Omicidio ad alta quota: Un'indagine per il commissario Nino de Santis
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Maria Rosaria Pugliese, vive e lavora a Napoli. Ha pubblicato il romanzo Pazienti smarriti (1a ediz. Robin, 2010, 2a ediz. Homo Scrivens, 2016), classificatosi al terzo posto Premio Domenico Rea (2011), finalista al Premio Giovane Holden, al Premio Salvatore Quasimodo, e semifinalista nel concorso “What Women Write” indetto dalla Mondadori. Nel 2014 ha pubblicato Carretera. Quattordici storie strada facendo (goWare Edizioni). Con Fontaine blanche (Homo Scrivens, 2017) è stata finalista, nella sezione inediti, al Premio Bukowski 2016. Ha partecipato all’antologia La gola (Giulio Perrone Editore, 2008). È tra gli autori dell’Enciclopedia degli scrittori inesistenti (1a ediz. Boopen Led, 2009 e 2a ediz. Homo Scrivens, 2012). Con la poesia Scetate Benino, si è classificata al terzo posto nel concorso nazionale “Sinfonia Dialettale”. Premio Eccellenza Letteratura Nazionale Lecce 2018. Premio Megaris 2019.
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Omicidio ad alta quota - Maria Rosaria Pugliese
Capitolo 1
Per lo stilista, Giosafat Gori iniziava una di quelle serate trasgressive a tre, che ogni tanto si concedeva: divano, cibo e televisione. Cenava solo con se stesso, provando inesprimibili sensazioni di appagamento e libertà, che lo gratificavano più di qualunque altra compagnia.
In fin dei conti sono un misantropo
considerò, mentre sistemava sulle ginocchia il vassoio pratico ed essenziale, in contrasto con il cromatismo dei divani Mah Jong che arredavano il lussuoso salotto, dove contaminazioni e stili diversi convivevano senza regole, come in tutti gli ambienti dell’elegante attico.
Pigiò sul telecomando della TV e il generoso schermo da settantacinque pollici lo attirò nel cestone indifferenziato d’immagini proposte dalle emittenti. Non aveva voglia di fare la maratona a distanza tra i vari palinsesti, per cui si sintonizzò sulla videoteca di sky on demand alla ricerca di una visione rilassante, magari una di quelle brillanti commedie americane degli anni Sessanta con Cary Grant e Lauren Bacall, anche se vista già cento volte. A piedi nudi nel parco con Robert Redford e Jane Fonda gli sembrò perfetta, considerando che la storia era ambientata a New York e che il giorno seguente sarebbe partito per la Grande Mela.
Con lentezza assaporò l’insalata esotica: il gusto fresco dei gamberetti e il sapore intenso dell’avocado gli stuzzicarono il palato, tuttavia quella benedetta donna di Teresa, la governante, non aveva lesinato il sale. Eppure tante volte si era raccomandato di limitarne l’uso, non perché gli piacesse mangiare sciapo, ma a causa di certi sbalzi pressori che imponevano un’alimentazione povera di sodio. Senza contare che la ritenzione idrica comporta l’aumento di peso, insomma stava bene attento Giosafat Gori alla salute e alla forma fisica. Ci teneva a mantenersi snello. Non dimostrava i suoi cinquantacinque anni e neppure se li sentiva. Nel mondo frivolo della moda, la gradevolezza dell’aspetto è un must. Devi essere sempre e comunque piacente. Per questo alla dieta bilanciata – Teresa permettendo – associava palestra, massaggi, lampade abbronzanti, terme, e tutti gli artifici che il mercato del benessere offre insieme all’illusione di prolungare la giovinezza.
Mentre stava per attaccare la dadolata di zucchine, carote, piselli, che coloravano il risotto, una vibrazione proveniente dal tablet lo avvisò di una videochiamata in arrivo. Controllò chi fosse il chiamante e fece clic sul pulsante Accetta. D’incanto si materializzò il viso di Margot, la figlia, unica e amatissima, che viveva a Londra.
«Hello daddy! How are you?»
«Hi Margot!»
I saluti erano sempre in inglese, ma la conversazione continuava in italiano.
«Mi sbaglio o è in corso un party a casa tua, papà?»
«Non ti sbagli.» Giosafat stette al gioco, e con la web camera restituì le immagini della sua affollata solitudine.
Per molto tempo aveva considerato la figlia, un errore di gioventù, una leggerezza compiuta quando i suoi interessi sentimentali vagavano con indifferenza dall’universo femminile a quello maschile. A una mostra su Andy Warhol aveva conosciuto la donna che lo avrebbe reso padre: un’inglese curatrice d’arte contemporanea, con più anni e più esperienze di lui, con la quale era uscito per qualche mese, senza dimostrarle alcuna disponibilità ad una relazione. Riteneva di avere tutto sotto controllo, ma nella vita, complice un bicchiere di troppo e la luna che occhieggia romantica, può accadere di tutto e da quell’interesse inesistente si era ritrovato padre.
Nel decennio successivo aveva visto un paio di volte la baby, che viveva in Inghilterra con la madre. All’undicesimo compleanno della bimba, la genitrice pretese che trascorresse le vacanze in Italia e da allora puntualmente, ogni estate, gliela aveva spedita come un pacco. Allo sfastirio iniziale, procurato dal prendersi cura della marmocchia, era subentrata una sorta di tenerezza verso quella donnina dalle mani lunghe e sottili, che, piena di curiosità, scendeva dall’aereo con la macchina fotografica a tracolla. Smise di sentirsi vittima di un inganno, e forse perché aveva dato ormai una risposta alle sue tendenze e alla sua anima diversa, non considerò più la creatura un errore, bensì un’esperienza di gioventù. Sviluppò a poco a poco un sentimento paterno tardivo ma consapevole, al punto che aspettava con ansia l’arrivo della stagione estiva che gli restituiva la sua Margot, cui faceva da cicerone percorrendo con lei in lungo e in largo il Belpaese.
Alla ragazzina piaceva fotografare, inquadrava e scattava in continuazione, individuando e privilegiando il bello, tratto nel quale Giosafat riconosceva se stesso. Inoltre aveva ereditato dalla madre l’interesse per l’arte.
Quando ripartiva, recava nella valigetta centinaia d’immagini su carta: onde del mare, tramonti, fiori. Scatti ingenui, ma nessuno sfocato o mosso, nei quali già si ravvisava un occhio attento all’inquadratura e alla prospettiva. Con gli anni, il rapporto tra padre e figlia si era evoluto fino al capovolgimento dei ruoli: Margot – che continuava a essere lontana, ma non distante – si premurava della salute del suo daddy e, a ogni telefonata, si raccomandava che non lavorasse troppo.
«Papà, tra qualche giorno sarò a Roma all’inaugurazione della mostra di Steve McCurry… pensavo di fare un salto da te a Milano.»
«Tesoro, sono in partenza per l’America.»
«In partenza? Quando?»
«Domani, ma aspetta, sarà un viaggio brevissimo… un mordi e fuggi per alcune interviste all’ East Village Radio.»
«Chi ti accompagna?»
«Nessuno. Non ho più bisogno della tata, cara» scherzò lui e continuò «sarò di ritorno a Milano, già venerdì prossimo.»
«Ci vedremo allora.»
«Bene. Ne sono felice.»
«Buon viaggio daddy! Non dimenticare le medicine!»
«Tranquilla! A prestissimo, Margot!»
Lo schermo divenuto grigio, l’immagine della figlia dissolta, Giosafat ritenne che fosse il momento di abbandonare il divano. Si alzò pigramente e si diresse in cucina; nell’ambiente moderno e tecnologico enfatizzato da stampe in tela ispirate alle spezie di tutto il mondo, assunse la compressa d’ansiolitico, divenuta ormai un placebo.
Nel grande letto rotondo, l’ultimo pensiero della giornata fu, come sempre, alla madre: la donna-vampiro, che aveva riversato su di lui il proprio amore barocco, mettendo la prima pietra per il suo interesse per i maschi.
Il giorno dopo la vita di Giosafat Gori s’interruppe tragicamente sul volo intercontinentale AF 4504 destinazione New York. L’aereo, dopo sette ore e mezzo di morbida crociera, puntava sulla Grande Mela, trapassando con la prua aghiforme le nubi d’acciaio, e intanto si diffondeva dagli altoparlanti il rassicurante annuncio-litania ai quattrocentocinquantasei passeggeri: Signore e signori, abbiamo iniziato la discesa verso l’aeroporto internazionale Kennedy. V’invitiamo a riportare lo schienale in posizione eretta, a rimanere seduti con le cinture di sicurezza allacciate, e a spegnere i dispositivi elettronici.
Mentre i viaggiatori si ricomponevano, obbedendo come scolaretti alla voce senza volto, Giosafat stava già vestendo gli angeli col suo tocco magico che rendeva più femminile e avvenente qualunque creatura indossasse un abito uscito dalla Mondial Glamour, la sua casa di moda.
Stroncato da un arresto cardio-circolatorio, inutili i tentativi per rianimarlo di due medici presenti a bordo che gli praticarono venti minuti di massaggio e tre punture; il comandante dispose di adagiarlo sull’ampia distesa della lounge di prima classe avvolto in una coperta fin sopra i capelli. Da quel momento il bar fu interdetto agli attoniti passeggeri della First, mentre chi viaggiava in Business e in Economy ignorò il drammatico evento fino a quando mise piede a terra. In uno spezzato da viaggio color tortora, reso più informale dalle sneakers di velluto, in tinta unita, Giosafat Gori, fiorentino di nascita e milanese d’adozione, ambasciatore dell’italian style, atterrò per l’ultima volta nella Big Apple.
La notizia rimbalzò in Italia nottetempo, e già il mattino seguente la stampa nazionale la riportava. Il maggior quotidiano di Milano titolava in testa a una colonna: Lo stilista Giosafat Gori muore durante un volo Milano-New York.
L’articolo, corredato da uno smagliante primo piano, ne ripercorreva brevemente il percorso nel campo della moda e i riconoscimenti ottenuti.
Venti ottobre, e sembra già pieno inverno. A fine mese quando sposteremo le lancette indietro di un’ora, le giornate saranno ancora più buie e sembrerà di vivere come topi
rifletteva il commissario Antonino de Santis, in piedi, guardando verso il grigio-nulla, di là della finestra della stanza, al terzo piano di un palazzo vecchio e brutto dove erano allocati gli uffici della Questura.
Come ogni anno, paventava il ritorno all’ora solare.
Gli piacevano o si era fatto piacere molte cose della metropoli del Nord nella quale viveva ormai da diciannove anni e di cui aveva assimilato, in parte, anche il linguaggio. Gli piaceva quell’atmosfera dinamica, europea, lontana anni luce dall’ambiente del minuscolo paese costiero, il più piccolo d’Italia, dove era nato. Gli piaceva il risotto all’onda che Laura, la moglie meneghina, gli preparava una volta la settimana. Gli piacevano quei cortili, ignoti o dimenticati perfino dai nativi, che improvvisamente si aprivano all’interno di palazzi apparentemente insignificanti. Gli piaceva andare al supermercato e comprare un unico peperone o soltanto una cipolla senza dover rendere conto alla cassiera di una spesa così esigua o rivelare agli sconosciuti in fila, il menù del giorno.
La luce della sua terra, quel borgo moresco protetto dalle limonaie, però, gli mancava. Quella luce che sprigionava dai fiori, dal mare, dal cielo, che inondava il labirinto di vie e vicoli del suo paese verticale, intagliato nella roccia, quella luce che rendeva dorati gli archi, le piazzette, le scalinate, i cortili, e si spingeva fin dentro le case illuminando i muri e riscaldando i cuori.
Sebbene assuefatto al clima, gli erano tuttavia ancora incomprensibili certi mezzogiorno che sembravano mezzanotte, e certe ore vissute come una talpa nei posti rischiarati già in mattinata da luce artificiale. E il nebbione che lo attendeva implacabile all’uscita dalle stazioni della metro. E la condensa sull’auto e il gelo che solidifica l’acqua. E le giornate in cui il tempo non era definito, le peggiori: stati di non-tempo, di tempo sospeso, in cui il cielo era come uno schermo bianco e non sapeva quale film sarebbe stato proiettato. Come quel venti ottobre.
Si passò la mano tra i capelli lunghi più del normale e ancora miracolosamente scuri. Da giovane – quanti anni erano passati? – somigliava più che mai a un saraceno, con quella pelle olivastra e gli occhi di brace.
La chioma da corsaro e il sorriso impertinente gli erano appartenuti in un’altra vita.
La maturità aveva attenuato l’espressione guerresca, lo sguardo era divenuto vellutato, la zazzera non più scapigliata, ma ordinatamente pettinata con la riga laterale, però il suo bel viso maschio rimaneva fatto per gli schiaffi.
Segnato dalla passione per la giustizia, aveva seguito gli studi di giurisprudenza, illudendosi di fare il paladino dei deboli. All’indomani della laurea, la concezione che aveva della nobile professione, che intendeva esercitare, poteva sintetizzarsi nel principio della lex romana: Da mihi factum dabo tibi jus.¹
Era stata solo una chimera, perché nei diciotto mesi di praticantato – meglio dire di sfruttamento a costo zero – presso uno studio legale del capoluogo, il titolo cum magna lode gli era stato mortificato in tutti modi. I colleghi più anziani lo avevano perfino mandato a comprare la carta bollata. Impratichendosi, sperimentò la negazione del diritto, conobbe inganni, bassezze, inadempienze di ogni genere. Il giorno in cui arrivarono a chiedergli di falsificare una firma in calce ad una procura mai rilasciata, decise che era troppo. Non fa per me
considerò. Non intendeva sottrarre dai guai i disonesti, mediante cavilli burocratici e giudiziari. Non diede mai l’esame per l’abilitazione alla professione forense. Non era quella la vocazione che sentiva battergli in petto, piuttosto un trasporto, un’attitudine a scoprire e assicurare alla legge chiunque avesse commesso un illecito. Indirizzò allora il suo lavoro, la sua vita, in quella direzione. A ventisette anni entrò nella Polizia di Stato.
Nei successivi due decenni di attività investigativa, aveva fatto parte della Buoncostume, della Sezione Narcotici, del reparto anti-borseggio, svolto indagini su reati contro minori ed extracomunitari, conosciuto misfatti odiosi, crimini scellerati, rozzezze umane. Affrontava i delinquenti con la stessa grinta dei naviganti dai quali discendeva. Non gli era venuta meno l’ironia – ereditata dalla madre – che usava come strumento per mettere in difficoltà l’interlocutore. Consegnato il colpevole alla giustizia, si sentiva a posto con la coscienza. Ciò che accadeva dopo, su cui spesso dissentiva, non era affar suo.
Quel venti ottobre la vicenda dello stilista gli impegnava ogni spazio della mente e gliela avrebbe monopolizzata fino alla conclusione. Succedeva sempre così.
Si allontanò dalla finestra senza visuale e con un paio di falcate tornò alla scrivania. Scostò la sedia e, rimanendo in piedi, prese tra le mani l’incartamento riguardante il caso Gori. Alzò la cornetta del telefono. Digitò un solo numero.
«Lezzi» chiamò.
Dopo qualche secondo, preceduto da un colpetto alla porta, si materializzò sull’uscio, l’ispettore Giampaolo Lezzi, il suo braccio destro. Tutto nervi ed ossa, fisico da adolescente,