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Guarirsi
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E-book229 pagine3 ore

Guarirsi

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Info su questo ebook

Con questo libro l’autrice evoca lo spirito di tolleranza donato a ognuno di noi nell’affrontare le debolezze della vita che, se non possono essere evitate, tuttavia possono condurre a una propria redenzione. Il problema che ammorba la vita del protagonista, e che lui stesso crede senza soluzione, si rivela in realtà l’occasione per maturare la consapevolezza di una propria resistenza a un male inevitabile e della capacità di evolversi attraverso di esso. Se infatti non tutte le sciagure vengono per nuocere, alcune sono necessarie per prendere coscienza delle proprie capacità, spesso sottovalutate, e del proprio spirito di sopravvivenza che il più delle volte conduce a una personale fioritura neanche mai pensata. Il dialogo con il proprio intimo è l’unico avvio alla vera conoscenza di una forza di cui spesso si sottovaluta l’entità e che invece definisce per la maggior parte la propria persona.

Aurora Aisa nasce a Perugia il 9 giugno del 1999. Legata ancora per poco al vecchio millennio, si appassiona fin da subito alla carta scritta e coltiva la sua passione anche al di fuori dell’ambito scolastico. Diplomata al liceo classico “A. Mariotti” di Perugia, prosegue i suoi studi laureandosi in Giurisprudenza. 
Il suo libro nasce dalla necessità di trovare la cura a un vissuto che determina, nei più fortunati, la necessità di dialogare con sé stessi. In questo, la lettura l’ha sempre aiutata, suscitando in lei un profondo rispetto per il mestiere dell’autore e ammirazione per chi lo persegue.
LinguaItaliano
Data di uscita31 mag 2023
ISBN9788830684027
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    Guarirsi - Aurora Aisa

    piatto.jpg

    Aurora Aisa

    Guarirsi

    © 2023 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-7791-3

    I edizione aprile 2023

    Finito di stampare nel mese di aprile 2023

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    Guarirsi

    L’avevano chiamato reflusso ma la verità è che non aveva un nome, non poteva essere soltanto reflusso, era un fuoco perenne che mi bruciava le viscere, che sentivo consumarmi le energie, dissiparmi il sapore del cibo in bocca.

    a M.

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    I

    - Mi fa male qui.

    - Dove?

    - Qui, - indicavo il centro del mio petto.

    - Oh, quello è il dolore migliore.

    - Perché il migliore?

    - Perché è segno che qualcosa deve cambiare.

    - Ma perché qualcosa deve sempre cambiare?

    - Perché è meglio che sia così.

    - In che senso?

    - Nel senso che preferisci tu. Ma è così.

    - Beh non ne sono convinto. Come faccio a esserlo se ho questo enorme peso qui.

    - Non preoccuparti. È un mattone finto. Anzi, un giorno lo ringrazierai questo mattone. Riedifichi tutto che è una meraviglia.

    - Sì ma cosa è? Sì... cosa significa questo dolore insomma?

    - È un presente che ti dà quello di cui tu non hai bisogno.

    - Che ne sai?

    - Lo so.

    - Al principio pensavo fossero le lasagne.

    - Le lasagne te lo fanno passare semmai.

    - Ma poi l’ho incominciato ad avere anche a digiuno e da lì ho capito. Ho capito che le lasagne non erano colpevoli. Io ero colpevole verso me stesso.

    - Esserne consapevoli è la partenza.

    - No, sono fermo, maledettamente fermo, non so perché ancora sto così, o meglio, mi sembra di non aver mai saputo un granché, anche di me stesso. Mi sento tanto cretino per questo.

    - Semmai è il contrario. Sei intelligente. Vuoi capire il perché di questa sofferenza. Se proprio ti senti cretino almeno non sei rassegnato.

    - Sono più le volte in cui lascio il gas acceso che quando lo spengo.

    - E cosa c’entra, perdonami.

    - C’entra che mi devo dare una svegliata e sonora. Perché non sarei cretino come credo di essere? Me lo sento dentro, proprio, una predestinazione a rincoglionirmi ogni giorno che passa.

    - Perché sai che non la puoi risolvere con una pasticca. Semplice. Altrimenti non mi avresti cercato per risolverla.

    - Non è che ti abbia cercato. È il mio dolore che mi ha portato da te. Ne avrei fatto volentieri a meno.

    - Mi hai cercato perché sai che posso darti la pasticca giusta.

    - Mi era parso che le pasticche poco c’entrassero.

    - Infatti. Non devi ingoiare nulla se non quei nervi che ti fanno uscire di testa.

    - Eh?

    - Urli, spacchi le cose, sei in preda al tuo dolore, alla tua rabbia. Placati. Tutti ‘sti sfoghi ti fiaccano e basta. Tutto ‘sto baccano lo fa chi è debole. Vuoi esserlo?

    - Lo sono.

    - Puoi non esserlo. Ti viene facile esserlo, come a tutti, ma non sei contento così, non sei contento di essere debole, ma lo sei, ora. Domani probabilmente non lo sarai più. Non vuoi consumarti, vuoi vincerla. Neanche saresti qui sennò. Ti complichi la vita mentre ai deboli viene naturale semplificarsela. Sei geneticamente portato a superarle, le cose, i tuoi problemi, i problemi di tutti.

    - Io non voglio complicarmi la vita, non più.

    - Lo so. Vedi, non sei debole, in fondo, perché il debole non può scegliere di facilitarsele, le cose, ne è succube. Tu puoi scegliere, ancora, finché non sei sottoterra. Vuoi finirci perché sei stato debole?

    - Guarda che io sono succube, di questo dolore, del mio sentirmi cretino, inadeguato a vivere bene. Sono succube del mio vivere male, ormai si è insediato questo malessere dentro di me.

    - Può essere altrimenti. Altrimenti non saresti qui.

    - Altrimenti muoio. Io ti parlo perché è così che mi parlo.

    - Lo so. Sono qui apposta.

    Avevamo fatto pochi chilometri e ancora non avevamo riaperto bocca. Continuava a dolermi quel punto che, se toccato, mi avrebbe fatto ingobbire all’istante, tanto era maligno, ignorante. Ero diventato così gobbo, giorno dopo giorno, che quasi strisciavo per terra, mi ci trascinavo per quel mondo lurido in cui non volevo più stare, non a quel modo almeno. Mi pareva tutto lurido, tutto così brutto, poco goduto, condannato a potermela godere poco. Mi ero trascinato lì, da lui, in cerca di una soluzione in cui comunque non credevo, ma non volevo morire. Non ancora, almeno ci avrei provato a godermi quel poco o quel molto che, speravo, potessi godermi, ma non in quelle condizioni. La farmacia aveva fallito, ancora prima il dottore, i dottori, e ancora prima io che mi ero rivolto al dottore, nella speranza di ritrovarmi Gesù, davanti, quando invece anche il caro dottore avrebbe avuto bisogno di Gesù, travestito da dottore. "Signore è reflusso, non si preoccupi, elimini questo e quell’altro, non faccia questo e quell’altro, non viva, non respiri e vedrà che sarà tutto risolto, intanto ingoi questa e quell’altra, che sono pillole magiche, solo attenda che le privazioni sortiscano il loro effetto e sarà libero". Sarà libero, parole audaci per un medico. E infatti la terra promessa era ancora lontana, le pillole non si erano rivelate magiche come mi era stato detto. Ma mi era stato detto tanto, troppo e tutto superfluo, perché avevo un incendio per l’esofago e non era per spegnersi. Ormai mi mancava tanto così dall’uscire di testa e forse ci ero già uscito, tanto era invadente quel dolore, dappertutto, come se mi precedesse, a ogni passo, e lasciasse la scia dietro di me. Aiuto, solo aiuto, pensavo, altrimenti qualcuno mi seppellirà a breve, lo so, un giorno per la strada cadrò e non avrò lasciato niente a questo mondo e gli altri mi avranno visto come l’ennesimo che è venuto e che se ne è andato senza far rumore. Perché io camminavo, ancora, ma mi sentivo già morto, in ansia per la fossa imminente dove sarei caduto perché tanto, per strada, mi si sarebbe palesata, come una tana di un coniglio che qualcuno non aveva richiuso con l’asfalto. Mi sentivo morto, tanto morto, ma ancora non ci ero finito in quella fossa, l’aspettavo con ansia, come si aspetta la propria liberazione, quella poteva esserlo, altro che pasticche, eppure poteva andare diversamente, stavo combattendo perché andasse diversamente. Del resto, più che cadere nella tana di un coniglio, in una fossa dimenticata da Dio, sarebbe stato meglio un coltello ficcato lì, tra i pettorali che non avevo, equidistante dai capezzoli, all’epicentro del dolore, in mezzo ai polmoni e sì che sarebbe stata gloria, avrebbero cantato gli angeli per me. Da troppo mi trascinavo in quello stato, una morte lenta e preannunciata che mi aveva sfibrato l’anima, le membra, alla ricerca della fossa che mi attendesse per strada. Aiutami Dio, dicevo, ma mi pareva non fosse mai esistito e mai ci avrei creduto in quelle condizioni. Però lo invocavo perché ero stanco e affamato e ridotto alle ossa e alla mia anima nuda. Le afflizioni non purificano, affliggono e basta e basta lo volevo dire da tempo, a tutto e a niente, comunque. Tutto era male, per me, perché ormai sentivo solo male, un demonio che mi abitava dentro, ma del resto, a quel punto, sarebbe stata una dannazione per chiunque. Ma dannato non lo volevo essere e mi ero rivolto a quell’uomo, di cui ancora non so il nome, ma sapeva esattamente dove portarmi e mi veniva naturale fidarmi di lui, quasi fosse stato un atto di clemenza che il mio corpo mi concedeva.

    II

    - Da quando è cominciata?

    - Due anni or sono.

    - Né troppi né troppo pochi.

    - Sì ma abbastanza per scendere da questa macchina e buttarmi sotto al treno che sta per passare.

    - Non ti ho portato qui per caso.

    - Perché siamo qui?

    - Direzione.

    - Direzione?

    - Di ogni cosa, dell’acido che ti percorre l’esofago, di questo treno che va da un posto all’altro. Li collega e loro si lasciano collegare. Neanche i luoghi del mondo vogliono stare da soli.

    - Io mi ci sento.

    - Cosa non andava due anni fa? Cosa continua ancora a non andare?

    - Avevo appena sventato una fervida tentazione di morire. Non ci ho più riprovato ma di certo le cose non sono migliorate.

    - Cosa non andava due anni fa?

    Non riuscivo a rispondere. Mi era divenuto difficile, alla fine, pensare all’origine di tutto.

    - Perché volevi morire? - ripeté. Mi guardava con grazia, quella che hanno in pochi.

    - Perché mi sembrava di aver perso tutto quello che fino ad allora avessi costruito con tanta fatica. Ma tanta, tanta. Tua madre, tuo padre, i film, i libri, i sogni, la tua coscienza ti induce a pensare che sopra l’amore non possa esserci nulla, ma per chi, per cosa mi chiedevo, e mi chiedo ancora, per un altro o per se stessi? Se desideri amare un’altra persona al di sopra di tutto, anche al di sopra di te stesso, al di sopra della tua versione migliore, c’è caso che arrivi quel giorno in cui sopraggiunga, spavaldo, il bisogno di rinfacciare la tua scelta all’altro, quell’altro che volevi amare così tanto e che magari hai amato così tanto, solo perché non hai il coraggio di rinfacciare a te stesso di aver fatto la scelta sbagliata. Se desideri amare te stesso al di sopra di tutto e di tutti sei egoista ma ti senti solo prima o poi. Come la rigiri è un’inculata e la mia inculata è stato prendere sul serio questa scelta. Me la sono presa troppo e questo è il risultato. Non mangiavo più, ho fatto come i buddhisti, introduci l’indispensabile per curare il corpo, ma io non sono buddhista, invece che curarlo il corpo l’ho ammalato e mi sono ammalato perché non sono stato in grado di accettare che è un’inculata per tutti. Cosa mi chiederai, boh, il sistema, penso, come uno è stato fatto, ecco. Se siamo stati fatti a immagine e somiglianza di Dio, Dio dovrebbe essere un po’ bruttino.

    - Ora mangi?

    - Mangio per campare, senza gusto. Come si fa a provare piacere nel fare una cosa che ti fa male, quando la fai? A me, ancora fa male inghiottire il cibo. Un bolo di acido mi prende il cibo in gola, come se non mangiassi da secoli. E questo ogni volta, ad ogni pasto e a ogni pasto di ogni giorno.

    - Qual è stata la scelta che ti ha deluso?

    - Non ho scelto granché, alla fine. Troppo poco amore per l’altro ma anche per me stesso. Sono solo tanto provato, da tempo. Ma non voglio morire, non ancora. Almeno voglio essere in grado di fare la mia scelta, da sano, da guarito, anche se penso e penserò sempre sia una grande inculata, tutto quanto, anche l’essere qui con te, l’averti cercato o trovato, tu che mi chiedi cose a cui io, in primis, non so rispondere, anche se riguardano me. Quanta poca consapevolezza si ha delle cose, delle nostre e di quelle di coloro che amiamo e odiamo, di tutto insomma, almeno questo lo so. Ma ti chiedo aiuto, comunque, perché fino in fondo ci abbia provato.

    - Il cervello fa tanto ma la volontà fa tutto. Pensa bene e poi agisci bene e forse, dico forse, perché non sono Dio, sarai libero.

    - Da questo?

    - Da questo e dall’altro che ti si presenterà. E allora ti sarai detto da solo sono bravo e non avrai bisogno che nessun altro te lo dica. Non avrai bisogno di chiederti se esista o no Dio perché per te, allora, sarà sempre esistito e, anche se avrai qualcos’altro da risolvere, cercherai la soluzione, come la stai cercando ora, non curandoti se sia un’inculata o meno, perché aver risolto questo ti avrà reso indifferente porti certe domande. Sarai solo contento di avercela fatta. Io con oggi ti sto facendo un’offerta, quello di provare a risolvere, in cambio del tuo impegno.

    - Che ci guadagni?

    - L’unica cosa che valga la pena guadagnare. Rispetto. Non per me ma per quello che avrai per la tua vita. Rispetto per essere venuti al mondo e per farlo capire agli altri. Generazione incredula che pensa sia tutto dovuto. Poveri noi tutti. Nulla sarà mai dovuto a nessuno ma intanto uno vive, sente, ed è comunque un qualcuno nel mondo a cui è stato concesso di essere qualcuno. Questo treno avrebbe dovuto smettere di viaggiare da tempo, ma ancora viaggia. Hanno inventato gli aerei, quando la fretta si è imposta sul mondo, ma il treno ti induce a pensare, ti fa guardare la terra e non il cielo e devi partire dalla terra per arrivare al cielo. Ti induce a osservare nel modo in cui non osserveresti, né da un treno né da una macchina, semmai quando vai a piedi, chi va ancora a piedi, ma comunque dovresti camminare lentamente. Il treno ti costringe a guardare dalla sua lentezza, ti lega al suo incedere cauto. I pensieri buoni, se non giusti, richiedono tempo, poche interferenze, concentrazione. Concentrazione su ciò a cui la fretta ti ruba tempo e goditi questo tempo in cui devi concentrarti su di te. Hai scelto di salire su un treno che ti condurrà da qualche parte. Sii contento di non aver scelto la morte nella sofferenza, puoi ancora raggiungere la tua terra promessa. Allora il tuo dolore ti sarà parso sensato.

    Avevamo appena lasciato quei binari desolati ma io non mi sentivo desolato. L’angoscia mi appesantiva l’anima, il corpo lo era da un pezzo, pesante, della pesantezza dei peccati che non si vorrebbero commettere e che invece si commettono. Il mio peccato era stato di non aver avuto rispetto per me stesso, ma pazienza, potevo rimediare. Anzi, l’avrei dovuto fare per tutti coloro che sono morti quando avrebbero voluto vivere molti più anni di quanti ne avessero vissuti e anche perché le mie non erano state le disgrazie peggiori che l’uomo possa subire e non dovevo più subirmi, anzi, non dovevo più subire quella agonia a cui quasi mi ero affezionato. Che padrone amorevole. Mi pareva che il corpo non mi appartenesse più, quando invece era l’unica cosa che in quel momento avevo. Il dolore mi pulsava nel petto rendendomi sempre più ripiegato su me stesso, e non c’era più tanto tempo per cambiare le cose. Ero stanco, tanto stanco, ma a quel soccorso ci credevo, l’avevo avvistato nel mare della mia coscienza e a me è sempre piaciuto il mare. Non si scompone, continua a fluire e defluire, come un corpo che entra in un altro e io da tanto tempo non entravo in un corpo ma lo desideravo tanto; e desideravo anche che qualcuno entrasse dentro di me, dentro il mio dolore per poi gioire con me per quando l’avessi sconfitto, se mai ne fossi stato in grado. Sarebbe stata una sorpresa,

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