziate da un bel po’ e secondo, era sabato.

    Solo in quel momento aprì veramente gli occhi. I capelli di Sanja erano bagnati, lungo le spalle colavano delle gocce e l’impronta umida del costume da bagno si stagliava sul leggero vestito estivo. Il fascino per gli oggetti si può trasmettere da una generazione all’altra?, pensò guardando la figlia.

    Sanja era una ragazza saggia, avrebbe anche potuto rispondere qualcosa di sensato, ma lui invece di farle la domanda ad alta voce – e probabilmente non ci sarebbe stato un momento migliore – la investì con le tipiche affermazioni da genitore: devi cambiarti il prima possibile, prenderai freddo alle ovaie, com’è il mare, hai fame, con chi eri, non sarai mica andata in moto con qualche ragazzo?

    Non ricevette alcuna risposta, solo un mormorio incomprensibile. Conosceva bene la sua indole, così desistette da ulteriori tentativi, si diresse verso il frigorifero, tirò fuori il cibo che aveva comprato e con molto scrupolo lo distribuì sull’isola della cucina come se stesse sistemando i calici sull’altare.

    Allora lei gli chiese: «E questo da dove viene?»

    «L’ho comprato», le disse come se dovesse giustificarsi. Glielo prese dalle mani e lo mise sulla mensoletta accanto alla fotografia dell’ex moglie.

    «Hai tirato fuori di nuovo la sua fotografia», disse la ragazzina.

    «Solo per rinfrescarmi la memoria, questa mattina non riu-scivo a ricordare che aspetto avesse».

    «Non farci questo, papà. Mettila via», disse e andò verso il bagno.

    Il modo in cui aveva pronunciato quelle parole e il rumore dei suoi piedi scalzi che echeggiava lungo il corridoio, davano l’impressione che in lei si celasse una ragazza molto più matura della quattordicenne che in realtà era. Non era la prima volta che lo notava.

    Senza dire nulla, prese la fotografia e la ripose nel cassetto.

    Erano passati tre anni da quando li aveva abbandonati. Così non ce la faccio più Slavko, non ce la faccio veramente. Non sento più niente né verso di te, né verso la piccola, gli aveva detto e la mattina successiva era scomparsa. Alle spalle si era lasciata una lettera, sulla busta aveva scritto: Per Sanja. Slavko non la lesse mai. All’inizio sperò che Sanja gliel’avrebbe mostrata, che si sarebbe seduta accanto a lui sul divano, che avrebbe aperto la busta mettendosi a singhiozzare come fanno i bambini e allora lui l’avrebbe consolata a lungo, accarezzandole i capelli con il palmo della mano, dicendole che la mamma non la pensava così e facendo tutto ciò che deve fare un padre buono e comprensivo. Poiché non accadde nulla di tutto questo, con il tempo svanì anche la speranza e tutta la situazione gli sembrò così logica e sensata che credette ci fosse di mezzo lo zampino delle lunghe dita del Cielo per non aver mai fatto cadere quella lettera tra le sue mani. Era stato meglio così.

    Sanja non gli aveva consegnato la lettera perché l’aveva bruciata. Per due lunghi giorni aveva continuato a leggere senza sosta la lunga fila di lettere cercando dei messaggi nascosti tra le parole, un senso all’arrangiamento delle frasi, anche rileggendo all’indietro, ma parole del genere non c’erano. China sopra la vasca da bagno, all’alba del terzo giorno, passò la fiamma di un accendino sulla lettera. Piccoli pezzettini neri di carta incenerita volarono nell’aria umida e spessa del bagno. Se ai funerali fosse tradizione gettare i confetti, questo sarebbe un rito maestoso, aveva pensato in quel momento. Quel pomeriggio disse a suo padre: Da oggi, ufficialmente, non ho una madre. Aveva appena undici anni. " Wunderkind, avrebbe detto la sua insegnante Milica. Wunderkind, cari miei colleghi!"

    La madre non era andata lontano. Era rimasta a Pola, si era rintanata in un tenebroso e spoglio edificio di malta del quartiere di Kaštanjer e a volte accadeva che si incontrassero per strada. E mentre Slavko, con le parole che come spine gli rimanevano conficcate in gola, rimaneva pietrificato, Sanja la ignorava completamente. Non faceva trapelare in alcun modo che, proprio accanto a lei, passassero il sangue, la carne e le ossa di quel corpo da cui era nata. Trattenendo le lacrime, la madre rimaneva in piedi accanto alla figlia per un po’, e quando finalmente si faceva coraggio, allungava la mano verso di lei, la piccola si ritraeva improvvisamente allontanandosi di alcuni passi. Slavko rimaneva imprigionato nel silenzio per alcuni, lunghi, secondi fino a che, senza salutare e nascosto dietro a un sorriso amaro, si allontanava.

    A ogni nuovo incontro, lei sembrava prosciugarsi a vista d’occhio e le sue parole diventavano sempre più silenziose, come se non sapessero trovare un modo per uscire dalla bocca. Si era ingrigita e assottigliata, e così, d’un tratto, Slavko aveva smesso di notarla, anche se lei continuava a passare per le stesse vie. L’ultima volta che l’aveva vista fu quasi sei mesi prima. Le aveva fatto un cenno con la mano e lei si era limitata ad annuire scomparendo nella via. Scura e piccolina come l’ombra della donna che era stata. Penso che beva, aveva detto a Sanja e lei, senza nemmeno guardarlo aveva risposto a denti serrati: Non me ne frega un cazzo.

    Mise la fotografia nel cassetto, il globo lo lasciò sulla mensoletta. Cenarono in silenzio, come d’abitudine. Per tutto il tempo Slavko continuò a guardare con incertezza in quella direzione.

    La ragazzina capì immediatamente, seguiva di nascosto il suo sguardo. Alla fine gli disse sorridendo: «Tu sei più bambino di me. Non sei mai cresciuto».

    Sanja andò nella sua stanza come se sapesse che Slavko aveva bisogno di trasformarsi di nuovo nel fanciullo che era stato e trastullarsi ancora un po’ con il globo in modo che tutti i ricordi evocati si rovesciassero, all’improvviso, come onde contro la scogliera. Quei ricordi che poi sarebbero volati via in centinaia di pezzi nel momento esatto in cui avrebbe realizzato che il globo proveniva veramente dalla scrivania del dottor Strahinja, la cui moglie, Gita, di recente era stata trovata morta in circostanze sospette.

    Come mai il loro globo era finito al mercato delle pulci?

    Quella notte non riuscì a dormire. Si girò e rigirò nel letto, si scoprì, piegò il cuscino sotto la testa, si affacciò alla finestra cercando la luna dietro le nuvole. Si sarà mica arrotondata improvvisamente facendo ribollire l’acqua nei corpi umani senza permettermi di chiudere gli occhi? Ma la luna era sottile e curva come un’unghia tagliata, e per quanto fosse lontana dalla terra, così lo era anche dell’inquietudine di Slavko. È risaputo che nelle notti insonni le persone cercano sempre un bicchiere d’acqua come fosse un qualche elisir, e anche Slavko arrivò alla mensoletta, dove aveva appoggiato il globo, con un bicchiere d’acqua in mano. Lo aprì e provò a far scattare l’accendino, ma invano: sia la pietra focaia che il gas erano consumati da tempo. L’accendino ormai era solo un decoro, ma in realtà rappresentava il centro della Terra senza il quale il globo sarebbe stato leggero e vuoto e così avrebbe potuto – Dio non voglia! – volare nell’universo e perdersi in quella vastità, trascinandosi dietro tutto il genere umano. Poi lo fece girare e quello iniziò a suonare e suonare, gemendo, stridendo e ansimando, fino a che Sanja non si svegliò e dalla sua camera urlò: «Ma smettila una buona volta! Impazzirò con questa musica!»

    Se qualcuno gli avesse chiesto se quella notte avesse dormito o fosse rimasto sveglio, non avrebbe saputo rispondere. Gli sembrava di essersi girato e rigirato per tutto il tempo, lui come il globo. Sapeva però di essere stato svegliato bruscamente dal campanello della porta.

    Confuso, era andato ad aprire in pigiama e davanti a lui si era palesato Vladimir, figlio dei defunti Radovan e Gita, il suo migliore amico da tutta la vita.

    Non si vedevano da più di sei mesi.

    2. Il granchietto nella casetta della lumaca

    Vladimir passò tutta l’infanzia dicendo che sarebbe diventato un cosmonauta. Diceva proprio così: un cosmonauta. Aveva imparato questa parola dal padre, il dottor Radovan Strahinja, il quale, all’inizio degli anni Sessanta, si era trasferito a Pola dalla Serbia meridionale, nei pressi di Leskovac. Aveva servito da civile nell’Esercito Popolare Jugoslavo, all’ospedale militare, come dottore. Era un uomo onesto e rispettabile.

    Poco dopo il suo arrivo a Pola, lungo il Korzo, aveva conosciuto Gita, una bellezza della città, figlia di un farmacista invecchiato, diventato padre e vedovo nello stesso giorno. In quel periodo infelice, all’alba della Seconda guerra mondiale, il farmacista era già quasi cinquantenne e quindi l’aspirazione per il resto della sua vita era aspettare che la figlia crescesse, si reggesse in piedi da sola e si sposasse bene. Ebbe quella fortuna. Gita si innamorò di Radovan e se l’avessero chiesto al farmacista, che aveva cresciuto la figlia nello spirito della fratellanza e dell’unità, non ci sarebbe stata scelta migliore di avere come genero il dottor Strahinja. Si sposarono dopo sei mesi, e altrettanto tempo dopo venne al mondo Mila. Non che tra di loro ci fosse stato qualcosa prima del matrimonio, bensì la poverina nacque prematura. Ebbe solo il tempo di un vagito e alla terza alba morì; riuscirono a mala pena a registrarla all’anagrafe. Un anno dopo nacque Vladimir.

    Non divenne mai un cosmonauta. Non divenne mai un qualcosa che si potesse trovare nella lista delle occupazioni esistenti incollata alla porta dell’ufficio di collocamento.

    Accecati dall’amore genitoriale e dall’eterna paura che anche a lui potesse succedere qualcosa di orribile, Radovan e Gita gliela davano vinta in tutto.

    Nel momento in cui viene narrata questa storia, Vladimir si considerava un antiglobalista. Da sei mesi si trovava con i manifestanti a Wall Street. A quel tempo si erano abbastanza sgretolati e solo i più ostinati erano rimasti a russare e a scopare le giovani attiviste nelle tende e a riscaldare le lattine di zuppe e fagioli sui piccoli fornellini a gas. Inizialmente, sebbene fosse uno dei più vecchi, Vladimir accettava con dedizione i compiti che i pochi più esperti gli affidavano. Con il passare del tempo però aveva iniziato a riconoscere una sorta di schema, di affettazione e di chiacchiericcio, e così gli risultava sempre più difficile amalgamarsi alle persone che lo circondavano. E ce n’erano di tutti i tipi.

    Tra gli attivisti che dedicavano una particolare attenzione all’aspetto fisico, la maggioranza somigliava a Che Guevara, c’erano poi quelli che si pettinavano la barba grigia per somigliare il più possibile a Marx, tra le ragazze spuntavano alcuni ciuffi bianchi alla Susan Sontag, tre quattro Joe Strummer, dei Lennon, i pelati con il pizzetto alla Lenin, due bruttini che si vestivano come Bakunin, e ancora uno, con i baffi e gli occhiali tondi, che parlava sempre della Repubblica Socialista Federale d’America e portava sottobraccio il libro di Kardelj, Sulle basi dell’organizzazione sociale e politica, insistendo che lo chiamassero Ed. Ma la maggior parte di loro non cercava il proprio sosia tra i leggendari politici che la pensavano allo stesso modo. Uno di questi era Vladimir. Con il tempo ci si abitua al chiacchiericcio e si comincia a ignorarlo, era solito dire al suo amico Fred quando, con il bicchierino in mano, guardavano la verità negli occhi e realizzavano che il capitalismo non si lasciava abbattere così facilmente, perché quasi tutte le armi che gli si puntano addosso, quello le rigira a suo vantaggio. Alla fine dei conti, aveva detto una volta Fred, anche questi mocciosi sono tutti il futuro esercito del capitalismo. Di ogni maschera Anonymus comperata – e ne penzola una anche nella mia tenda – parte del denaro va alla MGM, e vedi tu, mio caro amico slavo, chi è, cos’è e quanto potente è il fottuto capitalismo.

    Si rallegravano entrambi per quegli incontri occasionali alla luce della lampada contro cui sbattevano furiose le falene impazzite, con una botte di whisky sotto il tavolino da campeggio. La pensavano allo stesso modo nel vero senso del termine, anche se le loro terre d’origine erano divise dal blu dell’oceano, e ogni conversazione si concludeva in modo catartico risvegliando la speranza in un nuovo e ravvicinato incontro.

    Dopo una di quelle serate piene di forte liquido giallo e di parole acute e sagge, il mattino portò a Vladimir la triste notizia della morte della madre. Nonostante la sbronza della sera precedente, si era svegliato leggero come una piuma. Era uscito dalla tenda allestita nel parco davanti a un grande edificio di vetro e aveva preparato il caffè, poi aveva fatto colazione con una lattina di pesce proveniente da chissà quali mari lontani e aveva iniziato a srotolare un grande stendardo con Jessie, non sapendo nemmeno cosa ci fosse scritto. Aveva disteso la parte nella quale si leggeva our money is not, quando il telefonino intonò La Marsigliese.

    Lo stava chiamando la vicina di casa Marija Zgrabljić, non serviva che si presentasse, l’aveva riconosciuta dalla voce che da tempo era penetrata nelle sue orecchie, almeno da quando gli gettava contro dell’acqua e lo costringeva a giocare il più lontano possibile dalla sua finestra. Parlava veloce scandendo le parole, come una speaker alla radio. Avrà paura di spendere troppo denaro parlando con gli Stati Uniti, pensò Vladimir, da sempre impotente nell’arte di controllare i pensieri sparsi da cui non poteva sottrarsi nemmeno alla notizia della morte della madre.

    Ma era esattamente così. Marija, appena riagganciato, aveva guardato suo marito Mihovil, che in città chiamavano il calzolaio Miho, e lui aveva stoppato il cronometro. Cinquantatré secondi, aveva detto sorridendo, e anche Marija aveva sorriso. Solo allora, all’improvviso, avevano realizzato che la loro storica vicina era morta e che lo avevano appena comunicato al figlio, e si intristirono. Oggi non accenderemo la televisione, aveva detto come a volersi riscattare per qualcosa. Per via del lutto.

    La grassa Jessie dal Massachusetts, come la chiamavano gli antiglobalisti in sua assenza, aveva pianto e l’aveva abbracciato a lungo, gli aveva spinto il suo largo viso tra il collo e la spalla e l’aveva riempito di saliva tanto che Vladimir aveva pensato di allontanarla, ma lì, anche lui guidato da qualcosa di sconosciuto, aveva invece accettato l’abbraccio iniziando a piangere e a stringerla sempre più forte, finché alla fine l’aveva afferrata forte per la testa e baciata sulla bocca, al che lei aveva sussultato di colpo, impaurita. Le salive mischiate si allungavano come il formaggio fuso. Lei lo aveva guardato confusa. Non sai cosa stai facendo, a causa dello shock. Fingeremo che questo non sia mai accaduto, gli aveva detto voltandogli le spalle e andandosene.

    Vladimir si era avviato dall’altra parte. Guidato dai piedi, aveva camminato a lungo, inconsapevole delle vie che stava percorrendo, per ritornare alla realtà solo molto tempo dopo, verso sera. Si ritrovò seduto su una panchina mentre stava sbriciolando del pane, decine di piccioni gli camminavano intorno alle gambe con le ali incrociate dietro la schiena, come dei pensionati. Un bambino, tenendo in modo goffo le braccia aperte, correva in mezzo al gruppo desideroso di prenderli, ma i piccioni svolazzavano prendendo il volo per un momento e atterrando poco dopo per le briciole. Come da noi e così pure negli Stati Uniti, gli uccelli hanno sempre fame.

    L’indomani lo chiamò Slavko. Passò molto tempo preparando le parole da usare per dargli la notizia, scrisse persino qualche appunto su un pezzo di carta, per rendersi poi conto che la vicina Marija lo aveva preceduto.

    Fin da bambino, Slavko non sopportava quella donna. Ogni volta che andava a far visita a Vladimir, lei stava alla finestra per non farsi scappare nulla. Non era cambiata, come fosse stata vecchia da tutta la vita. E l’aveva vista anche qualche giorno prima, quando la polizia l’aveva chiamato per chiedergli di andare alla casa della famiglia Strahinja, avrebbe potuto notare se mancasse qualcosa e aiutare così le indagini. Aveva cercato di spiegare che in quella casa non metteva piede da anni, anzi decenni, ma la gentile poliziotta era stata irremovibile. Ovviamente non notò nulla di strano. E se qualcuno, in quel momento, gli avesse chiesto se quel giorno il globo stesse nell’angolo della scrivania del dottore, lui non avrebbe saputo dirlo. Slavko l’aveva dimenticato, almeno fino a quando non lo aveva rivisto al mercatino delle pulci.

    Vladimir era sembrato piuttosto tranquillo. Aveva parlato con calma e chiarezza spiegando che in quei momenti difficili lo stavano aiutando i fratelli e le sorelle antiglobalisti, in particolare un certo Fred di San Francisco, e che sarebbe arrivato appena se ne fosse presentata l’opportunità. Si accordarono di rimandare il funerale di qualche giorno rispetto alla tradizione perché avrebbe voluto rivedere la madre ancora una volta, e in quanto figlio unico, avrebbe in ogni caso dovuto firmare alcuni documenti.

    Non si fece vedere per altre due settimane. Non rispondeva alle telefonate, c’era solo una voce automatica femminile che in inglese scandiva la notizia: la persona era irraggiungibile. Per questo motivo la signora Gita aveva trascorso quattordici giorni nella cella frigorifera, e un po’ si cominciò a dimenticarla. La si nominava solo per le inspiegabili circostanze della sua morte.

    All’inizio non era stato detto nulla a Vladimir per non farlo preoccupare fino a quando non fosse tornato, ma poi non aveva più risposto al cellulare e quindi anche se lo avesse voluto, Slavko non gli avrebbe potuto dire nulla, e quello che gli avrebbe detto sarebbe stato solo una moltitudine di parole messe una sulle altre, con un solo significato: sbrigati!

    E ora, dal nulla, eccolo alla sua porta. Si abbracciarono impacciati, come se esitassero, poi stettero in silenzio.

    «Come sta Sanja?», fu la prima cosa che chiese Vladimir.

    «Bene, bene, sta dormendo», rispose Slavko. «Si è già fatta ragazza».

    «Vedi Nevenka qualche volta?»

    «Poco. Quasi mai. Si dice che sia malata. Penso si sia data all’alcol».

    «E…», Vladimir fece una piccola pausa come se stesse pensando se continuare o meno. «Com’è la vita da single?»

    Slavko non aveva una risposta. Mentre era sposato – ma in realtà anche in quel momento – lasciava che la vita gli passasse accanto. Come se per tutto il tempo stesse solo aspettando che una buona volta tutto finisse.

    Così cambiò argomento e, agguantando il momento giusto, menzionò ciò che comunque già aleggiava tra di loro. «Non so se hai sentito qualcosa, ma sospettano una morte violenta. È vero, sul corpo non c’erano tracce di violenza, ma la posizione in cui l’hanno trovata lascia spazio a dubbi. Come se quella notte, oltre alla morte, le avesse fatto visita qualcun altro».

    «Dove l’hanno trovata?»

    «Nel corridoio. Era in camicia da letto», Slavko ammutolì per un momento come se stesse cercando di nascondere qualcosa.

    Vladimir lo capì. «Dimmi, cosa c’è?», la domanda echeggiò quasi come un ordine.

    «Non lo so…», iniziò Slavko con riluttanza. «Non so se c’è del vero in questo, ma ho sentito alcuni poliziotti dire che la sua camicia da notte era alzata sui fianchi». Poi tacque di nuovo, ma riprese subito come se dovesse portare a termine un lavoro molto faticoso. «E sotto non portava l’intimo».

    Vladimir si pietrificò. «Non è che qualcuno...?»

    «No, no, dicono che non ci sono segni di violenza».

    «Vorrei vederla al più presto», lo interruppe Vladimir rompendo veramente il disagio e scacciando dalla gola il groppo che la notizia gli aveva creato. «Non osavo andare da solo».

    Slavko allargò le braccia e si passò lo sguardo addosso come per dire che era ancora in pigiama.

    «Vuoi una tazza di caffè?»

    «Andrei subito, se puoi».

    «Certo», acconsentì Slavko.

    Solo quando salirono in macchina Slavko si ricordò del globo. Era rimasto sulla mensoletta. Si chiese se Vladimir lo avesse notato. Non sapeva se menzionarglielo in quel momento, proprio quando si era deciso a parlare dei sentimenti che lo avevano attanagliato nelle ultime due settimane mentre il grande oceano profondo lo separava dalla madre defunta. Lo attraversava ogni notte nel sonno e si svegliava la mattina nel caldo cemento di New York.

    Mentre le immagini della madre nuda gli balenavano davanti agli occhi diceva che la sua impotenza era troppo grande, e per questo continuava a parlare sempre di più, solo per scacciare quelle immagini indesiderate o almeno tenerle a una distanza di sicurezza. Era come se quella nudità gli avesse messo sulla lingua il nome di Fulvia. Continuava a parlare di lei solo per allontanarsi dal pensiero della madre.

    «Ci siamo sentiti una decina di volte in queste due settimane. Più che in tutto l’anno scorso», disse.

    Slavko osava chiedergli raramente di Fulvia, soprattutto negli ultimi anni. Avevano un rapporto che non riusciva a capire, pieno di sconvolgimenti e dagli esiti più inaspettati. Si trascinavano attraverso la vita come legati da un elastico invisibile che impediva loro di separarsi, ma che allo stesso tempo era abbastanza allentato da permettergli di trascorrere mesi e anni in diverse parti del mondo, vedendo e amando altre persone, senza provare alcuna responsabilità né rimorso, per poi tornare improvvisamente l’uno all’altra come se qualcosa li tirasse. Ed era stato così per vent’anni.

    Avevano cominciato presto a viaggiare per l’Europa, con lo zaino in spalla e il biglietto più economico in tasca, a volte anche facendo l’autostop. In questi viaggi, la loro relazione aveva cominciato a cambiare e a complicarsi, come se la grandezza e la diversità del mondo stessero ampliando i loro confini cognitivi e al tempo stesso allargassero il terreno sotto i loro piedi. Improvvisamente, qualcosa che era sempre stato detto, manifestato e chiaramente definito, cominciò a perdere il suo significato, a trasmutarsi e a scomparire nelle distanze che si aprivano davanti a loro. E così tutto ciò che avevano imparato e che si poteva considerare una vita normale e stabile, venne scosso.

    Iniziarono a chiedersi per quale motivo dovevano portare a termine la scuola e l’università quando la vera conoscenza e la vera scuola si potevano trovare solo nella vita reale, nelle stanze affittate nelle province bavaresi e portoghesi, nelle storie di conducenti d’auto e di camion fermati con il pollice, nei compagni degli scompartimenti, nei nuclei di grandi città sporche, sulle pendici delle montagne, nelle lunghe e trascurate unghie di un mendicante che li guardava con gli occhi umidi e vitrei e piano, quasi dolorosamente, borbottava " merci" per il mezzo franco nel palmo della sua mano.

    A cosa servivano i diplomi, i matrimoni, i noiosi lavori d’ufficio, si domandava il loro giovane sangue bollente quando all’improvviso nella loro patria, come un fulmine a ciel sereno, scoppiò una guerra. Affascinati dalle altezze spirituali, i due non potevano concepire una cosa del genere. Per loro tutte le guerre erano finite in tempi remoti, lontano, intorno al ’45, e queste notizie li avevano colti completamente impreparati nel punto più occidentale dell’Europa continentale, dove la terraferma del Portogallo sprofondava nell’oceano. I loro genitori li avevano avvertiti di non tornare finché le cose non si fossero calmate, avevano inviato loro dei soldi per i primi tempi e i due si erano trovati del tutto straniti, come se uno schiaffo li avessi riportati alla realtà. Improvvisamente la festa era finita.

    Da allora era cominciata la lunga storia di rotture e nuovi inizi, due lunghe rette che scorrevano insieme lente e pigre come se non potessero fare altrimenti, ma appena si separavano impazzivano, si contorcevano e scarabocchiavano senza limiti immaginando di continuare una libertà un tempo interrotta, e quando tornavano a incontrarsi diventavano nuovamente calme e lente come fiumi di pianura.

    Soprattutto negli ultimi anni. Abituati uno all’altra oltre misura, difficilmente potevano iniziare una conversazione arrivando alla decima frase senza litigare. E il tutto perché si conoscevano talmente bene che uno già all’inizio del discorso avrebbe saputo quale sarebbe stata la reazione dell’altro, e l’altro avrebbe cambiato la sua reazione proprio per questo, solo per dimostrare che il primo aveva torto. Così si aggrovigliavano in un attimo e in questo groviglio creavano un altro nodo indissolubile che non avrebbero potuto superare. Quando i nodi si infittivano, i due si separavano e si concedevano ai loro viaggi per incontrarsi e riunirsi nei mesi successivi e trasformare di nuovo quelle linee vorticose in linee rette. I due fantasmi camminavano di nuovo per la città, due bellezze nella giovinezza, una coppia che faceva voltare le teste sul lungomare, e ora, invece, erano più che altro persone che per l’ozio continuo e la futile ricerca di quel qualcosa – chissà cosa – erano diventate grigie prima del tempo.

    Un elastico invisibile, rinforzato dalla paura della solitudine, li teneva – e così probabilmente sarebbero stati fino alla fine – in una relazione ormai tiepida e poco profonda, al punto da potersi aggrappare solo ai fili sottili e inaspettatamente resistenti dell’abitudine intessuta.

    «Ci siamo sentiti su Skype», continuò Vladimir mentre Slavko, ancora assonnato, guidava attento lungo la ripida via Omladinska assicurandosi che il semaforo verde non si spegnesse all’ultimo minuto. «Fulvia è in India. Ha detto che verrà al funerale. Loro due si sono sempre amate. Anzi, più stimate che amate. Mi farà sapere quando atterra. Oggi o domani. Le ho chiesto se avesse bisogno di un passaggio fino a Pola. Ha

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