Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

I luoghi del noir: Quarta antologia di racconti in memoria di Marco Frilli
I luoghi del noir: Quarta antologia di racconti in memoria di Marco Frilli
I luoghi del noir: Quarta antologia di racconti in memoria di Marco Frilli
E-book360 pagine4 ore

I luoghi del noir: Quarta antologia di racconti in memoria di Marco Frilli

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

L’espertissimo Marco Frilli, fin da ragazzino divoratore di volumi e lavorativamente sempre nel settore editoriale, pretendeva dai suoi autori – oltre a una buona capacità di scrittura, trame adeguate e personaggi a ‘tutto tondo’ – una forte caratterizzazione ambientale delle loro storie, scelta vincente che permette ora al catalogo della casa editrice di spaziare dalle Alpi alla Sicilia. Questa antologia porta dunque il lettore a compiere un gran tour dei ‘luoghi del noir’ attraverso quarantotto racconti di autori che, per senso di appartenenza alla propria zona di nascita o di adozione, ne fanno scoprire non soltanto crimini e delitti, ma paesaggi, storia, società, tradizioni, aspetti sconosciuti e finanche cibi e vini locali. Ma non solo. Alcuni brani, ambientati in non-luoghi (come treni, cinema o improbabili ‘aldilà’) da sempre fonti di ispirazione per schiere di autori, creano la sensazione di essere in un posto che vede convivere il tutto e il nulla, dove ci si incrocia senza entrare in relazione o si fanno incontri, più o meno piacevoli, che cambiano la vita. Per finire: i cinquantadue scrittori – alcuni di loro scrivono in coppia – attraverso i loro investigatori “seriali” (spesso in compagnia dell’indimenticabile “gran capo” Frilli) che il pubblico dei lettori qui ritrova o può imparare a conoscere, ci mostrano con i loro racconti, ora spietati ora commoventi, come la linfa vitale assorbita dai propri territori sia indispensabile per creare noir brevi ma dalle righe tanto pulsanti da non poter che coinvolgere.
A Marco, con inalterata amicizia.
Armando

Gli autori
Bruno Morchio (prefazione) Mirko Addesa, Adriana Albini, Massimo Ansaldo, Adelaide Barigozzi, Maria Bellucci, Marina Bertamoni, Emiliano Bezzon, Mauro Biagini, Marco Bonini, Fabrizio Borgio, Rino Casazza, Armando d’Amaro, De Bastiani&Cambiaso, Carla de Bernardi, Arianna Destito Maffeo, Massimo Fagnoni, Morena Fellegara, Luisa Ferrari, Nino Genovese, Mirko Giacchetti, Antonella Grandicelli, Grillo&Valentini, Domenico Ippolito, Oscar Logoteta, Sabrina Lombardo, Enrico Luceri, Achille Maccapani, Federica Marchetti, Nathan Marchetti, Maria Masella, Alessandro Maurizi, Roberto Mistretta, Giorgio Maimone, Manuela Monaco, Novelli&Zarini, Arianna Orrù, Paola Mizar Paini, Daniela Paletta, Mario Paternostro, Alessio Piras, Maria Rosaria Pugliese, Alessandro Reali & Lorenza Malusà, Nicoletta Retteghieri, Giada Trebeschi, Luana Troncanetti, Maria Teresa Valle, Paola Varalli, Nicola Verde, Laura Veroni.
LinguaItaliano
Data di uscita26 ott 2020
ISBN9788869434853
I luoghi del noir: Quarta antologia di racconti in memoria di Marco Frilli

Correlato a I luoghi del noir

Ebook correlati

Antologie per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su I luoghi del noir

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    I luoghi del noir - Armando d’Amaro

    Prefazione

    Marco Frilli era uno che di libri se ne intendeva. Annusava l’aria e sapeva cogliere al volo il vento che tirava. È nata così al principio del secolo una nuova casa editrice, e con essa una collana ormai conosciuta in tutto il Paese, i cui ingredienti essenziali sono storie gialle/noir ambientate in luoghi ben riconoscibili. Credo fu Paolo Cornaglia, illustre medico abituato a muoversi in direzione ostinata e contraria, ad inaugurarla con il romanzo Il sindaco. Dopo quel libro fu un succedersi di autori e romanzi, più o meno fortunati, che dettero vita a un filone che la stampa definì il giallo ligure. Un filone, non una scuola, che aveva come comune denominatore l’ambientazione (e, aggiungerei, la valorizzazione) dei nostri territori. Perché il giallo ligure, così come il noir mediterraneo, non rivela alcuna omogeneità stilistica o poetica tra i suoi autori, accomunati dal fatto di ambientare le loro storie in microcosmi ben definiti caratterizzati dal paesaggio, i profumi, la cucina e, qualche volta, anche la lingua.

    Dicevo che Marco era un editore che se ne intendeva. In quegli anni era uscita la trilogia marsigliese di Izzo, Vázquez Montalbán pubblicava Quintetto di Buenos Aires e L’uomo della mia vita, Petros Markaris Difesa a zona, la prima inchiesta del commissario Charitos, Massimo Carlotto Arrivederci amore, ciao, Camilleri stava diventando un autore di punta e la Sellerio scopriva Gianrico Carofiglio.

    Non so quanti di questi autori Marco avesse letto di prima mano, certo è che aveva colto lo spirito del tempo, un piegarsi dei gusti del pubblico verso un nuovo genere letterario che marcava fortemente i luoghi e indagava il grande fenomeno della globalizzazione (come dimenticare i tragici giorni del G8 di Genova?) attraverso le sue ricadute nei piccoli mondi delle nostre città, dei nostri quartieri e delle Riviere. Per indicare il fenomeno è stata inventata una parola: glocal.

    Qualcuno potrebbe obiettare: dove sta la novità? In fondo la letteratura, anche quella di genere, ha sempre mostrato interesse per i luoghi geografici, dalle grandi città come Pietroburgo, Londra, Parigi e New York alla provincia raccontata magistralmente da Flaubert e Capote. Per non dire del gusto per l’esotico di Agatha Christie.

    La differenza sta nel fatto che nel nuovo noir europeo i territori non sono una pura location dove si svolge l’azione, ma al contrario la trama costituisce spesso il pretesto per esplorarli, metterne in luce i segreti, le specificità, le contraddizioni. E non solo: anche la bellezza, le tradizioni, il fascino.

    E fu così che una collana di romanzi gialli è diventata uno degli elementi che hanno contribuito alla rinascita turistica della regione e delle nostre città. Quante volte mi è capitato, presentando i miei romanzi in Riviera, di sentire turisti lombardi e piemontesi richiedere in libreria quei libri gialli con la copertina arancione. Il foresto viene qui e si gode la lettura di un libro che racconta i posti dove ha scelto di trascorrere le vacanze. La letteratura serve anche a questo: conferire una suggestione, un alone mitico al paesaggio: la spiaggia, il mare, il pitosforo, il lùvego fondovalle o il carruggio che odora di piscio attraverso il racconto letterario acquistano voce e consistenza. La parola dà un sapore alle cose: una rosa è una rosa, scriveva Gertrude Stein.

    La ricetta si è dimostrata così vincente che a un certo punto autori di altre regioni e città hanno cominciato a raccontarle nella collana, alcuni con notevole fortuna di critica e di pubblico.

    La copertina arancione è diventata, come si dice oggi, un brand, un marchio di garanzia.

    E la cosa più piacevolmente sorprendente, in questa avventura, è che tra mille traversie e difficoltà, col bel tempo e nella bufera, quella piccola casa editrice compie quest’anno vent’anni; e vi assicuro che in una città come la nostra questo è già un mezzo miracolo. Il merito è del suo lungimirante e tenace fondatore, dei figli che ne hanno ereditato la missione, dei collaboratori e un po’ anche degli autori, tra i quali ho l’onore di annoverarmi.

    BRUNO MORCHIO

    Mirko Addesa

    L’ultimo, giuro

    Giaccio. Quanto possa essere brutto il termine, prima persona, indicativo, presente. A fronte di quanto sia bello all’infinito: giacere.

    Giacendo puoi fare innumerevoli cose: riposare, fare l’amore, essere morto. Io no, è probabile che stia morendo, ma non ne ho la certezza, ancora.

    Sono parallelo al pavimento, con la pancia a scorticare le piastrelle, alitando su quelle di fronte al mio viso, a terra, colpito. Sono caduto male, avrei preferito crollare diversamente, sbattere la nuca, avrei visto di più. Così immagino, sento le voci, i passi, le urla, le mani che vagano intorno al mio corpo, entrano nelle tasche, cercano, trovano.

    Nemmeno un colpo secco, di quelli che assorbono la vita e se ne impossessano. Mi hanno lasciato un minimo di scampo ma talmente infinitesimale che, a breve, sarò altrove. Ma è un breve che non sembra aver fine. Alcuni attimi hanno lo spazio temporale di una vita, detengono secondi come fossero giorni, imprigionano lancette e ammanettano lo scorrere naturale dei minuti.

    Giaccio. Sono nella sala d’attesa dell’Aldilà, senza nemmeno una seggiola su cui poggiare il culo. Giaccio.

    Due giorni prima

    Sono rientrato da poco. Ho venduto le armi all’arabo che spaccia kebab all’angolo. Riuscirà a cavarci qualcosa anche lui, come me. Ho svenduto, come si fa con tutte le cose di cui non hai più bisogno. A volte le butti, succede coi calzini, gli indumenti, le scarpe, i fiori. Con i segreti non puoi, devi lasciarli a qualcuno, che ne abbia cura, che ne faccia tesoro. L’arabo Khaled avrebbe preferito AK/47. Gli ho spiegato che non faccio terrore, che sono stato un tecnico di precisione, ho colpito ed ucciso su commissione, non in forza di un ideale, ho programmato i tempi ma anche i corpi, non sono andato mai a cazzo.

    Ha fatto storie, come tutti i compratori, deprezzato gli articoli come quelle massaie al mercato della frutta, che cercano sempre di infilare un’albicocca in più nel sacchetto, fiutando un affare effimero, a cui trovare spazio nella cassetta del frigo, quella in basso, quella che devi chinarti.

    Le rivenderà a qualche esaltato, che le deprezzerà a sua volta e, forse, non ci guadagnerà neppure l’albicocca. Cazzi suoi, in fondo.

    Mi sono tenuto solo una CZ 75, fabbricazione ceca, 9x19 Parabellum. Ho montato il silenziatore e ho puntato gli ultimi proiettili contro il divano, tutti verso lo stesso punto, ho disegnato una rosa poco garbata, ho perso. I miei anni sono stanchi, indosso occhiali da vista, quelli da vicino, poco consoni ad un killer. Deve vederci bene un assassino. Le lenti potrebbero dare meno nell’occhio, ma è solo un dettaglio, trascurabile. A quest’arma voglio bene. E la odio, al contempo. La usai una sola volta e sbagliai. Forse l’unico errore della mia vita, una che non c’entrava nulla, quando avrei dovuto sdraiare per sempre un figlio di puttana per cui mi avevano pagato anche poco. Non presi la commessa sotto gamba, affatto. Un professionista non bada al listino prezzi. Scivolai semplicemente, marciapiedi sdrucciolevole, una mattonella staccatasi tempo prima, l’inciampo, lo sparo, il caso non cercato, non voluto, la donna presa in pieno, la salvezza del bersaglio annunciato. Lei era in fila al bancomat. Che posto di merda per crepare, sembrava una rapina, non lo era. La donna la vidi subito dopo, che giaceva.

    È successo ieri. Ma sembra passato remoto, a cercare di dimenticare, ma la spugna non attacca lo sporco, lo inumidisce, non cancella.

    È la fine del piacere. È la sigaretta che trincia i polmoni e te lo fa notare, la tosse secca che espelle il respiro, il tuono che segue il lampo nella gola. E come quando hai deciso di smettere di fumare, butti via tutto, accendini, posacenere, tabacco. O forse no, quelle che restano le vuoi stanare, renderle innocue, accendi, abbocchi, due tiri e giù dentro il cesso, diventano il fondo macchiato della tazzina di caffè e non vuoi sprecare detergenti.

    Oggi ho deciso di chiudere la carriera. Ero un portiere infallibile e ho preso un gol da centrocampo. Ho rimesso la palla ed è tornata indietro, effetto sbagliato. Ho perso.

    Il giorno prima

    Oggi è terribile. Non riesco neanche a specchiarmi, ho la barba di almeno tre giorni e non era mai successo prima. Colette, la marsigliese che avevo amato, odiava i peli ispidi quando la baciavo, mi strusciavo sul suo viso e le lasciavo piccoli graffi. Doveva esagerare col fondotinta, per celare quei minuscoli segni che per una donna sono come cicatrici insanabili. La mia barba incolta la reggeva di un giorno, al massimo.

    L’amavo, ma non era mai stata mia. Era di tutti, o di chiunque la volesse. Ma era bastata ad attenuare i desideri, le voglie, gli strali di solitudine che mi colpivano a minutaggi alterni. E non avevo mai provato a toglierla dal suo mondo, mi accettava, l’accettavo, come le attese delle uscite dei suoi clienti migliori. Entravo da ultimo, per ultimo, volevo che il suo letto prendesse le mie forme la notte, restasse intriso del mio odore e che il primo bacio del mattino, il primo respiro da sveglia, il primo caffè fossero i miei. Mi accettava, l’accettavo. Lei scopava, io facevo l’amore. Per tanti è la stessa cosa, forse no, forse sì.

    Due giorni fa giaceva anche lei, della giacenza ultima. Una stanza di hotel di lusso, un gioco erotico finito male, hanno detto. Negli alberghi a cinque stelle non dovrebbe morire nessuno, non sono adatti agli ultimi sforzi del fiato, hanno camere con letti comodi, splendide viste dai balconi, cessi confortevoli in cui non vorresti mai cagare, profumi buoni che costringono le narici ad inarcarsi. No, non si dovrebbe morire nella bellezza, nello sfarzo.

    Quella notte ero stato il penultimo, avevamo sfidato il canone che regolava i nostri sensi. Un uomo dovrebbe difendere il suo amore, anche se fosse solo dalla sua parte. Lo avrei fatto, se solo avessi saputo. Avevo condiviso il suo corpo, non la sua mente, non la sua vita. Ed ora avevo perduto anche l’unico sostegno a cui avevo appoggiato la mia solitudine.

    Piansi, ma poco. Di quel poco che bastava ad inumidire le guance. Fosse stata mia moglie, avrei colato lacrime come un bambino. Chissà se lo avrebbe mai saputo, Colette.

    Il giorno

    Mi sono rasato. Ho messo addosso un abito pulito, il gingillo ceco ha dentro un solo proiettile, lo infilo nella cintura, all’altezza del ventre, vado a piedi. L’aria è umida, autunno inoltrato, sarà meno di un chilometro da qui.

    L’ora

    Gli sono davanti, sto per entrare. Un agente dietro un vetro mi chiede un documento, devo fare una denuncia, passo. Sono dentro, cammino piano, voglio che mi osservino, che mi guardino, butto un urlo, si accorgono di me, apro lento la giacca, la vedono, ecco. Uno, due, tre, fanno rumore. Ora li sento addosso, dentro di me, colpi a far male, ad uccidere. Giaccio.

    L’attimo

    Sono a terra. Mi hanno rigirato a faccia in su. Non mi conoscono, non mi riconoscono, non potrebbero. Nessuno sa, ho tenuto ben nascosta la mia identità. Mi hanno disarmato. Faranno congetture, domanderanno, risponderanno, sbaglieranno.

    Io sono sul ponte. Lo sto attraversando adesso, manca poco.

    Poi troveranno quell’unico proiettile. Intanto penseranno, che so, ad una strage.

    Invece no. È solo un posto.

    Uno di quelli in cui nessuno dovrebbe morire. Un altro.

    Ma è l’ultimo, giuro.

    Adriana Albini

    Delitto d’autunno al Lido di Venezia

    Questo mare scuro separato dalla Laguna da una lunga e sottile striscia di terra, in una giornata autunnale minacciata dal sole, non sembra poi così nero. Ma non è neppure blu, o verde. Piuttosto è di un color ottanio, blu petrolio chiaro. La sabbia invece è giallo paglierino, dai granelli spessi, turgidi, bagnati. Su di essa sono spiaggiate migliaia di conchiglie, mitili, vongole, ma soprattutto i gusci di alcuni gasteropodi, garusoli piccoli e grandi, giunti abitati da invasori di dimore altrui, crostacei divoratori di molluschi.

    Sei arrivata ieri nella tua Venezia, per le regolari fughe dalla vita in corsa, a ricongiungerti con le radici affondate sotto l’acqua come palafitte antiche e la bellezza di questa solitudine ti pugnala sempre appena sotto il cuore.

    Avete guardato questo mare in giorni diversi, con occhi diversi, tu e lui, occhi che non si incontrano più, ma hanno incontrato questo mare. Ieri il tempo era cupo, freddo gelido di un novembre continentale, oggi una lama di sole lo divide a metà, accende il paesaggio tenendo ferma da lontano la promessa di un nubifragio. Lontana, sospesa, dona a tutto la precaria seduzione dell’attimo.

    È la sensazione di dolore che restituisce il senso a un rapporto dai contorni poco definiti. Puoi metterci il timbro amore prima di vederlo partire, in una scatola forse un po’ più grande di quanto previsto, con un indirizzo forse meno leggibile di quanto servirebbe. Non sai se è un indirizzo sbagliato, se lo fosse, non essendoci il mittente non potrà tornare indietro. Girerà a vuoto sul nastro trasportatore del tuo ultimo viaggio. Uscirà e rientrerà dalle tende di gomma che separano la pista di atterraggio dalla sala degli arrivi. Entrerà, uscirà, si bagnerà, e poi verrà messo nella sala degli oggetti smarriti con un mese di tempo per essere ritrovato. Ci sono stati oggetti smarriti nella sala della tua vita. Tua madre li avrebbe riconosciuti ad uno ad uno e te li avrebbe restituiti come pezzetti di te. Negli ultimi anni tua madre non riconosceva più neppure la sua casa; mentre non riuscivi ad aiutarla a cercare la memoria, lei era capace di farti cercare te stessa.

    Così guardi il mare nero del lido d’autunno, non poi così nero, ti canti la canzone di Battisti, "tu eri chiaro e trasparente come me", e ti senti dentro, chiara, trasparente, la distanza. Hai raccolto tra le dita un garusolo gigante con una cucchiaiata di sabbia al suo interno. Lì c’era vita, il pulsante cuore di un mollusco, poi quello di un crostaceo, infine ora che è vuota solo la sabbia le permette di esistere anche dopo essere arenata. La scuoti e scuoti via un po’ di te. A vent’anni si è fatti per soffrire. È come se la stoffa dell’anima fosse resistente agli insulti del vento. Si deve soffrire, se no non si cresce. Poi a trenta si costruisce, a quaranta si matura, a cinquanta si fanno i bilanci, a sessanta si smistano arrivi e partenze. Negli uffici postali, sui nastri trasportatori girano importanti oggetti smarriti. Non si è allenati allo stesso tipo di sofferenza. Ti spossa, ti toglie il fiato, sai che non ce la puoi fare.

    Hai guardato lui, così distante e hai pensato È stato mio. Non ce la puoi fare. Il dolore rende tutto vivo e vero, ma inafferrabile, dà ai ricordi una luce come quella del mare veneziano, un colore ottanio, un’alabarda di sole che ti illumina e affonda la sua lama. L’incessante rumore dell’onda, risacca che va e viene, viene e va, vento che sferza, scompiglia i capelli, acceca lo sguardo, ti promette la tempesta. Apri le mani e tutto vola via, apri le mani e la scatola ben chiusa parte per destini sconosciuti. Tu non potrai sapere quali. Solo il dolore ti dice che nel cartone bagnato, lo spago fradicio, le lettere stinte dal temporale, dove tutto è lacerato, ancora si legge la parola amore.

    Dietro di te, quasi accatastate, come per scaldarsi a vicenda, sono state dismesse le capanne che popolano la spiaggia estiva, sì, capanne, non camerini, piccoli monolocali dove si mangia, beve, riposa e ci si cambia il costume bagnato.

    È lì che l’hai soffocato, proprio dietro una di quelle capanne. Non è stato un delitto efferato. Negli ultimi tempi lo coglieva una strana sonnolenza. Mentre tu leggevi, al riparo dal vento di novembre, lui si è coricato sull’asciugamano che avevi portato per un insolito pic-nic. Ti sei tolta il soprabito di piumino, vera piuma d’oca, così caldo e avvolgente. Glielo hai premuto con infinita dolcezza e affetto sulla bocca e sul naso. Prima, mentre consumavate i vostri consueti tramezzini che a Venezia sono tutt’altra cosa che in ogni altra città, hai miscelato per lui e per te uno spritz da campo, con prosecco ghiacciato e bitter, hai sciolto nel suo bicchiere da gita il più forte dei sonniferi, quello che somministravano a tua mamma quando il male la teneva insonne. Si è svegliato solo in parte, ha mugolato qualcosa, che tu hai pensato fosse un ti amo, poi si è rimesso a dormire, di un altro sonno, infinitamente più riposante. Lo hai coperto con quel piumino, come fosse il tuo ultimo abbraccio e ti sei vestita col suo giaccone.

    Ti troveranno, capiranno subito che sei stata tu.

    Torni a casa col traghetto. Una sola fermata. Casa, così l’hai sempre percepita, ma ora l’hai venduta. Tua mamma se ne sarebbe addolorata in un primo momento, ma ti avrebbe capita, ti avrebbe sicuramente mormorato Hai fatto bene. Ne hai tenuto solo un pezzettino per tua sorella e per i tuoi figli. Quello delle tue origini. Una stanza per loro.

    Mamma, e poi tu stessa, siete nate nella stessa camera, in uno strano posto centrale, eppure quasi sconosciuto, che si chiama Sant’Elena. Una zona di Venezia, nel sestriere di Castello, un quartiere alberato vicino ai Giardini e che ospita una parte della Biennale. Però non sembra Venezia, e tua mamma ti ha sempre detto: Io sono di Sant’Elena e mai o raramente sono veneziana. Anzi quand’era giovane e la accompagnavi per commissioni in piazza San Marco ti diceva: Preparati, oggi andiamo a Venezia.

    Qui in mezzo agli alberi, con l’eco dei vaporetti che vanno e vengono, ma non si vedono d’estate, coperti da una cortina di foglie, sembra di essere in qualche laguna ignota, e c’è una strana insolita pace.

    Qui hai depositato gran parte degli scatoloni di ricordi e pensieri della vita di famiglia, anche se non avrai più il tempo di aprirli, di guardarci dentro, di conservare gli oggetti preziosi, rimettere in cantina quelli in forse, e buttare quanto c’è di inutile.

    Hai sempre passato i periodi estivi a Sant’Elena, da bambina vi trascorrevi tutta l’estate, da metà giugno a fine settembre, poi due mesi quando studiavi, poi uno, poi due settimane, adesso pochi giorni a luglio e alcuni week end.

    Qui tra vecchi libri, mobili antichi, fori di tarli, foto in cornici di argento brunito, ritratti di antenati, fa capolino, piano piano, la tua anima tante volte ferita, e ora semplicemente stanca.

    È il primo autunno che viaggi senza sogni né speranze, senza progetti per il futuro, se non un facile e organizzato fine vita, che potrebbe durare tre giorni o vent’anni, ma che è comunque un fine vita.

    Tra i pacchetti di memoria ci sono molte illusioni che nella casa veneziana hai cercato di sigillare negli scatoloni del trasloco.

    Qui, nel luogo delle radici, tra parquet sbiadito, tappezzerie della ditta che fu di famiglia, sedie dalla spalliera vacillante, quadri a olio dell’Ottocento che sicuramente hanno un grande valore e invece non si sa neppure chi li ha dipinti: nelle vetrine della libreria occhieggiano le foto di una società che non esiste più, se non nei dolci amari pensieri sconnessi di tua mamma e degli altri anziani suoi amici ora scomparsi. Tanti metri quadri, stanze disabitate, suppellettili, gialli volumi illeggibili. La borghesia colta che aveva lottato per la libertà, che ha perso i suoi risparmi con la guerra, si era radicata ai muri delle case di proprietà, e da quell’edera ha ricominciato una generazione combattiva e rassegnata.

    Tua madre, come loro, era radicata all’edera e al gelsomino dei balconi che la nonna attenta annaffiava con costanza. Quando sei qui anche a te si attaccano alla pelle, ti si avvinghiano al capo come rampicanti, ti scoperchiano i pensieri, e giù, a frotte, da questo incredibile vaso di Pandora, escono i temibili ricordi. Lui, il tuo amore, li ha sempre catturati e addomesticati, ma non hai più l’angelo difensore.

    I ricordi, ora li lasci a brulicare tra le formiche del balcone. Stava per lasciarti, proprio lui, la tua radice migratoria.

    Lo hai trovato inaccettabile. E nell’ultimo spritz hai trovato l’ultimo sguardo d’amore.

    Tra Adriatico e Laguna in quella striscia di terra incantata chiamata Lido di Venezia.

    Telefoni dal cellulare, che tra quelle mura sembra scandalosamente fuori luogo: Venite a prendermi quando volete, mi costituisco.

    Consegnata spontaneamente al destino, con dentro un mare di novembre: non poi così nero.

    Massimo Ansaldo

    I cattivi sono buoni

    Sono contento del lavoro che svolgo come centralinista nella sede della Regione Liguria, a Genova.

    Ho 40 anni e appartengo alla categoria protetta, quelli che al bar sotto casa chiamano gli scemi.

    Quando entro a prendere un caffè però si trattengono e non mi prendono in giro. Gli sono grato. È brutto essere offesi. I medici mi hanno sempre detto che non devo considerarmi un minorato. Ho una intelligenza particolare, dicono, e di questa devo accontentarmi.

    L’intercity delle 6.25, che parte da La Spezia, è diventato un appuntamento fisso. Mi piace essere un pendolare: osservo i miei compagni di viaggio e cerco di scoprire che lavoro fanno, se hanno moglie e figli e se sono felici. Io lo sono, anche se non ho una fidanzata e neppure un figlio.

    Stamattina il treno non è affollato, ma rischio lo stesso di stare in piedi. Sono abbonato, senza posto riservato. Controllo sull’app delle Ferrovie i posti prenotati e mi seggo in uno di quelli rimasti liberi. Gli altri tre dello scomparto saranno occupati tra le stazioni di Sestri, Chiavari e Rapallo.

    Sono sempre meravigliosi gli squarci di panorama che scorgo dal finestrino. Pochi minuti dopo la partenza, il mare che circonda le Cinque Terre mi colpisce con una scudisciata di bellezza.

    Uno scappellotto sulla nuca mi spaventa.

    Giovanni, che cazzo pensi? Sempre con la testa tra le nuvole.... Remo è il mio persecutore seriale. Lui mi offende sempre.

    Hai saputo della rapina di questa notte? Hanno assaltato un furgone porta valori sull’autostrada... hanno rubato diamanti, ma non ci sono stati morti. E tu guardi fuori dal finestrino! Beato te, che non hai da pensare un cazzo!.

    Fortuna che si allontana, così non comincia a raccontare barzellette che non riesco a capire. Lo fa apposta, per umiliarmi.

    Il treno si ferma a Sestri Levante e tra i palazzi, scorgo il promontorio della Baia del Silenzio.

    Scusi, dovrei sedermi.

    È il primo viaggiatore con il posto prenotato. Un uomo alto e robusto. I modi sono spicci, è compresso in un completo casual di una misura più piccola, deve essere la prima volta che lo indossa. Si siede al mio fianco. Con la coda dell’occhio gli guardo le mani. Agita le dita come se dovesse scrivere su una tastiera.

    Nel frattempo siamo arrivati a Chiavari. Alla mia destra vedo la palazzina del carcere. Giurerei che anche il mio compagno di viaggio sia incuriosito dal penitenziario. Sarà un poliziotto, penso.

    Buongiorno.

    Ecco che arriva il secondo dei viaggiatori prenotati. Lo osservo. È tarchiato, sovrappeso e ha una testata di riccioli neri e imbiancati. Sembra uscito da un cantiere edile.

    Ho d eciso: chiamerò i compagni di viaggio con il nome delle fermate.

    Sento il treno che rallenta. Stazione di Rapallo, dice l’altoparlante di bordo. Due minuti e anche il terzo passeggero prenotato è seduto. Un sole timido sta rischiarando il Golfo Paradiso. Rapallo è il più distinto dei tre, il più educato. Ha capelli nerissimi impomatati con il gel. Mi sorride, sembra voglia studiarmi. Apparentemente ignora gli altri due, in realtà li guarda di sottecchi. Indossa un impermeabile costoso e tiene entrambe le mani in tasca.

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1