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La bestia a due schiene
La bestia a due schiene
La bestia a due schiene
E-book352 pagine6 ore

La bestia a due schiene

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Info su questo ebook

Dopo quindici anni, l’ex ricercatore William North sta lasciando l’ospedale psichiatrico dove è stato internato per l’omicidio della propria moglie, avvenuto in seguito a un raptus psicotico. Il suo unico pensiero è quello di ricongiungersi alla figlia Vivian, che non vede da quando era una bambina. La ragazza, infatti, è stata affidata alla tutela della zia, che ha impedito loro ogni contatto. I capitoli alternano il punto di vista di William a quello di Vivian, mentre i due si incontrano all'insaputa di tutti. Vivian è rimasta molto legata al padre, e non appena maggiorenne si trasferisce a casa sua. Il rapporto tra i due, però, inizia a scivolare lungo un precipizio ossessivo e malato. La storia del loro amore contro natura si snoda lungo un sentiero buio, quello dell'istinto sadico di Will cui fa da complemento il desiderio di sua figlia, disposta a fare per lui qualsiasi cosa. Una storia raccontata dalle parole di quelle opere letterarie che Will ama tanto e che entrano a far parte della narrazione. Da Otello a Romeo e Giulietta, da Arancia Meccanica a Lolita, il romanzo non parla solo dell'amore tra due persone, ma del modo in cui la letteratura dà forma ai loro pensieri.
LinguaItaliano
Data di uscita10 ago 2022
ISBN9788869633164
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    Anteprima del libro

    La bestia a due schiene - Chiara Rota Bulò

    Chiara Rota Bulò

    LA BESTIA A DUE SCHIENE

    Elison Publishing

    © 2022 Elison Publishing

    Tutti I diritti sono riservati

    www.elisonpublishing.com

    ISBN 9788869633164

    I.

    Sei nervoso, Will?

    Il dottor Beardsley mi guarda da sopra al suo paio di occhiali a mezzaluna, con l’aria benevola e sorridente che potrebbe avere Babbo Natale.

    Sì. No. Non lo so. Dovrei esserlo? rispondo, mentre piego le mie quattro camicie infilandole nella valigia. No, in realtà non sono le mie camicie, credo facciano parte di una specie di kit di rinascita che l’ospedale dà a quelli come me. Quelli che sono stati qui dentro talmente tanto da non avere nemmeno più degli abiti propri. E in effetti non me lo ricordo quando è stata l’ultima volta in cui ho indossato una camicia vera. Immagino sia stato al processo. Non mi risponde, Beardsley, si limita a fissarmi con quel sorrisetto del cazzo. Riesco quasi a vederlo, intanto che si prova davanti allo specchio quell’espressione. Credo che ci lavori su da anni, e dopo attente indagini abbia deciso che quella sia la migliore faccia da usare per non rischiare che a qualcuno dei pazienti possa venire in mente, che ne so, di cavargli gli occhi.

    Cosa vuoi sentirti dire? Che sono nervoso? Che non vedo l’ora di andarmene? Che ho intenzione di compiere una strage non appena avrò messo piede fuori dal cancello? In realtà la faccenda è tutta qui. Quando impari a dire loro quello che vogliono sentirsi dire, allora sei guarito. Di norma, quando decidono che sei guarito ti lasciano andare, ma nel mio caso la situazione era un pelo più complicata. Non è che tu te ne possa andare così quando sei stato chiuso qui dentro invece che essere mandato in galera. Immagino di potermi ritenere fortunato, tutto sommato. Le cose sarebbero potute andare molto peggio se la perizia psichiatrica non avesse confermato la tesi del mio avvocato. E cioè che c’erano veramente tante cose che non funzionavano nella mia testa, e che era per quello che era successo quello che era successo. La sentenza era stata chiara, avrei passato i successivi quindici anni sotto le amorevoli cure del dottor Beardsley, in questo prestigioso ospedale che ora, al termine della condanna, sto preparandomi a lasciare. Sì, sono nervoso. O meglio, lo sono in teoria. Perché i farmaci ti danno una percezione un po’ distorta di quello che senti, e non credo di essere mai stato realmente nervoso negli ultimi quindici anni. Apatico, questo sì, con qualche occasionale barlume di emozione, e immagino che quei brevi momenti fossero il massimo che potessi ottenere. Quindi no, non sono nervoso. Però so bene che uscire da qui non sarà una passeggiata. Sono fuori dal giro da troppo tempo e dovrò ambientarmi. So che le cose sono cambiate, insomma, non è che qui dentro ci tengano all’oscuro di ciò che accade nel mondo, ma un conto è viverlo, un altro è spiarlo attraverso lo schermo di un televisore. Io peraltro odio la televisione, fosse anche per il fatto che i più rincoglioniti, qui dentro, sembrano non poterne fare a meno. E alla fine, l’unico modo che avessi per farmi un’idea di quello che stava cambiando, là fuori, erano i giornali. Sono stato un assiduo frequentatore della sparuta biblioteca dell’ospedale per tutto il tempo che ho passato qui, e ho letto praticamente tutti i libri a disposizione dei pazienti, evitando con cura i romanzi rosa, perché c’è un limite a tutto e io non ero poi così disperato. Però mi divertivo a guardarne i titoli, così, giusto per farmi quattro risate. Un tenebroso sconosciuto. Amore maledetto. Passione proibita. E pure le copertine erano niente male, con sopra donzelle discinte dai capelli mossi dal vento avvinghiate a testosteronici marcantoni con la pelle unta. Una meraviglia, giuro. Ma come cazzo fanno le donne a leggere questa roba? No, lo ammetto. Non ho una grandissima opinione delle donne. Non dopo tutto quello che è successo.

    Il dottor Beardsley si alza, scrutando fuori dalla finestra che affaccia sul giardino dell’ospedale, curato e perfetto come tutto qui. Eccetto i pazienti, ovvio.

    Credo che il tuo taxi sia arrivato. È ora di andare, Will mi dice, avviandosi verso la porta e aprendola, rimanendo poi a metà tra la soglia e il corridoio, in attesa che io lo segua. Inspiro profondamente. E andiamo, allora.

    Passando nel corridoio guardo per l’ultima volta il desolante spettacolo degli altri pazienti che trascinano stancamente i piedi, spostandosi da una sedia all’altra nell’attesa che trascorra l’ennesimo giorno, uguale al precedente e del tutto identico al successivo. Non mi mancherà nessuno di loro, per la maggior parte si tratta di relitti con i quali non è nemmeno possibile fare una conversazione, a meno di non essere un cultore del soliloquio. E per quanto io lo sia, dopo un po’ diventa frustrante parlare con qualcuno che risponde mugugnando frasi inintelligibili e perdendo una discreta quantità di saliva. Non che non ci abbia provato, eh, credo di aver passato ore a spiegare l’Amleto a Jonesy, il povero bastardo della stanza in fondo al corridoio. Sembrava che gli piacesse, tutto sommato, e io volevo tenermi in allenamento. Perché è questo che facevo prima di finire qui, quando passavo le notti sveglio a scervellarmi sulle più disparate minuzie di questo o quel verso di Shakespeare. All’epoca l’unica cosa incerta del mio futuro era se sarei riuscito a pubblicare quel saggio oppure no, e di conseguenza se avrei ottenuto dei fondi per continuare a potermi definire ricercatore. E poi, beh, poi le mie priorità sono cambiate di colpo, e improvvisamente mi interessava di più cercare di tenere il culo fuori dal carcere.

    Mi mancherai, Will. Ecco, questo è Francis che mi aspetta appoggiato alla parete con le braccia incrociate e che cerca di non dare a vedere quanto gli dispiaccia rimanere qui tutto solo. Francis ha diciannove anni, è schizofrenico e un bel giorno ha pensato che se avesse ficcato la testa della sua sorellina sott’acqua aspettando fino a che non avesse smesso di fare le bolle forse le voci nella sua testa se ne sarebbero state zitte. Povero Francis, all’epoca ancora non l’aveva capito che le voci dicono un sacco di stronzate. Pure io le sentivo, qualche volta, anche se non ho la sua stessa malattia. Il dottor Beardsley mi ha spiegato che le allucinazioni sono un sintomo psicotico comune ad entrambe le nostre patologie. Ed ecco che allora avevo qualcosa di simile ad un amico. Non che Francis sia una cima, diciamocelo, ma quantomeno era curioso abbastanza, o abbastanza disperato, da sorbirsi i miei sermoni accademici senza lamentarsi troppo. E a volte, lo giuro, riusciva anche a tirare fuori qualche domanda intelligente.

    Anche tu mi mancherai, ragazzo gli dico in tono paterno, frugandomi in tasca e allungandogli il mio ultimo pacchetto di sigarette. Qui è come in galera, sono un bene abbastanza ricercato, ma tanto a me non servono. Ho appena vinto un biglietto di uscita che mi consente, come bonus aggiuntivo, di avere l’inestimabile libertà di comprarmi tutte le sigarette che voglio, decidendo autonomamente di cosa io abbia intenzione di morire. Sì, lo ammetto, un po’ mi sono affezionato a Francis, perché per certi versi potrebbe essere mio figlio. E per un attimo ho uno di quegli inusitati sprazzi emotivi e mi rendo conto che sto davvero uscendo, che non è solo un sogno o un’allucinazione. Sto davvero andandomene da qui, e non è solo perché stare rinchiusi è una merda. Ho qualcuno che è rimasto fuori, una persona che non vedo da quindici anni. Perché ho tralasciato di specificare un dettaglio. Io e la mia adorata moglie avevamo una bambina, e aveva tre anni l’ultima volta che l’ho vista. Ho chiesto molte volte di lei al dottor Beardsley, ma ha risposto che non poteva fare in modo di lasciarmela contattare perché il tutore legale si era opposto. Mi ha detto solo che viveva con la sorella di mia moglie e quando l’ho sentito mi è preso lo sconforto. A me è sempre stata sul cazzo quella troia bigotta di mia cognata Janice, e per tanto tempo mi sono chiesto come avesse fatto mia moglie a cadere così lontana dall’albero della sua famiglia. La risposta era che non l’aveva fatto.

    Mi accompagna fino al cancello, il dottor Beardsley, non so se per una qualche forma di premura o perché vuole essere sicuro che io non faccia cazzate, che salga davvero sul taxi e veleggi spensierato verso una nuova vita, rosea e piena di opportunità. Mi raccomando, Will, continua a prendere i farmaci, ne abbiamo parlato, sai che ti servono mi dice, fermandosi al limitare dei cancelli dell’ospedale, quasi come se non osasse varcarli. Per un attimo mi chiedo se non sia davvero così. Forse il dottor Beardsley esiste solo tra queste mura, intrappolato qui come una specie di spettro, e se dovesse fare anche solo un passo fuori dal suo territorio potrebbe sbriciolarsi come cenere. La trovo un’immagine affascinante, ma non è altro che una fantasia, un guizzo moribondo della mia mente che le medicine tengono a bada come si farebbe come un cane rabbioso. Sono solo pensieri, voci prive di corpo, è questo che mi hanno insegnato qui. Inezie. Leggere come l’aria.

    Non si preoccupi, dottore, non sono un idiota. Non ci tengo a tornare qui tanto presto rispondo, lasciandomi poi sfuggire una mezza risata nervosa, alla quale fa eco anche quella di Beardsley, più bassa e sicura di sé.

    Però vedi di non mancare all’appuntamento della prossima settimana mi rimbecca, alzando scherzosamente un dito ammonitore. No, lo so che ci devo venire. Sono obbligato a farlo oppure dovrò tornare a chiamare questo posto casa a tempo indeterminato. Non che mi vada, sia chiaro, ne ho sentite abbastanza delle stronzate di Beardsley negli ultimi quindici anni, ma non c’è un’altra opzione. Da questo momento ricomincerà l’inserimento nella società, signor North, con la clausola obbligatoria che lei continui a vedere il suo medico curante con cadenza settimanale per almeno altri due anni o fino a quando non lo riterremo necessario. Penso di dovermi mettere l’anima in pace, e faccio un gesto a Beardsley con il pollice alzato, mentre salgo sul taxi, sistemando la valigia sul sedile accanto a me.

    Chiamami pure anche prima se dovessi avere bisogno, siamo intesi? aggiunge Beardsley, preoccupato come una mamma apprensiva il primo giorno di scuola del proprio pargolo.

    Stia tranquillo, dottore. Andrà bene rispondo, sfoderando il mio miglior sorriso da è tutto sotto controllo. Sorriso che mi si spegne sulla faccia non appena Beardsley è fuori vista. Espiro sonoramente, abbandonandomi contro al sedile. Mi porti al 49 di Debenham Road, per favore dico al tassista prima di mettermi a guardare dal finestrino, rendendomi conto solo adesso che sono quindici anni che non sono libero di andare dove cazzo mi pare. I servizi sociali spesso ti aiutano a trovare un appartamento, quando esci dall’ospedale, ma a me non serviva. Mia madre è morta quattro anni fa e la casa è rimasta a me. Quantomeno è un ambiente familiare, penso che potrebbe aiutarmi a ritrovare qualcuno dei frammenti della mia vecchia vita. Ai servizi sociali è bastato fare qualche telefonata per fare in modo che elettricità e linea telefonica fossero riallacciate prima del mio arrivo. Andrà bene. Dopodomani mi presenterò alla biblioteca del quartiere, mi hanno trovato un lavoro lì, e devo dire che è stata perfino una botta di culo. Non mi dispiace l’idea di stare in mezzo ai libri, dopotutto li ho sempre amati, e comunque di riavere il mio posto all’università non c’era nemmeno da parlarne. Ormai quel treno è partito da un pezzo e penso di dovermi rassegnare al fatto che, a quarantasei anni, non ci sarà nessuna brillante carriera accademica, per il vostro affezionatissimo.

    L’ultima volta in cui ho visto la casa di mia madre non è stata quindici anni fa. Mi hanno concesso di partecipare al suo funerale quando è morta, e ricordo bene quel giorno, anche se mi avevano imbottito di farmaci. Immagino che fosse una precauzione aggiuntiva, oltre ai due infermieri che mi avevano accompagnato e che tenevano d’occhio ogni movimento che facessi. Come se pensassero che avrei potuto compiere una strage di parenti, e ammetto che non sarebbe nemmeno stata una brutta idea. Con il senno di poi avrei preferito non andarci affatto al funerale, perché per tutto il tempo mi ero sentito addosso gli sguardi di tutti, che però venivano prontamente distolti non appena cercavo di incrociarli. Li avevo odiati, uno ad uno, per le espressioni di pietà mista a curiosità morbosa che leggevo loro in faccia, come se stessero aggrappati alle sbarre di una gabbia, durante una gita allo zoo particolarmente interessante. Tutti hanno i loro rivoltanti segreti, le loro follie più o meno nascoste, ma quando ti ritrovi ad essere eviscerato come un pesce appena pescato, quando le tue budella vengono esposte al pubblico ludibrio ti rendi conto che dopotutto prima non te la passavi così male, quando le tue debolezze e le tue perversioni rimanevano ben chiuse in un angolo del tuo cervello. Le mie, invece, sono state sbattute sui giornali, descritte con un’oscena dovizia di particolari, e mentre ascoltavo il sermone funebre per mia madre – era una donna buona, dedita alla sua famiglia, che amava più di se stessa, preghiamo per la sua anima –     ricordo di aver sperato solo che mia figlia non leggesse mai quei dettagli. Avevo stupidamente pensato che l’avrei incontrata , anche solo per un momento, anche solo da lontano, ma lei non era venuta. E forse era stato meglio così, perché non volevo che mi vedesse in quel modo, con gli occhi annebbiati dalla torazina, scortato a vista da due energumeni in camice bianco. Il dottor Beardsley direbbe che non devo indugiare su questi ricordi, ma è facile parlare quando non hai un cazzo di problema al mondo. Per questo non sopporto i medici, perché dispensano la loro saggezza sulla tua pelle, tanto non sono loro a subirne le conseguenze.

    La strada è sempre uguale, così come l’ingresso del palazzo dove viveva mia madre, dove io stesso avevo vissuto fino a quando non avevo deciso che fosse arrivato il momento di abbandonare l’ovile. Salgo le scale con una certa fretta, frugandomi in tasca per cercare le chiavi. Il pianerottolo è piuttosto buio e devo fare un paio di tentativi prima di riuscire ad aprire la porta ed entrare. Nemmeno la casa è cambiata di una virgola dall’ultima volta in cui sono stato qui. Inspiro. L’odore familiare mi mette a mio agio, ricordandomi di quando ero piccolo e tornavamo dalle vacanze, e mi rendevo conto che, nonostante mi fossi divertito, in nessun posto sarei mai stato bene come qui.

    Mollo la valigia con le mie poche cose nell’ingresso, accendendo la luce e iniziando a camminare per le varie stanze. Sul mobile del soggiorno c’è la collezione completa di fotografie di parenti morti alle quali mia madre teneva moltissimo. Manca la sua, ovviamente, ma lei è stata l’ultima a morire e io non ero qui per aggiungere la sua foto alle altre. Non credo nemmeno che l’avrei fatto, anzi, penso che farò sparire tutta questa roba, perché dopotutto adesso questa è casa mia, e non ho intenzione di vedere tutti i giorni gli occhi del prozio Robert che mi seguono da sotto quelle sue sopracciglia cespugliose. Ho sempre trovato inquietante questa mania delle persone anziane di circondarsi delle immagini dei cari estinti, come una macabra collezione di trofei, quasi a voler mostrare con un certo orgoglio di essere sopravvissuti alla carneficina che si è portata via tutti gli altri. Ci sono anche delle mie foto, fortunatamente non stanno insieme a quelle dei morti. Perché non sono ancora morto, anche se magari qualcuno si è augurato che lo fossi. Però eccolo lì, l’angolo di Will. Ci sono io appena nato, con addosso un’orrida cuffietta riesumata dal secolo scorso e per la quale avrebbero dovuto seriamente arrestare mia madre. Ci sono io a cinque anni, a pesca insieme a mio padre, in una foto così tipica da essere quasi anonima.     Io a otto anni, poi a dodici, poi a quindici, mentre una pubertà devastante mi trasformava da bambino esile e scattante in adolescente assurdamente alto, sgraziato e sempre troppo magro. La mia incapacità di mettere peso è stato uno dei grandi tormenti della vita di mia madre, che non si spiegava perché, per quanto mi rimpinzasse, io mi ostinassi a continuare ad assomigliare ad un appendiabiti. E per un attimo mi manca, mia madre, perché lei era sempre fiera di me, era quella che quando tornavo da scuola con un bel voto mi sorrideva da sopra la spalla di mio padre, mentre lui chiedeva in tono inquisitorio per quale motivo non avessi preso il massimo. Andiamo, Willy, non te la prendere. Sai com’è fatto tuo padre, lui vuole che tu sia sempre perfetto. Dai, vieni qui, che ti do un biscotto. E forse aveva ragione papà, perché immagino che potrei dire le stesse cose a mia figlia. Se solo vivesse con me. Se solo sapessi come va a scuola, o quale sia la sua materia preferita, tutte quelle cose che un genitore non può non sapere. E io invece non le so, di lei ho un ricordo anche abbastanza sfocato, ormai, e trovo ingiusto che mia figlia debba essere un’estranea. Ma immagino che questo facesse parte del pacchetto di punizione, sebbene il motivo per cui io non la veda da quando sono finito in ospedale sia che mia cognata si è ferocemente opposta.     Posso biasimarla? No, in effetti, ma è stata lo stesso una bastardata da parte sua. Rimedierò. O almeno ci proverò, penso, cercando di non soffermarmi troppo sull’idea orribile che magari mia figlia non voglia avere niente a che fare con me.

    Nella camera da letto dei miei una rapida ispezione all’armadio rivela che i vestiti di mia madre sono ancora appesi in una fila ordinata, ma immagino che dovrò liberarmi anche di loro. Non mi va di buttarli via, potrei trovare un’associazione di beneficenza che se li prenda. Ironico, io le ho sempre odiate le associazioni di beneficenza, e ricordo che mandavo al diavolo chiunque bussasse alla nostra porta in cerca di soldi, o vestiti usati, o cibo, o chissà cos’altro. Forse è questo che mio padre mi ha inculcato, con quei suoi sguardi perennemente insoddisfatti. Che la mediocrità non è contemplata, che non esistono giustificazioni per il fallimento. Chissà cosa avrebbe detto, papà, vedendomi finire in una cella imbottita. Per mia e sua fortuna non è vissuto abbastanza da vedere il proprio figliolo trasformarsi in un attimo da promettente ricercatore ad assassino psicotico.

    Richiudo la porta della stanza dei miei e torno in salotto. Passo un dito lungo il bordo nero del pianoforte a muro, che è sempre stato qui ma che non ricordo nessuno abbia mai suonato. Forse era una specie di cimelio di famiglia, fatto sta che l’ho sempre visto riempire quest’angolo con la sua mole nera e lucida, e qualche volta da piccolo mi divertivo a fingere di suonarlo, facendolo gemere in una cacofonia devastante, fino a che mamma non mi gridava di farla finita. Mi aveva chiesto se volessi prendere lezioni, ma avevo rifiutato. Non mi interessava poi così tanto. Preferivo leggere.

    Faccio un giro anche in cucina, aprendo il frigo e tutti gli sportelli dei pensili. Ovviamente non c’è nulla. Più tardi, che mi piaccia o no, dovrò andare al supermercato. Sono quindici anni che non faccio la spesa, chissà se mi ricordo ancora come si fa. Spero solo che non ci sia troppa gente, non ci sono più abituato e mi danno fastidio i rumori forti. Prima, mentre ero in taxi, il tassista ha acceso la radio. Ho dovuto chiedergli di spegnerla perché mi stava venendo mal di testa. Forse è già ora di prendere le mie pillole, ma sono in valigia e non ho voglia di recuperarle. Tolgo un bicchiere dallo sportello del pensile sopra al lavandino e lo riempio di acqua, dopo averla lasciata scorrere per un po’. Va tutto bene, Will. Una cosa alla volta. Ce la farai a fare la spesa. Ce la farò senz’altro, grazie a quelle meravigliose pillole che hanno la capacità di allontanarmi da tutto e da tutti, consentendomi il lusso di osservare il mondo da una certa distanza. Le odio perché so che mi servono ma allo stesso tempo mi rendono un mostro insensibile, o almeno è così che mi sento.

    Ho deciso che dormirò nella stanza dei miei, lasciando libera la mia vecchia camera da letto. Per lei. Per quando verrà a stare con me. Dopo aver bevuto mi sento leggermente meglio e decido di continuare l’esplorazione della casa, tornando nel corridoio su cui affacciano le camere da letto e aprendo la porta della mia stanza. Mi blocco sulla soglia. Dentro, pile di scatoloni ammassati gli uni sugli altri, come dopo un trasloco. Mi avvicino ad una delle pile, sollevo l’aletta di cartone che nasconde il contenuto dello scatolone che sta in cima e sbircio dentro. La dodicesima notte. Misura per misura. Riccardo II. Riccardo III. Scoppio in una risata bassa e liberatoria, una risata di sincera felicità, mentre apro via via tutti gli scatoloni, rendendomi conto che qui dentro c’è tutta la mia roba. Non solo i libri, ma anche i miei appunti, qualche CD, e persino una bella collezione di abiti passati di moda da quindici anni. Certo. Io e mia moglie vivevamo in affitto, e immagino di potermi definire fortunato che le mie cose non siano state buttate. Passo le dita lungo le coste dei libri, nominandone i titoli a mezza voce e sentendomi meno morto di quanto non mi sentissi cinque minuti fa. È vero, non potrò riavere il mio posto all’università. È vero, non è rimasto molto della mia vecchia vita, ma forse anche io posso tornare ad essere me stesso. Perché questi sono i miei libri. I miei libri. E sono ancora tutti qui.

    Non so per quanto tempo rimango a frugare negli scatoloni, divorato dalla voglia di mettermi subito a rileggere qualcosa, qualche libro che nella biblioteca dell’ospedale non c’era, magari, prima di riprendermi e rendermi conto di due cose. La prima è che devo essere rimasto qui per un bel pezzo, perché la luce che filtra dalle persiane abbassate si è fatta più forte e credo che sia quasi mezzogiorno. La seconda è che sono emozionato. Non ero emozionato da un sacco, non provavo quasi niente da un sacco. E nel trasporto di questa inaspettata ondata di umanità decido che non posso aspettare. Lascio lì gli scatoloni con la roba metà dentro e metà fuori e torno nell’ingresso, dove su un pesante mobile di legno è appoggiato il telefono. Problema. Io non lo so il numero di Janice. Speriamo che mamma tenesse un elenco telefonico, qui da qualche parte – penso, aprendo il primo cassetto del mobile, che è pieno di penne, elastici, graffette, ma poco altro. L’elenco è nel secondo cassetto, e inizio a sfogliarne le pagine sottili con una certa frenesia, registrando solo con mezzo cervello il fatto che non ho compiuto nessun gesto frenetico da non mi ricordo quando. E dopo aver trovato la pagina giusta –     no, non è questa, dev’essere la successiva –     trovo anche il nome di mia cognata, seguito dal numero che mi serve. Tolgo il telefono dalla base con il timore irrazionale che magari la linea non sia stata riallacciata, anche se so che non è così, e compongo il numero. Suona una volta. Due. Calma, Will. Cerca di sembrare normale. Equilibrato. Sano.

    Pronto? Ho sempre pensato che Janice avesse una bella voce, in aperto contrasto con la stronza acida che è in realtà.

    Ciao Jan. Sono William. Silenzio. Senti, lo so che non dovrei chiamare direttamente, che forse dovrei sentire i servizi sociali prima, e tutto quanto. Ma volevo sapere come sta. Vorrei vederla le dico, tutto d’un fiato, preparandomi a ricevere come minimo un vaffanculo in perfetto stile Janice. Silenzio.

    Jan. Te lo chiedo per favore. È mia figlia e non la vedo da quindici anni. Sì, per colpa tua, maledetta troia. Sei stata davvero brava a tenerla lontana.     Cosa le hai raccontato? Che suo padre è un mostro, vero? Beh, forse lo sono, ma non sta a te decidere cosa mia figlia debba sapere o meno. Anche se non è proprio così, perché al momento è lei il tutore legale di mia figlia. Fino a quando mia figlia non sarà maggiorenne, e per mia fortuna non manca molto.

    No, Will. Non se ne parla risponde lei, con la voce gelida come la lama di una ghigliottina sul collo di un condannato a morte. Allora ti hanno fatto uscire, è così? Beh, sappi questo, io non penso che tu sia guarito, non so nemmeno se fossi pazzo o se tu abbia preso tutti per il culo. Ma una cosa è certa. Non ti permetterò di avvicinarti né a me né a lei. Non telefonare più o chiamerò la polizia. E riappende, la troia. Rimango lì come uno stronzo, con in mano il telefono che emette il suono singhiozzante della linea caduta, poi, con un movimento rallentato, premo il tasto rosso per chiudere la comunicazione e appoggio il telefono alla base. Che ti aspettavi? Che ti stendesse un tappeto rosso? Magari che ti organizzasse una bella festa di bentornato? Svegliati, cazzo, quello che hai fatto non sparisce solo perché ora la tua condanna è finita.

    Sento un fischio penetrante nelle orecchie e mi appoggio al mobile, mentre vengo investito da un momentaneo accesso di nausea. La valigia che ho lasciato vicino alla porta quando sono entrato mi guarda con aria suadente, come a volermi ricordare che se prendessi un paio di pillole la smetterei di sentirmi così da schifo. Mi accovaccio accanto alla valigia e la apro, togliendo i piccoli barattoli di plastica che contengono il mio biglietto di sola andata per l’Isola che non c’è. Litio carbonato. Clorpromazina. E risento nelle orecchie le mille raccomandazioni del dottor Beardsley, e la voce di Jan, che dice che no, mia figlia non la posso vedere, perché adesso appartiene a lei e non a me, come invece dovrebbe essere se vivessimo in un mondo giusto. Mi faccio cadere due pillole sul palmo e torno in cucina. Il bicchiere è ancora sul piano di marmo e lo riempio una seconda volta. E mi faccio schifo, perché avevo sperato di non averne più bisogno una volta fuori, qualunque cosa dicesse il dottor Beardsley. Ma mi sono appena ricordato che vivere è più complicato di quanto non ricordassi. E comunque devo ancora fare la spesa. Nota a me stesso. Comprati un pacchetto di sigarette. E perché no, una bottiglia di scotch.

    2.

    No, Will. Non se ne parla. Mi blocco a metà tra il corridoio e la porta del salotto, sentendo zia Jan parlare al telefono. Will. Ho sentito bene? Faccio un passo indietro, stando seminascosta dietro allo stipite, e allungo le orecchie più che posso, maledicendo il signor Stevenson, il nostro vicino, e quel suo dannato tagliaerba. Fa più casino di un aereo in fase di decollo, e non sono del tutto certa di avere sentito il nome giusto. Will.

    Allora ti hanno fatto uscire, è così? Beh, sappi questo, io non penso che tu sia guarito, non so nemmeno se fossi pazzo o se tu abbia preso tutti per il culo. Ma una cosa è certa. Non ti permetterò di avvicinarti né a me né a lei. Non telefonare più o chiamerò la polizia. Il bip della chiamata che viene chiusa, seguito dal secondo bip del telefono che zia Jan appoggia alla propria base, sembrerebbe, con un gesto stizzito. No, ho capito bene. Stava parlando con mio padre, e io non sapevo nemmeno che adesso fosse libero. Inizio ad andare in agitazione, perché deve aver chiamato per parlare con me, o magari per incontrarmi, ma la zia ha già deciso che non posso vederlo.

    Quando avevo tre anni mio padre ha ucciso mia madre. Io non mi ricordo niente, ero troppo piccola, so solo che ad un certo punto mamma e papà non c’erano più, e io sono venuta a stare con la zia. Per tanti anni non ho saputo esattamente cosa fosse successo perché zia Jan si è sempre rifiutata di parlarmene, anche se lo vedevo che quando nominava papà la faccia le si accartocciava in una smorfia di disgusto. Era inutile che la perseguitassi con un sacco di domande, non mi ci è voluto molto ad imparare che l’unica cosa che ne avrei ottenuto sarebbe stata una zia nervosa e irascibile per il resto della giornata. Mi aveva solo detto una cosa, ed è stata per anni l’unica informazione che avessi riguardo a quella faccenda. Tuo padre era malato.     Da piccola non capivo cosa intendesse, mi immaginavo mio padre a letto con l’influenza, come capitava a me di tanto in tanto, e non riuscivo a collegare febbre e raffreddore con il fatto che i miei genitori fossero spariti. Per un po’ sono stata convinta che fossero entrambi morti di influenza, poi sono cresciuta. Ho scoperto che mamma era morta ma che papà invece era in un ospedale. Se l’era fatto sfuggire la nonna una volta che ero andata a trovarla. Ci andavo spesso, da lei, quando magari zia Jan doveva fermarsi al lavoro fino a tardi, e mi piaceva guardare le fotografie che teneva in bell’ordine su un paio di tavolini. Su uno c’erano un sacco di persone che non conoscevo, delle quali la nonna mi spiegava i complessi gradi di parentela, ma sull’altro c’erano le foto del mio papà, di quando era piccolo, e poi di quando era ragazzo. Vedi? Qui era il giorno in cui si è laureato. Ero tanto orgogliosa di lui - diceva la nonna, e anche lui aveva uno sguardo orgoglioso, nella foto, con un sorriso aperto e spensierato, mentre stringeva la nonna in un abbraccio. C’era anche un’altra foto che mi piaceva guardare. Su quella c’erano lui e la mamma nel giorno in cui si erano sposati. La mamma era bellissima, con un vestito color crema e i capelli rossi raccolti in un’acconciatura elegante. Una volta anche io ho provato a raccogliere i capelli in quel modo, ma non mi sembrava affatto di assomigliarle, nemmeno se     ho i capelli uguali ai suoi. Nella foto papà la guardava come se non avesse mai visto niente di così bello in vita sua, e ogni volta pensavo che anche io, da grande, avrei voluto sposarmi con qualcuno che mi guardasse in quel modo. Nemmeno la nonna rispondeva alle mie domande ma era un po’ meno caparbia di zia Jan, e una volta ero riuscita a strapparle di bocca il fatto che papà fosse all’ospedale. Perché sta là, nonna? Che cos’ha? Posso andare a trovarlo? Ci andiamo insieme? Mi ci porti, nonna? Ti prego. Ma mi aveva detto solamente di no e aveva cambiato discorso, mettendo il bollitore sul fuoco, perché ormai era l’ora del tè.

    Poi avevo scoperto tutto, nel peggiore dei modi. Avevo scoperto che mio padre era pazzo e che aveva ucciso mia madre, e che era talmente pericoloso che lo tenevano rinchiuso in manicomio. O almeno era così che me l’aveva detto Ricky Burnham un giorno a scuola. Avevo pianto da morire, quel pomeriggio, con zia Jan che tentava invano di consolarmi provando a mettere una pezza all’errore che lei stessa aveva commesso. Perché avrebbe dovuto dirmelo, e non aspettare che lo facesse qualcun altro, in quel modo, e le avevo gridato che non l’avrei perdonata mai più. Ma ora che sono passati anni, che ho imparato ad accettare cosa sia realmente successo, ora che sono più grande, mi rendo conto che zia Jan forse l’aveva fatto per proteggermi. E poi mamma era sua sorella, e di certo la zia

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