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Lezioni private - L'opera: Guida all'ascolto del repertorio da concerto
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Lezioni private - L'opera: Guida all'ascolto del repertorio da concerto

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Info su questo ebook

Piero Mioli (Bologna, 1947), docente di Storia della Musica presso il Conservatorio di Bologna, è uno dei più apprezzati musicologi italiani. Svolge un’appassionata attività di scrittore e divulgatore musicale attraverso la pubblicazione di saggi e monografie su Rossini, Gluck, Donizetti e Verdi.

In questo volume affronta senza timori reverenziali un viaggio nel mondo del melodramma attraverso un agile dizionario di oltre 600 voci che allineano compositori, opere, interpreti, dal Barocco alla musica contemporanea. Un grande puzzle che lascia al lettore il gusto di ricomporre il meraviglioso e intramontabile affresco dell’opera lirica.

Nella playlist online una selezione imperdibile delle arie d’opera più belle, interpretate da cantanti e direttori d’orchestra entrati nella leggenda.
LinguaItaliano
Data di uscita24 ago 2022
ISBN9788863953602
Lezioni private - L'opera: Guida all'ascolto del repertorio da concerto

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    Anteprima del libro

    Lezioni private - L'opera - Piero Mioli

    CLAUDIO ABBADO

    (Milano, 1933)

    Direttore stabile a Milano, Vienna e Berlino, fondatore di orchestre come la Mahler e la Mozart, concertatore straordinario del grande repertorio mitteleuropeo (da Haydn fino a Webern e oltre), dall’opera ha trascelto quanto in genere più aggrada ai direttori sinfonici. Donde esecuzioni di Mozart, Verdi, Wagner e dei capolavori di Bizet, Debussy, Berg semplicemente perfette, trasparenti di forma e di suono. Tale visione classicistica dell’opera ha portato con sé interpretazioni insuperabili di Rossini, dalla Cenerentola al riscoperto, eseguito e rieseguito, sempre gustato Viaggio a Reims. Discografia adeguata.

    Milanese, direttore stabile a Milano (Scala), Vienna (Wiener Philharmoniker) e Berlino (Berliner Philharmoniker), Claudio Abbado (1933) ha dato interpretazioni perfette dei capolavori operistici di Mozart, Verdi, Wagner, Bizet, Debussy e Berg

    ROBERTO ABBADO

    (Milano, 1954)

    Un direttore molto sensibile al teatro d’opera, di cui accresce continuamente il repertorio: da Rossini a Puccini e oltre, per esempio dai Capuleti e Montecchi di Bellini a Teneke di Vacchi. È figlio del pianista Marcello e cugino del regista Daniele: il nonno era il violinista Michelangelo, il direttore Claudio è zio. Un’autentica famiglia d’arte e di Milano.

    ADOLPHE ADAM

    (Parigi, 1803 – 1856)

    Nel 1841 diede dolce e graziosa musica a Giselle, uno dei più popolari balletti romantici; ma era anche operista, e al genere comique contribuì con una quarantina di lavori simpatici e volutamente disimpegnati, esempio fortunato il Postillon de Longjumeau.

    JOHN ADAMS

    (Worcester, 1947)

    Del Massachusetts, già clarinettista, impaziente di fronte ai rigori delle neoavanguardie, ha una gran passione per il teatro e anche per questo risulta il compositore americano più eseguito. Nixon in China, The death of Klinghoffer e Doctor Atomic sono fra le opere d’oggi più conosciute, e vantano anche sufficiente discografia.

    THOMAS ADÈS

    (Londra, 1971)

    Pianista e compositore inglese in carriera dai vent’anni, ha rappresentato un paio di opere: Power her face e The tempest (che, derivata da Shakespeare, fa salire sempre più in alto il soprano di Ariel e chiude con il rondò, si fa per dire, di Calibano).

    AIDA

    di Giuseppe Verdi (1871)

    Fiato alle trombe, via con la marcia trionfale e i ballabili, ed è l’Aida di Verdi. Troppo facile, molto ingiusto pensare che il recente autore di un dramma originale e raffinato come il Don Carlos di Parigi si limiti a inventare quello squillo di melodia e quei ritmi di danza, pure a loro modo memorabili. Può servire, il pensiero, a intendere alcuni aspetti esterni dell’opera, la necessità celebrativa e l’interesse per il grand-opéra, ma a clamoroso danno di molte altre parti, addirittura della loro maggioranza. Il secondo atto che squaderna quei pezzi è molto grandioso, in effetti, ma il terzo diventa spettacolare solo nei pochi minuti finali, e il primo e il quarto lo sono quasi soltanto verso le loro metà. Del resto, l’opera ha una eloquente singolarità, quella di cominciare pianissima e pianissima finire; poi anche quella di mancare assolutamente di grandi arie solistiche, articolate e stentoree. E se non ha arie, come faccia a far cantare i suoi bravi solisti è presto detto: il tenore e il soprano cantano una romanza ciascuno, cioè un pezzo melodico, intimistico e solitario; un altro pezzo del soprano è una scena, nel complesso meno melodica ma ancora lirica e senza altre presenze; e il baritono e il mezzosoprano cantano altro, lui sembra che avvii un assolo ma invero attacca il superbo concertato e lei partecipa all’impressionante e assiemistica scena del giudizio, in veste magari di corifea (peraltro nemica).

    Lo spartito per canto e pianoforte (edizioni Ricordi) dell’Aida di Verdi. L’opera, ambientata nell’antico Egitto, fu rappresentata per la prima volta all’Opera del Cairo il 24 dicembre 1871sotto la direzione di Giovanni Bottesini

    Singolare libretto, questo d’Aida, non mutuato da alcun dramma o romanzo precedente (come 998 opere su 1000) e nemmeno inventato di sana pianta da un librettista (come i pochissimi restanti, il Pelléas di Maeterlinck-Debussy o il Rosenkavalier di Hofmannsthal-Strauss). Verdi ne trovò la vicenda in uno scenario dell’egittologo Auguste Mariette fornitogli da Camille Du Locle e fece proporre ad Antonio Ghislanzoni che lo svolgesse in libretto, ma evitando fantasie personali. Al simpatico giornalista e librettista stette benone (difatti fu così che fece un passettino nella storia) e lo sbrigativo musicista poté onorare la richiesta del kedivè d’Egitto che voleva celebrare alla grande l’apertura del canale di Suez. La prima proposta di un inno non era piaciuta, a Verdi, ma un’opera sì, sulla posta di 150.000 franchi. Il sovrano accettò, il maestro s’impossessò dell’abbozzo di Du Locle segnalando qua e là paroline fondamentali come recitativo, cantabile, concertato e completò il lavoro. Superate le varie difficoltà insorte (la guerra franco-spagnola, il reperimento di voci adeguate), l’opera in quattro atti andò in scena all’Opera del Cairo il 24 dicembre del 1871, nemmeno due mesi dopo che il Lohengrin di Wagner era penetrato in Italia (direttore sempre Angelo Mariani); e in Europa alla Scala l’8 febbraio del 1872 (direttore, stavolta, Franco Faccio).

    Nelle lande remote dei tempi, l’Egitto è invaso dai barbari etiopi: al sommo sacerdote Ramfis (bs.) la dea Iside comunica il nome del generale, Radamès (t.), che ama la schiava etiope Aida (s.) ed è amato dalla principessa Amneris (ms.) figlia del re (bs.); gli egizi vincono, il re nemico Amonasro (br.) che è padre di Aida ricatta la figlia perché carpisca un segreto di guerra all’amato; Radamès ci casca ma vien beccato, imprigionato e sepolto vivo; mentre la povera Amneris è disperata e costernata, la dolcissima Aida scende nella tomba e muore a fianco del suo amore.

    «Celeste Aida» e «O cieli azzurri» sono le due radiose romanze citate, mentre la scena è «Ritorna vincitor!», che s’allunga a piacere e finisce con il cantabile «Numi, pietà – del mio soffrir». «Quest’assisa ch’io vesto» è l’attacco del concertato (con stretta «Qual speme omai più restami?»), «Spirto nel Nume» e «Numi, pietà del mio straziato core» sono i capoversi della scena del giudizio. Una scena immane detta del tre, perché tre volte i sacerdoti chiamano, accusano e investigano, vanamente, Radamès che tace. Ma il buon tenore prima aveva cantato un drammaticissimo duetto con il mezzosoprano, «Già i sacerdoti adunansi» (tutto nel modo minore), e dopo avrebbe cantato il liricissimo duetto con il soprano, «O terra addio» (tutto nel modo maggiore, con una quantità di sfumature musicali da sorprendere). Non basta, perché un’opera così bella, melodica, ricca, italiana è anche un’opera che si vuole togliere lo sfizio del wagneriano motivo conduttore: e ne insinua in partitura uno sinistro per l’empia razza dei sacerdoti, uno altero e cerimoniale per la principessa, uno sottile e nervoso e violinistico per l’indimenticabile personaggio di Aida.

    Ottetto di pensieri in Aa.Vv., Aida al Cairo, Roma, Banca Nazionale del Lavoro, 1982. È presto e incontestabilmente detto: Decca 1959 con Karajan, Wiener, Tebaldi, Bergonzi, Simionato, MacNeil; Pioneer Artists 1985 con Maazel, complessi della Scala, Chiara, Pavarotti, Dimitrova, Pons, regia di Luca Ronconi, scene di Mauro Pagano e costumi di Vera Marzot.

    ROBERTO ALAGNA

    (Clichy-sous-Bois, 1963)

    Nato a Parigi da famiglia siciliana, nel 1988 ha vinto il concorso Pavarotti e ha avviato una bella carriera internazionale, dai primi ruoli lirici passando a quelli più spinti, da un eccellente Roméo di Gounod agli spessori di Manrico, José e Canio. In disco con il soprano Angela Gheorghiou, coppia notevole anche nella Rondine di Puccini.

    Tenore francese d’origine italiana, Roberto Alagna (1963) ha vinto il Concorso Pavarotti e quindi ha intrapreso una brillante carriera internazionale. Si è distinto nei ruoli lirici, dal Nemorino di Donizetti al Roméo di Gounod, poi è passato a quelli drammatici (Manrico, José, Canio)

    DOMENICO ALALEONA

    (Montegiorgio, 1881 – 1928)

    L’alfieriana Mirra di questo compositore e musicologo marchigiano, composta nel 1912 e rappresentata nel 1920, presagisce la dodecafonia decantata da Schönberg poco dopo.

    EUGÈNE D’ALBERT

    (Glasgow, 1864 – Riga, 1932)

    Compositore tedesco nato a Glasgow e morto a Riga, fu pianista celeberrimo e compose una ventina di opere. Il Tiefland del 1903 cerca di coniugare l’eredità di Wagner con la temperie del Verismo italiano.

    TOMASO ALBINONI

    (Venezia, 1671 – 1750)

    Uno dei non pochi casi incresciosi della storia del melodramma: quando, come di regola nel Barocco italiano, le partiture rimanevano manoscritte, alla fine si perdeva quasi tutto. Delle 48 opere composte nella sua Venezia resta solo il Radamisto.

    MARIETTA ALBONI

    (Città di Castello, 1826 – Ville d’Avray, 1894)

    Voce di contralto ammaestrata e prediletta da Rossini, cantò in Italia, visse a Parigi e fu applaudita anche in America, cantando il repertorio classico, serio e buffo, dal Barbiere di Siviglia agli Ugonotti di Meyerbeer. Contralto profondo capace di squilli sopranili.

    ALCESTE

    di Christoph Willibald Gluck (1767)

    Come quello di Ifigenia, il mito di Alceste è greco, tragico, euripideo; soltanto non fa parte del ciclo ruotante attorno alla guerra di Troia e risulta esser stato un po’ meno trattato dal moderno teatro in musica. Nonostante il favore di Lully, o il disinteresse di poeti cesarei come Zeno (amico di Ifigenia, invece) e Metastasio (autonegato ai pur diletti tragici antichi) o l’altitudine del messaggio morale in genere hanno determinato una fortuna minima di qualità, se non proprio quantità. Lo stesso eccellente libretto di Calzabigi, che dopo Gluck avrebbe potuto rompere il ghiaccio lasciandosi intonare da altri, coinvolse soltanto Pietro Alessandro Guglielmi (a Milano un anno dopo la prima, ma rivisto nientemeno che dal Parini).

    Ma forse l’ipotesi vera è un’altra, e non unica: rappresentata al Burgtheater di Vienna nel 1767, pubblicata nel 1769 da Trattnern con la famosa lettera di premessa estetica, infranciosata a Parigi nel 1776, l’Alceste di Gluck ebbe una sua fortuna immediata, per esempio a Bologna nel ’78 e nell’88, contro la consuetudine che esigeva novità su novità; e quando fu concepita e data alla luce, quanto doveva, prima che al messaggio in sé, alla possibilità di esaltare una grande figura di sovrana, moglie e madre? «Regna a noi con lieta sorte, / donna eccelsa, a cui sul trono / altra donna egual non fu» è il coro finale dell’opera, chiaro come il sole ad apostrofare Maria Teresa d’Asburgo-Lorena comodamente assisa nel palco imperiale del suo teatro.

    Tedesco, Christoph Willibald Gluck (1714-1787) ha composto soprattutto per il teatro musicale. Tra le sue opere di maggior successo, Orfeo ed Euridice, Alceste, Armide

    Nella Tessaglia dei tempi che furono, il popolo intristisce per un arcano malanno che ha colpito il re, s’apprende che il re Admeto (t.) deve morire, la regina Alceste (s.) decide di morire al posto suo e lasciate famiglia e corte si accinge a scendere all’Ade quando un erculeo Apollo (bs.), strapazzata una Morte troppo generosa con se stessa, la riconduce alla regia casa. In sintesi, ecco la vicenda, che nell’intreccio accoglie anche i personaggi del Gran Sacerdote (bs.), dei confidenti Evandro (t.) e Ismene (s.), dei due figlioletti Eumelo (s.) e Aspasia (s.) tenerissimamente amati, soprattutto una coralità straordinaria, dall’intervento che introduce («Ah! di questo afflitto regno») a quello che annuncia («Piangi, o patria, o Tessaglia: Alceste è morta!») non senza quello che inscena lo sgomento, lo scompiglio, la fuga del popolo impaurito dall’oracolo.

    Manifesto il protagonismo di Alceste, che provoca fieramente le «Ombre, larve, compagne di morte» e si scioglie in lacrime davanti ai bimbi e al marital suo letto, «Ah! per questo già stanco mio core» («Al pianto vostro io pur bagnato ho il ciglio» nella riversione dal francese), ma non proprio a discapito di Admeto che nell’aria «No, crudel, non posso vivere» dà lunga voce alla semplicissima, impressionante, lapidaria frase di Euripide. «Ora capisco» aveva detto l’uomo messo davanti all’assenza della moglie, e forse doveva dire che di quella presenza solo allora, stolto!, capiva l’importanza (nessun problema per Maria Teresa, vedova da due anni del principe imperiale). Statuaria, ellenica, neoclassica la primigenia tragedia per musica in tre atti; ma bella anche, sebbene non poco diversa e più civettona, la tragédie-lyrique francese.

    In italiano si danno registrazioni dal vivo e tagliatelle con la Callas e la Gencer (fra l’altro ritradotte dal francese), ma a vincere è senz’altro l’edizione francese diretta da Serge Baudo con Jessye Norman e Nicolai Gedda (Orfeo, 1982), integrale di lettura e ottima d’ascolto.

    RINALDO ALESSANDRINI

    (Roma, 1960)

    Clavicembalista di scuola romana e formazione filologica, nel 1984 ha fondato il Concerto Italiano col qualche esegue il Rinascimento e il Barocco sacro e profano, da Banchieri a Händel, dal Festino nella sera del giovedì grasso avanti cena di Adriano al Giulio Cesare di Georg Friedrich. Notevole, in tanta concorrenza, il suo Monteverdi, anche quello operistico.

    FRANCO ALFANO

    (Napoli, 1875 – Sanremo, 1954)

    Nemmeno trentenne musicò un’ardua Risurrezione e con l’opera di successo tratta dall’omonimo romanzo di Tolstòj prese a frequentare i teatri lirici. Ma aveva già scritto una Miranda da Fogazzaro e avrebbe continuato a scrivere sino alla fine, per esempio un’eccellente Sakùntala e un interessante Cyrano di Bergerac. Strumentatore raffinato e melodista notevole («Dio pietoso» è l’intensa preghiera di Risurrezione), il napoletano che aveva studiato anche a Lipsia ed era vissuto a Berlino e Parigi fu efficiente direttore di conservatorio. Lo stimava Toscanini, che gli commise il completamento dell’incompiuta Turandot di Puccini.

    Napoletano, Franco Alfano (1875-1954) ha composto fra l’altro Risurrezione e Cyrano di Bergerac. Ma la sua fama resta legata al completamento dell’incompiuta Turandot di Puccini, commissionatagli da Toscanini

    LUIGI ALVA

    (Lima, 1927)

    Con la Callas, la De los Ángeles, la Cossotto, la Berganza e altre Rosine ancora ha cantato e registrato il Barbiere di Siviglia, brillando di spirito ma anche di finezza, comunicativa, gestualità. Tipico tenore da commedia classica, l’artista peruviano educato in Italia ha cantato molto Settecento napoletano, per esempio il Socrate immaginario di Paisiello e le Astuzie femminili di Cimarosa, e poi il repertorio di grazia fino al Fenton del Falstaff di Verdi.

    CLAUDIO AMBROSINI

    (Venezia, 1948)

    Veneziano, chiamato a rappresentare l’Italia in alcuni eventi internazionali, compone nello stile contemporaneo ma anche nelle forme classiche (un concerto per pianoforte è del 2007). In scena, Orfeo, l’ennesimo è opera di divertita lucidità e Big Bang Circus una «piccola storia dell’universo» elaborata in sodalizio con Sandro Cappelletto, il più fattivo librettista italiano del Duemila.

    JUNE ANDERSON

    (Boston, 1952)

    Bella voce di soprano, l’artista di Boston è partita dal repertorio lirico-leggero ed è maturata verso approdi lirico-drammatici, ma quasi sempre in ambito belcantistico, per esempio dalla Sonnambula di Bellini al Trovatore di Verdi (addirittura dalla Regina della Notte di Mozart alla Salome di Strauss). Scena di maniera, tecnica esemplare, discografia ottima.

    LOUIS ANDRIESSEN

    (Utrecht, 1939)

    Olandese, già docente al conservatorio dell’Aja, nemico giurato di ogni bandiera stilistica, è passato dal serialismo all’alea, dal contrappunto alla musica d’uso. Ha composto diverse musiche di scena su personaggi come S. Matteo, Orfeo, George Sand e Odysseus’ Women.

    L’ANELLO DEL NIBELUNGO / DER RING DES NIBELUNGEN

    di Richard Wagner (1876)

    In fondo, gli sarebbe bastato vederla e sentirla una sola volta. Così, all’incirca, disse Wagner della sua tetralogia, quell’eterno Anello del Nibelungo a cui dedicava immani forze e pensieri, ma forse inutilmente. A parte il disinteresse dei teatri, a parte la frustrazione dell’autore, il fatto è che un lavoro del genere non è affatto un’opera, non è neanche un dramma musicale, non è una pur superba partitura di canti e strumenti: sotto tali spoglie, infatti, si presenta una sorta di cosmogonia, una rappresentazione della preistoria, lo spettacolo del mondo e dell’umanità che nascono. All’oggetto di una volontà sfrenata, disumana, non meno che dantesca o goethiana Wagner dedicò anni e anzi decenni (il primo spunto nel 1848, la messinscena del tutto nel 1876), aspettando, protestando, questuando, disperando, soprattutto interrompendo un’elaborazione snobbata da tutti (fuorché dal solito Ludwig di Baviera, al caso meno pazzo del solito) e addirittura cambiandone alcuni connotati. Ma quando l’ebbe compiuto e allestito, nei sette anni che gli restarono da vivere ebbe modo, finalmente, di premiare un’ambizione tanto delusa e pagare una tasca così capace.

    L’Anello del Nibelungo (Der Ring des Nibelungen), comunemente chiamato tetralogia, è un ciclo di quattro drammi di Richard Wagner (1813-1883): un prologo (L’oro del Reno) e tre opere o giornate (La Walkiria, Sigfrido e Il crepuscolo degli dei)

    Una vigilia e tre giornate o anche un prologo e tre opere compongono il numero l’assieme: L’oro del Reno, La Walkiria, Sigfrido e Il crepuscolo degli dei sono drammi consequenziali, divisi ciascuno in tre atti (tranne il primo, l’ultimo con un prologo suo), che introducono e congedano i personaggi in modo che nulla dell’inizio compaia alla fine. Solo le figlie del Reno rispuntano un momento, per riprendersi l’aureo anello simbolo dello stato di natura che il nano Alberich (bs.) aveva loro strappato giurando, disgraziato!, di voler rinunciare all’amore. Nel frattempo, guai per tutti gli avidi e spesso turpi possessori dell’anello (con una sola eccezione): dopo il Nibelungo vivente sottoterra, per Wotan (bs.) re degli dei vivente in cielo, per il gigante Fafner (bs.) e per Hagen (bs.) figlio di Alberich che vivono sulla crosta terrestre, anche per l’eroico Sigfrido (t.), il sognato nipote di Wotan che doveva riscattare divinità e umanità. Non un guaio ma un voluto olocausto attende invece Brunilde, la walkiria disobbediente alla parola (ma non al cuore) del padre Wotan che nell’anello incriminato ravvisa non lo strumento del potere ma la testimonianza dell’amore (di Sigfrido). Attorno a loro pochissimo coro e altri personaggi come l’astuto Loge (t.) dio del fuoco, il truce Hunding (bs.), la dolcissima Sieglinde (s.) e il nobilissimo Siegmund (t.) genitori di Sigfrido, il vile Mime (t.), la dura Fricka (ms.) e l’amabile Freia (s.), la misteriosa Erda (c.) ovvero la madre-terra che sa tutto da sempre. Tutto crepuscola, dunque, non solo gli dei, ma se l’oro torna al suo posto la scena fa sperare bene; e se dei 134 temi-conduttori l’ultimo a risuonare è quello della redenzione d’amore, allora anche il dramma, dopo tanta preistoria, sembra suggerire una storia migliore.

    Meno sfumati e ambigui di quelli di Tristano e Isotta ma non pertanto pacifici nell’interpretazione e denominazione, i temi della tetralogia materiano di tutto, dall’addio alla disperazione di Wotan, dalla sollecitudine alla punizione di Brunilde, da Sigfrido in genere allo stesso come erede del potere sul mondo. E s’incrociano a non finire mentre l’organico orchestrale non s’accontenta di una sessantina di archi ma cresce di tutti i bassi o contrabbassi possibili dal clarinetto al trombone, da qualcosa come sei arpe a un settore di percussioni comprendente anche 18 incudini.

    Ma fra musica, teatro, dramma, filosofia, a regnare nella tetralogia è sempre la convergenza di queste e di altre discipline; ed è da qui, nonostante l’adozione di un linguaggio del tutto unitario e omogeneo, che sortono diverse scene indimenticabili, d’altezza artistica effettivamente vertiginosa: quando Fafner guarda il cumulo dell’oro e vi intravvede ancora l’occhio ammaliatore di Freia, quando Siegmund rifiuta di seguire Brunilde e fa capire alla vergine walkiria la realtà e la potenza dell’amore, quando Brunilde scongiura il padre che degradandola l’addormenta a lasciarla svegliare solo da un eroe, quando l’uccellino del bosco addita a Sigfrido la via di Brunilde, quando Sigfrido taglia la strada a Wotan, quando Waltraute torna scornata al Walhalla. E quando le amazzoniche Walkirie cavalcano su e giù per il cielo, la musica tellurica di Wagner non sembra un’invenzione umana ma piuttosto un elemento della natura universale. Dunque, la tetralogia è fatta di «opere»? È così poco operistico, il Ring des Nibelungen, che solo a grande e inutile fatica se ne possono ritagliare passi come «Winterstürme vichen» («Cede il verno ai rai del mite april»), «Leb’ wohl, du Kühnes» («Addio, sublime / prole d’eroi»), «Heil dir, Sonne!» («Salve, o sol!»), «Starke Scheite» («Là, una catasta ergetemi»).

    La seconda giornata della Tetralogia è Sigfrido. Figlio di Siegmund e nipote di Wotan, l’eroe dell’opera uccide il drago Fafner, conquista il tesoro dei Nibelunghi e raggiunge la bellissima Brunilde (che poi perderà)

    L’anello del Nibelungo di Teodoro Celli (Milano, Rusconi, 1983) è una guida all’ascolto chiara, sintetica, soggettiva quanto basta, soprattutto bell’e italiana, in un contesto molto germanico e spesso alquanto filosofeggiante. Da una discografia giustamente vasta e ricca, i due poli: il simbolo dell’interpretazione tradizionale, iperromantica, insomma storica è Furtwängler, sul podio dell’Orchestra di Roma nella RAI nel 1953 (EMI); quello dell’asciuttezza novecentesca è Boulez, con i complessi di Bayreuth nel 1979-80 (Philips). Di questo polo ormai leggendario esiste anche un video, con la regia di Patrice Chéreau, le scene di Richard Peduzzi e i costumi di Jacques Schmidt: revisione tardo-ottocentesca e alto-borghese, spartiacque come concezione, indimenticabile come spettacolo.

    PASQUALE ANFOSSI

    (Taggia, 1727 – Roma, 1797)

    Ligure di scuola napoletana, corse l’Europa al seguito delle sue 76 opere. Il Curioso indiscreto nacque a Roma nel 1777, ma quando, sei anni dopo, capitò a Vienna, ebbe la fortuna di beccarsi tre arie nuove di zecca, meglio di Mozart.

    ANNA BOLENA

    di Gaetano Donizetti (1830)

    Quasi un’epopea in musica, disse Mazzini qualche anno dopo, forse colpito da un soggetto finalmente storico e dalla presenza di un tiranno abominevole. Cos’avrebbe detto allora il fondatore della Giovane Italia se di Donizetti avesse conosciuto L’esule di Roma o Il paria, opere che fin dal titolo cantano di oppressi e oppressori, dominati e dominatori? Tragedia in due atti di Felice Romani data al Carcano di Milano nel 1830, oggi Anna Bolena figura piuttosto come il primo grande parto della fantasia drammaturgica del suo autore, sospeso fra un’ampia sceneggiatura classicistica e un tanto semplice quanto romantico messaggio morale. Chi la fa l’aspetti, avrebbe sorriso una borghese commediola del Settecento, e qui, pur senza amenità di sorta, capita lo stesso nell’Inghilterra del primo Cinquecento riletta alla luce e con l’anima dell’Ottocento europeo. Se Anna Bolena (s.) ha sposato re Enrico VIII Tudor (bs.) per pura ambizione, tradendo la regina precedente e il promesso Percy (t.), che fine deve fare? Se Caterina d’Aragona era stata ripudiata dal maritino che ormai sbava per Giovanna Seymour (s.), lei sarà condannata e giustiziata, causa l’aggravante del reduce fidanzato e l’intromissione del maldestro paggio Smeton (c.).

    Anna Bolena (1507-1536), seconda moglie di Enrico VIII e madre di Elisabetta I in un ritratto del Cinquecento. L’omonima opera in due atti è il primo grande parto drammatico di Donizetti, che nacque nel 1830 e rinacque nel 1957 grazie a Maria Callas

    Non son pochi, questi personaggi, anzi sono troppi rispetto alla ulteriore maturità donizettiana esigente il poi tipico triangolo di soprano, tenore e baritono, ma servono all’intelaiatura di un’opera che ha un primo atto così lungo da meritare due grandi assiemi (un quintetto e poi il vero concertato, sestetto con coro), molti cori, un terzetto (quello che colpì tanto Mazzini), diversi duetti, parecchie arie per tutti (fuorché per il basso, bel tipo di energumeno creato dall’arte espressiva di Filippo Galli che come cantante era ormai fuori forma). Centrale il duo delle signore, che dopo un dolente arioso di Anna procede con un Maestoso/Larghetto e un Moderato/Più mosso per due voci più alternate che sovrapposte e diversissime di melodia ma anche, come si vede, di tempo. E finale la scena capitale (in tutti i sensi) della protagonista, che dopo il mesto coro «Chi può vederla a ciglio asciutto» comprende il recitativo «Piangete voi?», il cantabile «Al dolce guidami / castel natio», l’arioso «Cielo, a’ miei lunghi spasimi», la cabaletta «Coppia iniqua» con tanto di coro.

    Meta sublime di una partitura tutta eccellente, la scena è stata cavallo di battaglia di parecchie dive, dalla Pasta (la creatrice) alla Grisi. Nel 1957 l’onore dell’autentico recupero dell’opera tutta toccò a Maria Callas, già Norma e Lucia di nuovo conio: con lei e con parecchi tagli, la squadra scaligera era composta da Gavazzeni, Visconti, Benois, Simionato, Raimondi, Rossi Lemeni (per numerosi riversamenti in LP e poi in CD). Senza tagli, in seria assenza della Caballé, la tarda Sutherland e la Decca del 1987.

    ANNA CATERINA ANTONACCI

    (Ferrara, 1961)

    Artista di grande e pronta musicalità, dal 1986 tratta autori, opere e personaggi che definire un repertorio è difficile, data la loro diversità (nonché rarità, mancandone in complesso Verdi, Wagner e Puccini). Alceste, Elvira, Fiordiligi, Dorabella, Medea, Cenerentola, Ermione, Elcìa, Romeo, Didone, Carmen sono alcune delle sue svariate presenze teatrali, cui s’aggiungano numerose musiche da chiesa e da camera.

    FRANCESCO ANTONIONI

    (Teramo, 1971)

    Nato a Teramo da famiglia di musicisti, perfezionato con Corghi e Benjamin, è compositore eclettico ma rigoroso, eseguito con successo anche fuori d’Italia: dopo una fiaba per voce recitante e strumenti, ha composto il suo primo lavoro teatrale, Chat-Opera, per il Piccolo di Milano. Insegna composizione a Vibo Valentia e conduce programmi musicali a Radio3.

    GIUSEPPE APOLLONI

    (Vicenza, 1822 – 1889)

    Buon patriota che durante la terza guerra d’indipendenza avrebbe composto La bandiera vicentina, da giovane dovette lasciare Vicenza per Firenze e Torino. Delle cinque opere composte in un energico stile postdonizettiano, ecco un Ebreo giustamente popolare all’epoca, grazie allo scatto della melodia e alla forza della sceneggiatura. Invece l’Adelchi tratto dal Manzoni non si poteva accontentare di un tenore protagonista senz’amore, e mentre Carlo Magno ed Ermengarda sono baritono e contralto, Gisla sorella di Carlo e fidanzata di Adelchi è primadonna soprano (che novella Amazzone scavalca le Alpi senza difficoltà).

    GIACOMO ARAGALL

    (Barcellona, 1939)

    Carriera non lunga per il tenore catalano (nato Jaime) che negli anni Sessanta e Settanta ha brillato come Edgardo, Duca, Alfredo, Rodolfo (Luisa Miller e Bohème), con speciale simpatia per Donizetti (il Fernando della Favorita, il Gennaro della Borgia, il Gerardo della Cornaro). Voce espressiva e squillante, presenza scenica di quelle rare perché, una volta tanto, perfettamente credibile.

    IRINA ARCHIPOVA

    (Mosca, 1925)

    Dotata di una schietta voce di mezzosoprano ottocentesco, l’artista moscovita ha cantato anche in Italia, sia Verdi, sia la Carmen di Bizet. Primadonna del Bolscioi, è stata indimenticabile Marina e Marfa per Musorgskij come Giovanna d’Arco e Contessa per Ciajkovskij, abbondando anche di contributi alla fortuna di Rimskij-Korsakov e Prokofiev.

    FABIO ARMILIATO

    (Genova, 1956)

    Tenore genovese che spicca nella programmazione italiana e straniera: voce piuttosto scura e un po’ opaca, con tecnica ferratissima, grande senso della misura e musicalità esegue un repertorio molto vasto e vario, spesso in compagnia della Dessì. Dalla Norma di Bellini all’Amica di Mascagni con molto Verdi (anche Aroldo e Otello), quasi tutto Puccini (anche Turandot), parecchia Giovane Scuola (anche la Cena delle beffe di Giordano e la Francesca da Rimini di Zandonai). Discografia specialmente dal vivo.

    Il tenore genovese Fabio Armiliato (1956), dalla tecnica ferratissima, ha un repertorio molto vasto e vario. Canta spesso in compagnia del soprano Daniela Dessì alla quale è unito anche sentimentalmente

    GIROLAMO ARRIGO

    (Palermo, 1930)

    Palermitano attivo anche a Parigi e responsabile del Teatro Massimo, pur consapevole del cammino delle avanguardie ha sempre seguito un percorso personale, e certo non conservatore. Devoto al teatro, vi ha calato tematiche e personaggi d’alta specie come il Franchismo, Garibaldi, Casanova; senza dimenticare la sua cultura regionale musicando anche un Bell’Antonio tratto dal romanzo di Brancati.

    MARTINA ARROYO

    (New York, 1935)

    Soprano americano di colore, ha cantato e spesso inciso il repertorio più drammatico, specie verdiano (esempio i Vespri siciliani, cantati con Schippers e con Levine), esibendo un registro alto sensazionale. Carriera ad alti livelli ma di scarsa durata: si dice che l’artista fosse talmente legata alla famiglia da volerla sempre con sé, e si sa che questo non è possibile troppo a lungo.

    MICHAEL ASPINALL

    (Stockport, 1939)

    Famoso cantante britannico: di che voce o registro? di falsettista, ma non per ricerca filologica bensì per gusto parodistico; onde ha fatto spettacoli impostati sulla Norma di Bellini o sulla Violetta di Verdi d’una simpatia (anche verso l’oggetto trattato) ed efficienza impagabile. Anche regista, critico, traduttore, scrittore di cose musicali.

    DANIEL AUBER

    (Caen, 1782 – Parigi, 1871)

    Nato in Normandia prima della rivoluzione, morì a Parigi durante la Comune. Tranquillo e operoso, studiò prima pianoforte e poi composizione, fu maestro della cappella di corte (prima regia e poi imperiale) e nel 1842, amicone di Rossini, succedette al maestro Cherubini nella direzione del conservatorio che tenne, almeno ufficialmente, fino alla morte. Non ignaro di altri generi, coltivò soprattutto l’opera, e pur senza aver chissà quale tempra di innovatore contribuì notevolmente allo sviluppo dei due settori francesi.

    Se le opere precedenti furono sempre comiques e talvolta anche romanticheggianti, La muette de Portici del ’28 fu storica e spettacolare, pronta per diventare pienamente grande con il Tell di Rossini e il Robert di Meyerbeer. Questa fanciulla di Portici senza favella era una ballerina, mentre il primo soprano era un altro personaggio: basta a dare un’idea della spettacolarità? In Italia, tuttavia, l’opera più popolare di Daniel Auber fu Fra Diavolo, una divertente storiellina alla Zorro che a tutt’oggi vanta almeno sette edizioni discografiche sia francesi sia italiane, protagonisti tenori acuti come Hopf, Campora, Raffanti, Gedda.

    UN BALLO IN MASCHERA

    di Giuseppe Verdi (1859)

    Dalle stalle alle stelle, con la ventitreesima opera di Verdi. Le stelle sono le meraviglie, i caratteri belli ed equilibrati, le arie e gli assiemi felici, i diversi e sfumati colori della tinta generale dell’opera; e le stalle saranno le immani difficoltà che l’opera dovette superare prima di raggiungere l’Apollo di Roma il 17 febbraio del 1859. Eugène Scribe aveva scritto un libretto per Auber, Gustave III ou le Bal Masqué, che nel 1833 aveva messo in scena l’omicidio del re di Svezia perpetrato nel 1792 da alcuni congiurati e andava benone per la nuova opera, successiva all’Aroldo del ’57 e precedente la Forza del destino del ’62. Ma un regicidio? un caso storico, europeo e tutto sommato abbastanza recente? con una pistola, una fattucchiera e un’amante di mezzo? Non era più prudente confondere e allontanare il fatto nel tempo e nello spazio? un bel Medioevo, la nebulosa Pomerania o la Firenze dei guelfi e ghibellini, dei congiurati perfidissimi e colpevolissimi, una brava sorellina, il solito pugnale almeno silenzioso: questi i rilievi e i suggerimenti della censura di Napoli, la prima piazza del contratto. E poi, non ti vanno a fare un attentato a Napoleone III?

    Tra le innumerevoli incisioni del Ballo in maschera, spicca in dvd l’edizione del 1991 al Metropolitan di New York (Deutsche Grammophon), primo tenore Pavarotti, sul podio Levine, regia di Faggioni

    Era troppo, tutto si fermò e Verdi perse quel po’ di pazienza che gli era rimasto. Ma passò il tempo, gli spiriti sbollirono un po’, il re diventò un banalissimo conte, il luogo divenne l’ignota e barbara America, il tempo fu anticipato di un buon centinaio d’anni, i congiurati rimasero in un certo limbo di gentiluomini conculcati e un po’ rompiscatole. E l’opera, melodramma in tre atti di Antonio Somma, poté assumere il titolo definitivo, Un ballo in maschera, e finalmente andare in scena a Roma. Anche perché Verdi stava entrando nel secondo, grande periodo della sua creatività nel quale, accanto o anche proprio dentro la serietà e la tragedia, dovevano far capolino l’ironia, l’umorismo, la comicità in genere. E a risplendere le stelle erano più pronte del previsto, rispetto ai drammi precedenti, dietro all’Aroldo anche alla prima versione del Boccanegra, e alla susseguente Forza del destino dove quella brillantezza non sarebbe stata altrettanto amalgamata con la consueta drammaticità.

    L’intreccio, che nel 1843 era piaciuto anche a Mercadante e al suo Reggente, si svolge in un paio di giorni, rischiando di piacere anche ad Aristotele e alla sua pretesa trinità: conte di Warwick e governatore di Boston non gradito a tutti i sudditi, Riccardo (t.) ama Amelia (s.), moglie del suo segretario Renato (br.); per scherzo, in combutta col suo paggio Oscar (s.) e altri va a trovare l’indovina nera Ulrica (c.), che nell’ilarità generale gli predice pronta morte per man d’un amico; nottetempo raggiunge Amelia, in un postaccio malfamato, e le dichiara la sua passione, che sente ricambiata, ma al sopraggiungere dei congiurati Samuel (bs.) e Tom (bs.) scappa, lasciando la donna, velata, al segretario che cercava di salvarlo; pur non sapendo che il velo è caduto e Renato ha capito tutto, decide di sacrificarsi allontanando i due sposi e partecipa a un magnifico ballo mascherato, dove però Renato, in combutta con i congiurati, lo colpisce a morte e solo in extremis apprende tutta la verità.

    Basterebbe il preludio a dar l’idea della perfezione, della compiutezza dell’opera con ben tre temi desunti dal seguito: uno si riferisce alla simpatia che la corte prova per il conte, uno allo slancio amoroso di lui verso lei, uno alla misteriosa minaccia della congiura. Ma al di là della tematica, è anche l’orchestrazione raffinata, varia, ricca di colori e dinamiche a dare la misura del dramma, che poi avrà altri preludi a singole scene, uno tenebroso e demoniaco per la maga («Re dell’abisso»), uno «agitato e presto» per il postaccio, uno nobile e appassionato per la seconda romanza del tenore («Ma se n’è forza perderti»); e se il flauto, il clarinetto e il corno inglese trattano il soprano che canta il recitativo «Ecco l’orrido campo» e l’aria «Ma dall’arido stelo divulsa», la stessa Amelia canta la romanza «Morrò, ma prima in grazia» assieme al violoncello.

    Da parte sua il baritono declama e cantilena la grande aria «Eri tu», mentre il soprano leggero scherza con la ballata «Volta la terrea» e con la canzone «Saper vorreste». Una canzone la canta anche il tenore, «Di’ tu se fedele», poco prima di avviare il quintetto «È scherzo od è follia» (mentre all’altro quintetto, «Di che fulgor», il tenore non partecipa

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