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Il piccolo Lord
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E-book227 pagine3 ore

Il piccolo Lord

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Cura e traduzione di Riccardo Reim
Edizione integrale

Little Lord Fauntleroy, sesto romanzo di Frances Hodgson Burnett, apparve a puntate sul «St. Nicholas Magazine» nel novembre 1885 per giungere nelle librerie pochi mesi dopo, immediatamente divorato (è davvero il caso di dirlo) da centinaia di migliaia di lettori (anzi lettrici: pensato come romanzo per bambini, il libro suscitò un interesse quasi morboso soprattutto fra le madri) e raggiungendo in breve la vertiginosa tiratura di mezzo milione di copie. Il “piccolo Lord” divenne subito un personaggio proverbiale, un vero e proprio fenomeno di costume, addirittura una moda nell’abbigliamento dei ragazzi, e da oltre un secolo continua a essere un evergreen… Come è stato notato, il piccolo Cedric Errol con il suo faccino roseo aureolato di riccioli d’oro, rappresenta per molti versi l’altra faccia dell’Huckleberry Finn di Mark Twain.

«Il signore anziano si alzò dalla poltrona e lo osservò con uno sguardo penetrante. Poi si accarezzò il viso con la lunga mano affilata. Aveva l’aria piuttosto soddisfatta. «E così», disse infine lentamente, «e così questo è il piccolo Lord Fauntleroy».»


Frances Hodgson Burnett

(1848-1924), anglo-americana, è nota soprattutto come autrice di alcuni libri che ormai sono indiscutibilmente da annoverare fra i grandi “classici per l’infanzia” amati da generazioni e generazioni di lettori, come La piccola principessa (1905) Il piccolo Lord e Il giardino segreto (1909), questi ultimi pubblicati dalla Newton Compton.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854138575
Il piccolo Lord
Autore

Frances Hodgson Burnett

Francis Hodgson Burnett (1849-1924) was a novelist and playwright born in England but raised in the United States. As a child, she was an avid reader who also wrote her own stories. What was initially a hobby would soon become a legitimate and respected career. As a late-teen, she published her first story in Godey's Lady's Book and was a regular contributor to several periodicals. She began producing novels starting with That Lass o’ Lowrie’s followed by Haworth’s and Louisiana. Yet, she was best known for her children’s books including Little Lord Fauntleroy and The Secret Garden.

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    Anteprima del libro

    Il piccolo Lord - Frances Hodgson Burnett

    L’innegabile fascino dei riccioli d’oro

    Little Lord Fauntleroy, sesto romanzo di Frances Hodgson Burnett, inizia ad apparire a puntate sul «St. Nicholas Magazine» nel novembre 1885 – corredato dalle bellissime, innovative illustrazioni di Reginald Birch¹ – per giungere nelle librerie pochi mesi dopo, immediatamente divorato (è davvero il caso di dirlo) da centinaia di migliaia di lettori (anzi lettrici: pensato come romanzo per bambini, il libro suscita un interesse quasi morboso soprattutto fra le madri) e raggiungendo in breve la vertiginosa tiratura di mezzo milione di copie. È finalmente il grande successo, la popolarità alla quale Frances aspira cocciutamente da quando, circa dieci anni prima, ha cominciato a pubblicare con una certa regolarità racconti e articoli su riviste come Godey’s Lady’s Book, Harper’s Bazaar, Peterson’s Ladies Magazine...: la bimba dagli occhi sognanti (così almeno lei stessa si descrive nell’autobiografia del 1893, One I knew the Best of All) immersa nell’affascinante mondo dei libri è divenuta negli anni una donna forte e volitiva, lavoratrice instancabile e sagace amministratrice di se stessa, meticolosamente dedita alla costruzione del personaggio che ha fermamente deciso di essere. Proprio con il successo di Little Lord Fauntleroy, infatti, Frances, attentissima ai meccanismi dell’industria editoriale americana, inizia a formare – e a pubblicizzare accortamente – la raffinata, preziosa, charming immagine della Romantic Lady, la futura «Princess of Maythan» (per citare la definizione non priva di ironia di Henry James)² che vive e lavora in un’atmosfera di sogno circondata dall’amore dei suoi «adorati e adoranti» figli Lionel e Vivian...³ Sarà proprio quest’ultimo, nato il 9 aprile 1876, a fornire il modello per Cedric Errol, il piccolo americano erede dell’immensa fortuna di un vecchio nobile inglese: in una foto pubblicitaria del 1886 (realizzata in occasione della trasposizione del romanzo sui palcoscenici) eccolo apparire perfettamente abbigliato come il protagonista del libro, con tanto di morbidi riccioli biondi ricadenti sulle spalle, gran colletto di pizzo e scarpini alla Oscar Wilde (il quale poco tempo prima, nel suo tour di conferenze negli Stati Uniti, aveva onorato il salotto della scrittrice di una sua visita), leziosamente in posa nel celebre «flamboyant velvet pageboy costume» con il quale centinaia di madri americane vorranno di lì a poco infagottare i loro recalcitranti figli sognando di vederli meravigliosamente belli e inappuntabilmente educati come, evidently, devono essere i loro nobili e più antichi parenti europei dall’altra parte dell’Atlantico...

    Il piccolo Lord Fauntleroy, dunque, esiste davvero, è possibile, concreto e tangibile: realtà e fantasia finiscono così, magicamente, per sovrapporsi e coincidere (espediente già usato più volte dal feuilleton e che anche il romanzo rosa, più tardi, farà proprio) creando nel lettore una sorta di spaesamento che favorisce una serie di fantasticherie e di proiezioni anche al di là della vicenda romanzesca: si potranno, ad esempio (la fotografia è lì, modello indiscutibile), formare tanti piccoli Lord Fauntleroy vestendo i ragazzi con quell’abito romantico e suggestivo, assaporando così anche in casa propria (e in fin dei conti piuttosto a buon mercato) certe delizie aristocratiche della vecchia Europa...

    Due anni prima, la cultura americana aveva felicemente trovato la sua autonomia nella voce stridula e sgangherata, perentoria e petulante di Huck Finn, il piccolo vagabondo dall’inviolabile innocenza partorito dalla geniale fantasia di Mark Twain; qui, invece, nella fiaba-romanzo del bel bambino biondo e roseo ci si volta nostalgicamente – e con emozionata reverenza – verso l’originaria Albione (non va dimenticato che la Hodgson Burnett nasce a Manchester) con i suoi castelli, i suoi parchi, i suoi cerimoniali, le sue argenterie e le sue porcellane... Ecco dunque un vecchio e potente aristocratico inglese, un ricco, altero signore dell’epoca della Regina Vittoria, quando non si diceva Inghilterra, bensì Impero Britannico, un impero orgogliosamente basato sul culto indiscutibile della tradizione, dove nelle scuole, nelle chiese, nei locali pubblici, nelle ricorrenze festive, nelle abitudini alimentari si continuano a seguire usanze antichissime; dove i soldati portano da sempre le stesse divise e sventolano gli stessi stendardi suonando con le cornamuse le marce militari di un tempo; dove si prende il tè con le tartine imburrate vestiti di tutto punto e sempre at five o’clock sharp, anche in mezzo al deserto o nel cuore della giungla nera... Un impero, infine, dove ci sono questi parenti un po’ imbarazzanti e decisamente boorish, insomma i cosiddetti cugini americani, che il vecchio nobiluomo disprezza con tutto il cuore... Cugini?! Nel 1776 quei bifolchi avevano osato ribellarsi a Sua Maestà il Re d’Inghilterra – e ai suoi lord, ovviamente – creando una repubblica, si erano battuti gloriosamente contro le truppe inglesi dalle rutilanti divise rosse, loro, un esercito improvvisato di contadini, osti, mandriani, bottegai... loro, che avevano cominciato la rivoluzione gettando in mare tutte le casse di tè contenute nella stiva di una nave. Una specie di sfregio. Tipacci. Gentaglia poco raccomandabile, rabble. Altro che cugini, anche se parlano la stessa lingua. E anche su questo punto ci sarebbe parecchio da discutere: li avete mai sentiti aprire bocca? Da rabbrividire. Mandriani, per l’appunto, puzzolenti quanto i pellerossa: abituati a stare gomito a gomito con le vacche, a mangiare bistecche di bisonte, patate dolci e pannocchie di granturco, a masticare tabacco e a bere enormi cuccume di orrendo caffè...

    Ed ecco, accade che una di loro, una yankee, per una serie di circostanze straordinarie sposi uno dei figli del vecchio aristocratico e che dalla loro unione nasca un bambino, presto orfano di padre, il quale, per altre circostanze ancor più straordinarie, si trovi di punto in bianco a essere l’unico erede dell’immenso patrimonio familiare... Può mai il nobile nonno lasciare il sangue del suo sangue in mezzo a degli zotici così? Naturalmente no: il ragazzo dovrà trasferirsi in Inghilterra per essere educato a dovere, come si conviene al suo rango, imparando nuove regole e dimenticando al più presto tutte le stupidaggini di cui gli avranno imbottito la testa laggiù negli Stati Uniti... Come andrà a finire? È presto detto: nonno e nipote, senza neppure troppe difficoltà, imparano subito a volersi bene, in quanto il vecchio Conte di Dorincourt rimane letteralmente conquistato (come tutti, del resto, compresa la servitù del castello) dalla bellezza, dalla simpatia e dai modi raffinati del bambino (il quale ha tutti i requisiti fisici e morali del principino), mentre quest’ultimo è talmente candido e sprovveduto (fino all’incredibile, ma non va dimenticato che ci troviamo in una sorta di fiaba) da non accorgersi mai, in alcun modo, del carattere dispotico ed egoista del nonno. Tanti buoni sentimenti, insomma, ma propinati dall’autrice con bel garbo e indubbia abilità, in una prosa sobria e scorrevole, tanto che Little Lord Fauntleroy è ancora oggi un evergreen tradotto in decine di lingue e presente in quasi tutte le collane di letteratura per ragazzi.

    Si è voluto parlare, a proposito dell’attualità di questo romanzo, di «incontro-scontro tra due culture» (Antonio Faeti), di «differenza», di «rispetto», di «confronto»... Ma è davvero un americano il piccolo Cedric Errol? In realtà è un cugino accettabile perché è assolutamente eccezionale, nelle origini come nell’educazione e nel fisico. È un inglese accidentalmente nato in America, e il suo pregio maggiore, a ben guardare, è proprio quello di essere sorprendentemente così poco americano nei modi (tranne il vezzo di tenere le mani in tasca) e nell’aspetto, come pure, del resto, nelle idee, a parte qualche infantile, generica affermazione sul Quattro Luglio e sull’illuminata generosità che i ricchi dovrebbero avere verso i poveri: cose accettabilissime e persino divertenti in una bella bestiolina ammaestrata che sa fare con garbo la riverenza e sedere a tavola compostamente. Lo scarruffato vagabondo Huck o il piccolo-borghese Tom Sawyer verrebbero bene accolti con altrettanta facilità? C’è da dubitarne: la loro voce nasale e la loro camminata dondolante non sono fatte per gli antichi castelli d’Inghilterra, né loro acconsentirebbero a piegarsi alle compostezze dell’english etiquette... Il fatto è che il piccolo Cedric – sempre rosso per l’emozione, sempre allegro e rispettoso, sempre sorridente e saltellante, sempre con i suoi lucenti golden curls da Shirley Temple ante litteram – finisce quasi per irritarci, facendo tornare alla mente (almeno ai lettori italiani) un altro proverbiale ragazzo, dal destino e dalle vicende diversissime ma altrettanto inappuntabile e stucchevole, vale a dire Ernesto Derossi, il primo della classe di Cuore – anzi, «Il libro Cuore» – di Edmondo De Amicis (pubblicato, guarda caso, pochi mesi dopo Little Lord Fauntleroy e salutato da un successo altrettanto plebiscitario in tutto il mondo) dove, anche lì, i differenti (ma questo, a ben guardare, ha davvero poca importanza) scontri e confronti dell’Italietta postunitaria vengono affrontati in mezzo a dolci sorrisi, gesti generosi e lacrime di consolazione... Quel Derossi, dicevamo, che non sfigurerebbe di certo nei saloni del castello di Dorincourt accanto al vecchio nonno aristocratico, e al quale il titolo di Lord sembra calzare come un guanto, poiché dotato, lui pure, di un perfetto physique du rôle: «grande, bello, con una corona di riccioli biondi, lesto che salta un banco appoggiandovi la mano su; e sa già tirare di scherma»...

    RICCARDO REIM

    ¹ Per le sue illustrazioni (che contribuirono non poco alla fortuna del romanzo) Birch prese come modello Vivian Burnett, secondogenito della scrittrice, che in seguito diverrà la vera e propria incarnazione del piccolo Lord Fauntleroy.

    ²James, nonostante il vero e proprio corteggiamento della scrittrice nei suoi confronti, non avrà mai una gran stima della Burnett, considerandola sempre una sorta di parvenu.

    ³ Con una sorta di curioso – e inquietante – sdoppiamento, Frances Hodgson Burnett da un lato aderirà con ostentazione ai più triti stereotipi della signora romantica (ad esempio facendosi chiamare con una serie di nomignoli, storpiamenti e diminutivi quanto mai leziosi se non inopportuni: Mammie, Mammiday, Small Princess, Fuffy, Fluffina, Fluffiana...), mentre dall’altro rivelerà, nella vita pubblica come in quella familiare (due volte sposata e due volte divorziata, ad esempio) un carattere tirannico, sorprendentemente deciso e anticonformista.

    ⁴ Vedi a tale proposito Antonio Faeti, Coraggio e poesia della differenza, postfazione a Frances H. Burnett, Il piccolo Lord Fauntleroy, Rizzoli, BUR, nuova ed. Milano 2010.

    ⁵Edmondo De Amicis, Cuore, Il primo della classe.

    Nota biografica

    Frances Eliza Hodgson Burnett nasce in Inghilterra, a Manchester, il 24 novembre 1849 e muore a Plandom (Manhasset, Long Island) il 29 ottobre 1924. Fin da bambina rivelò un grande amore per la lettura, nonché un carattere alquanto indipendente, incline alla fantasticheria e alla solitudine. Subito dopo la morte del padre, nel 1864, la famiglia, in condizioni finanziarie alquanto precarie, si trasferisce negli Stati Uniti, a Knoxville, nel Tennessee. Le cose peggiorano ulteriormente quando le promesse di aiuto da parte di alcuni parenti si rivelano infondate e quando anche la madre, nel 1870, viene a mancare. È così che la diciottenne Frances, dotata di un carattere alquanto deciso e intraprendente, comincia a scrivere regolarmente, anche per far quadrare il magro bilancio familiare: «Godey’s Lady’s Book», «Harper’s Bazaar», «Scribner’s Monthly», «Peterson’s Ladies’ Magazine» sono le riviste che ospitano con puntuale regolarità i suoi primi racconti. Nel 1873 si sposa con il dottor Swan M. Burnett di Washington D.C. Il suo primo romanzo, That Lass o’ Lowries (ambientato nel Lancashire) vede la luce nel 1877, conoscendo una discreta accoglienza; escono quindi Lindsay’s Luck nel 1878 e Haworth’s nel 1879. Dopo essersi trasferita con il marito a Washington D.C., Frances, infaticabile pubblica Louisiana (1880), A Fair Barbarian (1881) e Through One Administration (1883), nonché il testo teatrale Esmeralda (1881), scritto in collaborazione con William Gillette. Nel 1886, con Little Lord Fauntleroy (apparso l’anno prima a puntate sulla rivista per bambini «St. Nicholas» ) arriva il grande successo: il libro vende più di mezzo milione di copie in un anno e viene tradotto in dodici lingue. La figura del protagonista è modellata sul secondo figlio della scrittrice, Vivian, nato nel 1875 (il primogenito Lionel, è del 1874, e morirà a soli sedici anni). Dal 1887 Frances comincia a dividere la sua vita e la sua attività professionale tra gli Stati Uniti e l’Inghilterra (dove, dall’estate del 1890, vive a Great Maytham Hall, di cui ritroveremo gli splendidi giardini in The Secret Garden), mentre continua a scrivere a getto continuo libri per adulti e per bambini: Sara Crewe (1888), The Fortunes of Philippa Faifax (1888, il suo solo libro a non avere l’edizione americana), The Pretty Sister of José (1889), The Drury Lane Boys’ Club (1892), la sua autobiografia The One I Knew the Best of All (1893), A Lady of Quality (1896)... Nel 1898 divorzia da Swan Burnett, conservando però il cognome per motivi professionali. Nel 1900, dopo una convivenza che non manca di destare scandalo, sposa il suo business-manager Stephen Townsend, da cui divorzierà senza troppi rimpianti neppure due anni dopo. Nel 1905 prende la cittadinanza americana, e dal 1907 va a stabilirsi nella stupenda tenuta di Plandome Park, a Long Island, tenendo un tenore di vita costosissimo e stravagante. Sono di questi anni: In Connection with the De Willoughby Claim (1899), The Making of a Marchioness (1901), A Little Princess (versione rivisita e ampliata del suo precedente lavoro Sara Crrewe, 1905), Queen Silver-Bell (1906), The Shuttle (1907), The Secret Garden (che oggi la critica tende a considerare la sua cosa migliore, 1911), The Lost Prince (1915), The Little Hunchback Zia (1916), The Head of the House of Coombe (1922), In the Garden (postumo, 1925).

    R.R.

    Il piccolo Lord sugli schermi e la fortuna in Italia

    Dopo essere stato adattato più volte per il teatro (nel 1887 anche dall’autrice stessa) Little Lord Fauntleroy ha conosciuto un’ottima fortuna sugli schermi cinematografici:e, più recentemente, televisivi. La prima versione per il cinema è del 1914, Little Lord Fauntleroy, a opera di F. Martin Thornton, con Edward Viner e H. Agar Lyons, alla quale fanno seguito, nel giro di pochi anni, A Kis Lord di Alexander Antalffy (1918) e il famoso Little Lord Fauntleroy di Alfred E. Green e Jack Pickford, con Mary Pickford nel doppio ruolo di Cedric/Dearest e Claude Gillingwater (1921). Nel 1926 Augusto Genina gira il non troppo felice L’ultimo Lord, con Oreste Bilancia e Carmen Boni, mentre nel 1936 John Comwell dirige Lord Fauntleroy, con Freddie Bartholomew e C. Aubrey Smith. Nel 1960 e nel 1971 arrivano due produzioni televisive italiane: lo sceneggiato Il piccolo Lord, diretto da Vittorio Brignole e il film TV Il piccolo Lord, diretto da Luciano Emmer e interpretato da Johnny Dorelli, mentre nel 1976 è la volta della serie televisiva inglese Little Lord Fauntleroy per la regia di Paul Annet. Nel 1980 arriva nelle sale cinematografiche l’importante produzione Little Lord Fauntleroy per la regia di Jack Gold, con Rick Schroder e Alec Guinness, mentre nel 1988 è la volta della serie animata giapponese Shoukoushi Cedie, diretta da Kôzô Kusuba. Nel 1994 e nel 1995 ancora due produzione televisive, la prima italiana, Il piccolo Lord (conosciuto anche come Il piccolo Milord), per la regia di Gianfranco Albano e l’interpretazione di Mario Adorf (di cui ci sarà un sequel nel 2001, Il ritorno del piccolo Lord, diretto da Giorgio Capitani), e la seconda americana, Little Lord Fauntleroy, per la regia di Andrew Morgan, mentre nel 1996 viene realizzato nelle Filippine il film Cedie, diretto da Romy Suzara, con Tom Taus e Ronaldo Valdez. Infine, del 2003 è la produzione russa Radosti i pechali malen’kogo lorda diretta da Ivan Popov.

    Fra le numerosissime traduzioni italiane (non sempre fedeli e non sempre integrali) vanno almeno segnalate: la classica, diffusissima edizione Salani Un piccolo lord, trad. di Piero Battaini, con le bellissime illustrazioni di Alberto Micheli, letta dai bambini di tre o quattro generazioni; Il piccolo lord, trad. di Scilla Alfieri e Mary Tibaldi Chiesa, AMZ, Milano 1960; Il piccolo Lord, a cura di S. Molinari, Mursia, Milano 1990; Il piccolo Lord, trad. di A. Mazzoni, Euromeeting, Milano 2003; Il piccolo Lord, a cura di A.M. Vicini, Ghisetti e Corvi, Milano 2010; Il piccolo Lord Fauntleroy, trad. di Daniela Padoan, nuova ed. Rizzoli, BUR, Milano 2010; Il piccolo Lord, trad. di R. Pasini, nuova edizione, De Agostini, Milano 2011.

    R.R.

    Il piccolo Lord

    Capitolo primo. Una grande sorpresa

    Cedric non sapeva quasi nulla delle proprie origini: nessuno gliene aveva mai parlato. Suo padre era inglese (di questo era a conoscenza perché glielo aveva spiegato la mamma) ed era morto quando lui era molto piccolo, tanto che ne serbava appena una vaga immagine. Ricordava che era piuttosto alto, con gli occhi azzurri e dei lunghi baffi... e ricordava anche com’era divertente quando se lo caricava sulle spalle portandolo a spasso su e giù per la stanza.

    Fin dalla morte del padre, Cedric si era reso conto che era meglio non farne mai parola con la mamma. Quando suo padre si era ammalato, Cedric era stato mandato via, e quando lo avevano fatto tornare era già tutto finito. Sua madre, che pure era stata molto male, cominciava soltanto allora a potersi sedere sulla poltrona accanto alla finestra: si era fatta pallida e smunta, le fossette erano sparite dal bel viso pieno di dolcezza e gli occhi, colmi di dolore, sembrava fossero divenuti più grandi. Adesso vestiva di nero.

    «Tesoro mio», le chiese Cedric (il papà la chiamava sempre in quel modo, e il bimbo aveva imparato da lui), «tesoro mio, il papà sta meglio?».

    La mamma ebbe un leggero tremito, e Cedric la fissò inquieto: c’era qualcosa nei suoi occhi che gli fece intuire che stava trattenendo a stento le lacrime.

    «Dimmi, tesoro mio, il papà

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