L’ordine apparente delle cose
Di Lara Fremder
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Info su questo ebook
Per la guida turistica Rachele Zwillig, a Gerusalemme ogni cosa è al proprio posto solo per necessità e la santità del luogo – illuminata da una luce immaginaria – va cercata altrove, nei suoi luoghi nascosti.
Rachele – che si porta dietro il fantasma della madre, un fratello misterioso e un padre assente – ama bere Gin Tonic durante Shabbat, non vuole essere definita ebrea e, per sopravvivere, inventa storie che spaccia come reali non solo alle comitive di turisti ma anche a sé stessa.
Sparse nel cassetto della credenza fra vecchie posate, elastici, tappi e ricevute di pagamento ci sono cinque fotografie che racchiudono la storia della sua famiglia, del suo disagio e del suo dolore. Fra quelle immagini ce n’è una sfocata con una casa circondata da un giardino incolto, una sedia rovesciata e una donna davanti alla porta d’ingresso che guarda verso l’obiettivo. Una freccia rossa, marcata con forza, la indica con l’iniziale T.
Quella foto nasconde una storia, un segreto e una possibilità di pacificazione.
Come un grido che risuona tra le mura di Gerusalemme, la storia di Rachele Zwillig tocca il cuore raccontando della necessità di staccarsi dal passato senza perderne la memoria.
«Mi chiamo Rachele Zwillig e sarò la vostra guida. Voglio dirvi da subito che qui non servono mappe e satelliti. Qui è bene perdersi. Perdersi significa non cercare risposte, quindi non fatemi domande se non strettamente necessarie. Non interrompete il vostro smarrimento di fronte ad apparenti certezze. Mantenete il disorientamento, mantenetelo il più possibile perché è questo ciò che ha valore. E quando avrete la sensazione di esservi ritrovati, guardandovi intorno vivrete un’inevitabile contraddizione: da un lato la realtà oggettiva con tutti i margini di errore, dall’altra la realtà unica, quella che siete voi a cogliere e che varia a seconda del sapere, del vissuto, dello stato emotivo. E ancora non basterà, perché il vostro sentire dipenderà dalle nuvole, dal vento, dall’azzurro del cielo, dalla stagione, dalla luce. Qui nessuno può darvi certezze. Nemmeno io, ovviamente. Qualcuno allora si domanderà: perché mai dovremmo pagare una guida per muoverci tra le mura di questa antica città senza avere alcuna certezza? Non lo so. Il pagamento, non a caso, è anticipato. Seguitemi...»
Lara Fremder
Lara Fremder è nata a Milano, città in cui vive. Ha collaborato per molti anni con Studio Azzurro, realtà internazionale di ricerca artistica. Ha scritto soggetti e sceneggiature di film che hanno ottenuto numerosi riconoscimenti e che sono stati presentati in concorso ai principali Festival di Cinema. Scrive documentari e film di animazione. Come regista ha diretto due cortometraggi tratti da due suoi racconti vincendo con il film Blu Sofa il Grand Prix al Festival International du court métrage de Clermont Ferrand.Insegna scrittura cinematografica al Conservatorio Internazionale di Scienze Audiovisive di Locarno e alla Scuola Civica di Cinema Luchino Visconti di Milano.“L’ordine apparente delle cose” è il suo primo romanzo.
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L’ordine apparente delle cose - Lara Fremder
L’ordine apparente delle cose
di Lara Fremder
Copyright 2024 Gabriele Capelli Editore
Gabriele Capelli Editore
ISBN 978-88-31285-81-0 (EPUB)
Immagine di copertina:
Naeblys
Aerial view of the old city of Jerusalem, sunrise in the fog.
Shutterstock
Prima edizione GCE marzo 2024
La casa editrice Gabriele Capelli Editore beneficia di un sostegno
dell’Ufficio federale della cultura per gli anni 2021-2024.
Lara Fremder è nata a Milano, città in cui vive. Ha collaborato per molti anni con Studio Azzurro, realtà internazionale di ricerca artistica. Ha scritto soggetti e sceneggiature di film che hanno ottenuto numerosi riconoscimenti e che sono stati presentati in concorso ai principali festival di cinema. Scrive documentari e film di animazione. Come regista ha diretto due cortometraggi tratti da due suoi racconti vincendo con il film Blu Sofa il Grand Prix al Festival du court métrage de Clermont-Ferrand. Insegna scrittura cinematografica al Conservatorio Internazionale di Scienze Audiovisive di Locarno e alla Scuola Civica di Cinema Luchino Visconti di Milano.
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Ho scritto questa storia prima del 7 ottobre, prima che l’ordine apparente delle cose si disintegrasse lasciando ovunque dolore e macerie.
Rachele Zwillig, che per tutto il romanzo ha gridato con forza la necessità di staccarsi dal passato senza per questo dimenticarlo, si muove ora fra antiche e nuove rovine.
A Maria Sara
*
Dodici giapponesi non sono uno scherzo. Solitamente si portano la loro guida ma si è ammalata e così Shlomo Lebens, il mio capo, me li ha affidati. Prima lavoravo con Michelson e prima ancora qualcosa smise di funzionare nella mia testa.
Tutto mi sembrava molto più semplice allora. Se avevo voglia di un pezzetto di mondo aprivo la finestra e se quel pezzetto di mondo mi disturbava la richiudevo.
Basta poco a Gerusalemme per sentirsi padroni del mondo e del tempo, è sufficiente attraversare una strada o affacciarsi a una finestra.
Mi chiamo Rachele Zwillig, sono nata a Gerusalemme, ho quarantuno anni e faccio la guida turistica. Lavoro otto ore al giorno raccontando le storie che i turisti desiderano ascoltare, battaglie, disfatte, miracoli che si ripetono da secoli, storie che non fanno più paura e raramente commuovono, inganni di cui non si può fare a meno.
«Deve imparare a credere a ciò che racconta, signorina Zwillig, che sia vero o no» mi dissero alla consegna del diploma.
E così faccio.
A volte mi invento una data, un imperatore mai nato, luoghi e genealogie inesistenti, nomi e date che sfuggono al controllo della storia e della memoria, in fondo piccoli e innocenti attentati alla realtà.
Non lo faccio sempre, di mentire, non gioco d’azzardo, valuto con attenzione chi ho di fronte e scelgo il momento.
Lo faccio anche con me stessa, me la racconto la vita, nel bene e nel male, la dipingo dei colori che voglio, la riempio di storie di amore e di odio e spesso ci credo.
Li ho lasciati in albergo, li recupererò domani.
I dodici giapponesi intendo.
Mi hanno proposto di cenare con loro, ma professionalmente parlando è preferibile non frequentarsi fuori orario e poi questa sera c’è Beitar Jerusalem-Maccabi Haifa e ho scommesso con Yossi dieci shottini sulla vittoria del Beitar.
Non potendo garantire sobrietà e puntualità per il tour di domani mattina, mi sono inventata possibili tensioni in città e avvisato i giapponesi che ci potrebbero essere cambi di programma.
Millanto conoscenze nel Mossad, del resto in un paese come questo una buona guida turistica deve avere i suoi contatti.
O fingere di averli.
*
Il Beitar ha vinto e io sono arrivata al lavoro puntuale e sobria. Kenta è rimasto sorpreso dal fatto che nessuno in albergo era a conoscenza di possibili tensioni.
«Se tutti sapessero tutto, in questo paese si fermerebbe ogni cosa» ho risposto, decisa.
Kenta si è scusato come solo i giapponesi sanno fare, mi è sembrato sincero, ma i turisti d’Oriente sono impenetrabili. Di certo durante le visite ti ascoltano con estrema attenzione, non esiste cellulare che squilli, qualcuno che ti sbadigli in faccia o che sgranocchi qualcosa davanti a una reliquia.
Molte fotografie, poche parole.
Li ho portati al Quartiere Armeno, il mio preferito, là dove tutto rallenta. Ogni volta che varco quel confine per me è come giocare a Rialzo!
. Ci vado spesso e non solo per lavoro. La taverna di Havik è aperta anche durante Shabbat e la sua cucina è ottima.
Di fronte alla chiesa di San Giacomo – inizio e fine della vita per ogni armeno di Gerusalemme – Kenta mi ha chiesto della testa del Santo il cui luogo di sepoltura resta storicamente incerto.
Mi spiace deludere le aspettative, così un paio di anni fa ho inventato un luogo, una piccola nicchia seminascosta dal portale di un antico ingresso in cui:
Si dice, si narra, si mormora... che la testa del Santo vi sia stata conservata per secoli ed è straordinario come, ogni volta, tutti siano disposti a crederci e, a loro volta, farsi passaparola del falso.
Mi capita di trovare fiori e lumini nella nicchia in cui:
Si dice, si narra, si mormora...
Non faccio nulla di male, in fondo si tratta di storiche consuetudini. Nel Medioevo erano sparse per l’Europa sessanta dita di San Giovanni, tre teste di San Giorgio e almeno tre chili e mezzo di denti di Sant’Apollonia. Non faccio altro che partecipare alla grande illusione, consapevole che esistono storie con cui non si compete:
In principio Dio creò il cielo e la terra.
Usciti dal Quartiere Armeno ho ributtato i giapponesi nel mondo imboccando la Via Dolorosa.
«Non perdiamoci!» ho gridato in mezzo alla folla.
«Non si perda lei» ha sussurrato al mio orecchio Kenta scattandomi una foto.
*
Non amo essere fotografata, evito che ciò accada ma al lavoro è impossibile sottrarsi.
Sono conservata in scatole di ogni tipo, ordinata in album fotografici, catalogata in cartelle virtuali. Decine e decine di foto, nel mondo, mi ritraggono insieme a gruppi sorridenti.
Il mio volto riconosciuto fra volti che non riconoscerei.
Da ragazzina mi infilavo volutamente dentro fotografie di sconosciuti. A volte uscivo di casa apposta. Era un gioco di cui solo ora riconosco la malinconia, trovare un modo per esistere nel mondo, essere al tempo stesso visibili agli altri e invisibili a sé stessi.
Possiedo solo cinque fotografie, non ne ho e non ne ricordo altre. Sono sparse nel cassetto della credenza fra vecchie posate, elastici, tappi e ricevute di pagamento.
La prima fotografia
Ritrae me e Dahlia, mia madre, cinque giorni prima della sua morte.
È il 1981, il 6 marzo. La data è scritta sul retro.
Mia madre si impiccò nella doccia del nostro piccolo bagno, la cui finestrella si apriva su Haye Olam street, la Via della Vita Eterna.
«I piedi della mamma non toccano terra» dissi.
Avevo solo quattro anni.
Tiro fuori quella foto una volta all’anno, il giorno della morte di mia madre e ogni volta che lo faccio trovo un elemento sfuggito allo sguardo e al dolore dell’anno precedente, come se lo smarrimento di allora si rinnovasse svelando un nuovo dettaglio, la fibbia slacciata di uno dei miei sandali, per esempio, o la treccia non perfettamente in ordine di mia madre.
Volute imprecisioni nell’ordine apparente delle cose.
Dahlia e io siamo sedute su un muretto che corre, oltre i margini della fotografia, fino alla fine del mondo.
Nella foto la mamma sorride.
Come si possa sorridere a pochi giorni dalla propria morte è la domanda che mi insegue, feroce, da sempre.
La seconda fotografia
È in bianco e nero, non è perfettamente a