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Tutte le novelle
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A cura di Sergio Campailla
Edizione integrale

Parte fondamentale della narrativa di Verga, le novelle segnano tutto l’arco della complessa evoluzione artistica e civile del grande scrittore siciliano. Ora come anticipazione della svolta veristica (Nedda), ora come accompagnamento e pendant dei romanzi della compiuta maturità (le raccolte di Vita dei campi e le Novelle rusticane), oppure come espressione e rielaborazione del tormentato periodo di vita milanese (i racconti di Per le vie), su su fino alla dichiarazione di fallimento del verismo (Don Candeloro e C.i) passando attraverso lo studio delle “classi alte” (I ricordi del capitano d’Arce), la novellistica raccolta in questo volume affronta le grandi tematiche sviluppate nei Malavoglia e in Mastro-don Gesualdo: la lotta incessante e disperata per la sopravvivenza, il conflitto per il bisogno e per il possesso della “roba”, il dibattersi impotente dei vinti prima di essere trascinati nel gorgo immutabile segnato dal destino.


Giovanni Verga

nacque nel 1840 a Catania, dove trascorse la giovinezza. Nel 1865 fu a Firenze e successivamente a Milano, dove venne a contatto con gli ambienti letterari del tardo Romanticismo. Il ritorno in Sicilia e l’incontro con la dura realtà meridionale indirizzarono dal 1875 la sua produzione più matura all’analisi oggettiva e alla resa narrativa di tale realtà. Morì a Catania nel 1922. Di Verga la Newton Compton ha pubblicato I Malavoglia, Mastro-don Gesualdo, Storia di una capinera e Tutti i romanzi, le novelle e il teatro.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854134126
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    Anteprima del libro

    Tutte le novelle - Giovanni Verga

    Introduzione

    Al suo esordio Verga subisce la fascinazione del romanzo e soltanto più tardi decide di tentare la strada delle novelle, che assolvono a una funzione sperimentale, di sondaggio e verifica in nuovi territori. Lo si vede in Nedda, che è la prima novella verghiana in assoluto, con cui valica una soglia decisiva; lo si vede in Fantasticheria, prova generale dei futuri Malavoglia, e nella Roba, che sia pure in un rapporto diverso tematizza le problematiche economiche di Mastro-don Gesualdo.

    Nedda, dunque, come accesso alla fase verista. Nel 1874 Verga si trova a un passaggio critico di esito imprevedibile: come scrittore affida le sue ambizioni a romanzi come Tigre reale ed Eros ma, sempre più deluso ed educato dall'esperienza, è sottoposto a una pressione che viene da lontano e dal profondo. Il bozzetto rusticano è la punta di un iceberg, che l'autore stesso stenta ad avvistare. La paginetta di introduzione appare in questo senso indicativa dei persistenti equivoci, oltre che del disagio; serve a delimitare e a distinguere lo spazio riservato allo scrittore e quello riservato ai protagonisti del suo racconto. Lo scrittore se ne sta protetto a casa sua, nella sua poltrona, col sigaro semispento nelle labbra e gli occhi socchiusi, di fronte alla fiamma del camino, e il suo pensiero svolazza vagabondo, incontrollato. Questo è l'interno confortevole. Fuori, piove ed è un'altra storia. Quale? La storia di una raccoglitrice di olive, che conduce una vita quotidiana di fatiche, e a cui muoiono successivamente la madre, il giovane Janu a cui si è legata in un idillio ben poco bucolico, la figlioletta nata da quella relazione. A Nedda, insomma, tutto va male, e le rimane l'unica risorsa dell'accettazione cristiana del sacrificio. La prefazione segna esattamente una differenza di classe e ricongiunge lo scrittore al suo pubblico d'elite, rassicurato sull'inermità e sull'innocuità del personaggio, investito di luce fuori dalla norma.

    Verga, senza averne precisa consapevolezza, è a un bivio. L'interno borghese di Nedda è una sceneggiatura preterintenzionale della posizione dello scrittore nei confronti della sua materia. Potrà scegliere di sigillare porte e finestre; ma se vuole tenere i contatti con la mutevole realtà, dovrà muoversi nella direzione contraria, uscire dal suo rifugio, affrontare il rischio dell'esplorazione, calarsi nella pelle dei suoi personaggi. Gli sviluppi dell'arte verghiana sono condizionati dalle oscillazioni della sua ideologia, dal nodo delle sue contraddizioni, persistenti sino all'ambiguità.

    Piacerebbe credere che dopo Nedda niente è come prima, ma non è vero. L'itinerario di Verga non è irreversibile, anzi ha la sorprendente caratteristica di esporsi a ritorni e ricadute.

    Intanto, scrive e pubblica Primavera e altri racconti e in coda ci aggiunge proprio Nedda, che ha ben poco da spartire col resto, per rimpolpare il volumetto e compiacere la richiesta mercantile dell'editore. La raccolta, in buona sostanza, elabora nel respiro breve del genere la dialettica tra immaginazione e realtà, dominante nei romanzi catanesi e fiorentini. Primavera è un ritratto dell'artista da giovane, per dirla con Joyce: ambientata a Milano, rievoca la nascita dell'amore tra un musicista in erba e una modista. Lui è squattrinato e sogna la gloria; lei è una Principessa, ma solo nelle aspirazioni. I furori sono astratti, ma il fondamento rimane economico. L'artista farà carriera e dovrà congedarsi dalla sua compagna, che non è per sempre, anzi d'occasione. Ciò è molto triste e finisce, puntualmente, in un addio manzoniano. Questo retroterra sentimentale - il duetto alquanto languoroso, il congedo inevitabile, l'elegia del ricordo - anticipato e quasi prematuro nell'autoritratto di Primavera, non andrà mai in liquidazione, e invece riaffiorerà a intervalli, così nella stessa Fantasticheria, ma anche in Di là del mare, che chiude scriteriatamente le Novelle rusticane, e nella novelletta dispersa Passato!. La differenza sta nella mutata condizione sociale della partner, non più una rappresentante dei ceti bassi, ma una dama dell'aristocrazia, sfortunatamente o fortunatamente già impegnata; ma lo scrittore si mostrerà corrivo a questo argomento, una specie di Leitmotiv, a questa disposizione galante, quasi ad accordare una citazione intima, una dedica interna, come un innamorato che indugia a iscrivere un nome su un albero, su un muro, per marcare e superare l'effimero.

    Altre novelle di questa prima raccolta cercano variazioni al dilemma tra immaginazione e realtà e lo trovano nello scenario del carnevale. In La coda del diavolo, versione degradata del fato degli antichi, è la maschera sul volto della donna che giustifica e fa sorgere l'amore e il bisogno di infrazione, che poi manca in concreto. In X, di nuovo, la donna mascherata dà le ali alla fantasia, ma quando si scopre non piace più. Tra le pieghe della novella viene fuori un gusto per la malattia, la consunzione, la morte, alla maniera scapigliata. Certi argomenti narra con vena satirica il fronteggiarsi di un uomo e una donna, che arriveranno ad amarsi, capaci di eroismo, ma non nella prosaicità del quotidiano e tanto meno nel matrimonio. Le storie del castello di Trezza è la più interessante e impegnativa, anche nella struttura di racconto a strati: il presente di tentazione e pericolo; la storia medievale di donna Violante, del paggio Corrado e del rozzo barone; la vicenda attuale, con i revenants amorosi e l'epilogo della morte dei due amanti, il cui amore è stato alimentato dai fantasmi di lontane leggende e dal fascino del luogo. Si può ricollegare a un filone della tradizione italiana, del Boccaccio, e in particolare di quella siciliana col mito di Aldonza Santapau e della baronessa di Carini. È il gotico verghiano, il suo fantasy, in definitiva più moderno di altre zone della sua produzione. Ha l'intensità del desiderio magmatico, ed è a suo modo già una novella di sesso e di sangue. Complessivamente, il filo conduttore della raccolta è quello del mistero, della triangolazione del desiderio, della maschera come alibi dell'immaginazione. Verga timidamente affronta tematiche che con altra mano potrebbero essere importanti e d'avanguardia, alla Bachtin. Ma sono sentieri interrotti, nessuna di queste novelle avrà un futuro nella grande narrativa verghiana.

    In molte di queste pagine si indovina un'ossessione autobiografica, che diventa volontà di indagine su che cosa è amore; quell'indagine che a livello teorico affligge un De Roberto e lo impaluda in ricerche sublimanti ed erudite. Per Verga come per De Roberto il verismo è non solo una conquista conoscitiva e sociale, ma anche una terapia dell'egotismo verboso e retorico e del malessere romantico. Vita dei campi e Novelle rusticane si lasciano alle spalle la nebulosa sentimentale e vanno oltre il bozzetto di Nedda, configurando un campo gravitazionale comune ai Malavoglia e al Mastro-don Gesualdo, nella stagione aurea della sua scrittura. E bisognerà ammettere che le novelle più felici, come nel caso di un Cechov e di un Kafka, artisticamente non hanno nulla da invidiare ai capolavori romanzeschi, per la loro essenzialità, energia espressiva, evidenza plastica.

    Tra queste novelle indicherei un nucleo in Cavalleria rusticana e nella Lupa, le più cariche di materia mediterranea, di colore locale e di folclore, i testi pilota rispetto a tutti gli altri per esportare un'immagine della Sicilia nel continente e all'estero, non a caso trasposti in versione teatrale e prediletti e saccheggiati da attori dialettali contemporanei della forza di un Giovanni Grasso e di un Angelo Musco. I temi sono la passione e la repressione, il triangolo amoroso e il delitto d'onore. Cavalleria rusticana e La Lupa sono per eccellenza le novelle di sesso e di sangue, riconvertono all'unità e in regressione i bisogni elementari dell'eros e quelli della fame e della sete, del sesso e del possesso, dell'amore e della roba, in un'anatomia compatta e drammatica, che scopre in filigrana la fatalità del mondo greco. Su questa scia, più periferiche, si collocano L'amante di Gramigna, introdotta dalla lettera probatoria a Salvatore Farina, e Pentolaccia.

    Ma il cuore pulsante, il luogo di afflusso e di deflusso di tutto il sistema verghiano sta a mio giudizio altrove, in Rosso Malpelo. Questo altrove è più in basso, sottoterra e nel fondo di una cava. I Malavoglia, al gradino più umile del ciclo dei vinti, lottano con l'infido mare per guadagnarsi un posto al sole sulla terraferma; mastro-don Gesualdo si lancia nella sua conquista progressiva di proprietario e latifondista; Rosso deve ancora emergere in superficie. Si ricollega idealmente a Jeli il pastore a formare un dittico esemplare: Jeli, il guardiano di cavalli, vive innocente in uno stato adamitico di natura; ma quando entra nella storia, con le esperienze dell'età adulta e con i turbamenti dell'amore, la sua favola si avvelena, ad opera del figlio del padrone, protagonista di una storia parallela e soprelevata. Rosso è estraneo alle illusioni di un Eden originario, appartiene ai meccanismi di produzione di una società ormai industriale. Lo scarto tra i due ragazzi è che Jeli, il buono, non capisce e non impara; mentre Rosso, il cattivo, aureolato dalla mitologia negativa del malpelo che gli ha cucito addosso la collettività concorde e ostile, è intelligente, coglie il rapporto tra causa ed effetto, impara. E istruttivo il raffronto tra il brano dello stellato in Jeli il pastore, e quello dell'asino grigio in Rosso Malpelo. Nel primo caso, si tratta di un incidente, Jeli intende il linguaggio e soffre le pene dell'animale amatissimo, e per solidarietà potrebbe reagire, nel momento in cui il fattore spara sulla bestia in agonia per ricavarne almeno la pelle, ma non reagisce. E anche quando taglierà la gola a don Alfonso, sarà un gesto, non ragionato e conclusivo. Rosso Malpelo invece conduce a forza Ranocchio, che non vorrebbe andarci, a contemplare la carcassa dell'asino grigio. La visita è ripetuta e rituale come un pellegrinaggio al cimitero; e il burrone infatti è come un cimitero dove si va a trovare il defunto, che è l'asino. Del padre, mastro Misciu Bestia, nascosto e scomparso, manca la salma; mentre l'asino grigio offre una paradossale opportunità. Sui resti dell'animale spolpato e tutto denti, assediato da una muta di cani famelici, Rosso compie un eccezionale esperimento darwiniano; è il maestro, che insegna al discepolo e tiene una lezione che è il culmine del verismo. Ecco come vanno le cose. Ecce. Il verismo nel fosso, nel fosso profondo del burrone. Contro la rimozione, guardare, per lo svelamento.

    Il burrone è un cimitero senza croci. E anche una botola infera, la cava scoperchiata a cielo aperto, dove sono visibili i meccanismi del rapporto tra le creature e le stirpi, la catena alimentare che governa la sopravvivenza. E il corrispondente ipogeo del teatro, scenario classico dell'intrattenimento borghese, dove l'ingegnere si diletta e si commuove per una finzione di tragedia. Qui scatta la rivolta di Rosso, la sua pericolosità sociale, di sovversivo con un destino preannunciato dal colore dei capelli, il quale ha ricevuto violenza dall'alto e la scarica per quanto può verso il basso, in un'accettazione globale e disperata del sistema, sino alla condanna della vita stessa.

    Dai quadri simmetrici e speculari di Jeli il pastore e di Rosso Malpelo scaturisce, anche linguisticamente, una condizione di zoomorfismo e di isomorfismo. Gli uomini e gli animali, gli uomini alla stregua degli animali: un tema verghiano di intatta attualità. Rosso Malpelo si raccorda da una parte a Jeli il pastore, ma dall'altra parte a una novella delle Rusticane, ossia alla Storia dell'asino di S. Giuseppe, il dittico allargandosi a un trittico, che conferma la centralità malpeliana. Il dato fondamentale di Rosso, la genesi di tutto è il colore del pelo, fisiologia e metafisica. Cosa c'è di più superficiale del pelo sulla pelle? Tant'è, gli uomini sono giudicati dal mostaccio; questa è la convinzione della gente, anche quando per convenienza sostiene l'opposto. Pure gli animali sono valutati dal pelo, cioè dall'apparenza. Ecco la storia e parabola dell'asino di San Giuseppe, che è solido e ha gambe come pilastri, ma presenta un manto a chiazze, perciò è ritenuto vigliacco. Si apre la successione delle vendite, la contrattazione astuta, la beffa reciproca con ammiccamenti boccacceschi: sinché dalla vendita e dal venditore al venduto, la prospettiva si rovescia, anche un asino è il soggetto della propria storia, conosce le ragioni della propria pelle meglio di chiunque altro. Tolstoj nella novella Cholstòmjer a uno stallone di sangue nobile ma col manto pezzato concederà addirittura la parola, per un'arringa contro l'esistenza. Verga non arriva a tanto, segue impassibile lo spettacolo della decadenza e della degradazione dell'animale, fatto merce, sino all'ultimo atto, che prelude alla trasformazione materialistica della pelle in tamburo.

    Rosso Malpelo da un lato si riconnette a Jeli il pastore, il gemello buono, dall'altro all'asino di San Giuseppe, di cui condivide la devianza fisica e il conseguente ruolo di vittima sacrificale. Vinto al grado zero della scala sociale, a lui è delegata la responsabilità della contestazione. Ma la ragnatela delle parentele non si esaurisce qui. La più importante novella delle Rusticane, La Roba, canta l'epopea di un omino con la testa di brillante e un gran pancione: un vecchio ascetico e asessuato che ha sposato la roba e che, senza accorgersene, confonde il corpo con la terra, dilatandosi fuori di misura, sino a che, al massimo dell'appropriazione, si trova non assimilatore ma assimilato, restituito alla terra troppo bramata. Intuiamo nelle fattezze del vecchio il volto del ragazzo che ignoravamo, celato dalla maschera del Malpelo: entrambi cresciuti in un universo siciliano di violenza, entrambi sadomasochisti, ma alle due estremità del percorso esistenziale, il giovane Malpelo che è condannato sottoterra, non riesce a risalire, cioè non risolve il problema economico della sopravvivenza, e per questo non ha nulla da perdere e giudica che sarebbe stato meglio non essere mai nato; mentre il vecchio Mazzarò, che ha superato quella fase eliminatoria, che ha saputo organizzarsi contro la concorrenza, che non solo è arrivato al traguardo della proprietà, ma accumula roba all'infinito e si distende sulla terra tanto che il viandante ha l'impressione di camminargli sulla pancia, il vecchio Mazzarò non vorrebbe morire mai. E giudica un tradimento la morte e grida all'ingiustizia di Dio; e quando dinanzi gli passa un ragazzo seminudo, «curvo sotto il peso come un asino stanco», quel ragazzo seminudo che è il suo doppio, Malpelo che ritorna, Mazzarò non lo riconosce e gli scaglia un bastone tra le gambe.

    La Roba, come ho detto, è già uno studio preparatorio alla tela del Mastro-don Gesualdo e orienta sul compattarsi dell'interesse verghiano attorno al tema del potere come possesso. Altre novelle delle Rusticane si muovono nell'orbita del secondo romanzo del ciclo dei vinti: così II Reverendo, che anticipa la figura del canonico Lupi; e Don Licciu Papa, la guardia giurata che ritroveremo col medesimo nome nel romanzo. Altri racconti, certo, meriterebbero di essere considerati, in particolare Malaria, con gli splendidi personaggi di Ammazzamogli e Cirino lo scimunito. E un posto a sé spetta a Libertà, la novella sui moti sanguinari di Bronte, dove le ragioni della storia e quelle ideologiche dello scrittore pervengono a un confronto più diretto, in un resoconto processuale che rimane tuttavia aperto. Ma nel complesso, le Novelle Rusticane, con eccezione del gioiello della Roba, e pur con le rilevanti ramificazioni che introducono, mostrano un incupimento che è l'avvio di un inaridirsi della vena, non hanno più la rappresentatività smagliante della maggior parte delle novelle di Vita dei campi, la voglia di raccontare che è la felicità dell'artista, la solarità piena che è tale persino nel rovescio d'ombra e di lutto di Rosso Malpelo.

    Si intende che, assai più che per i romanzi, un discorso sulla totalità delle novelle, richiesto da quest'edizione, reclama requisiti di sintesi e di selezione, e impone esclusioni. Dopo Vita dei campi e dopo le Novelle rusticane Verga pubblica sì numerose altre raccolte, ma lavora riprendendo spunti secondari, che in altre occasioni avevano prodotto frutti migliori, sostanzialmente ha già scritto le sue pagine fondamentali, ha già dato forma ferma ai miti della sua ispirazione.

    Verga si prolunga nel verghismo. Per le vie è una specie di applicazione extraterritoriale del metodo verista, la verifica della sua validità in una diversa area culturale e linguistica. Ma la tenuta del metodo è ipotetica e teorica. Remigio Zena tenta l'operazione a Genova. L'alternativa milanese per Verga è d'obbligo: egli entra in Milano, dove aveva già ambientato la maggior parte delle novelle di Primavera e altri racconti. Entra in Milano, cioè esce dalla Sicilia. Ma quando esce dalla Sicilia, Verga è più debole, non trova dentro di sé la sua materia, la trova fuori ed è costretto ad osservarla dall 'esterno. Il Verga genuino, quando va a Milano, ritrova la Sicilia non Milano.

    Questo limite si avverte anche nella più efficace di queste novelle, Il canarino del N. 15, nota anche per la trasposizione nel dramma In portineria. Non fanno difetto una capacità di mimetismo e un dignitoso studio d'ambiente ma, se si osserva in controluce, si avverte la contraffazione: Il canarino del N. 15 ricalca un testo a questa data obsoleto, la Storia di una capinera. Questo vale a partire dal titolo, la metafora-guida dell'uccelletto che è la chiave musicale del testo, del suo tono sentimentale e afflitto. Anche qui abbiamo lo schema di una protagonista femminile, di una sorella vincente, di un innamorato che preferisce la sorella. Al chiostro si sostituisce lo spazio chiuso della portineria; al patetico della monacazione quello dell'infermità. Abbondano in entrambi lavori i diminutivi, spia stilistica di una disposizione strappalacrime. Persino il nome, Malia, non può trarre in inganno sul modello di riferimento. Maria la Capinera è una creatura artistica con una sua acerba freschezza, Malia nasce vecchia.

    Mancano le storie, il plot narrativo. Il bastione di Monforte, In piazza della Scala ed altre, come per esempio I dintorni di Milano tra le novelle sparse, indicano già nel titolo che è sicuro l'orientamento topografico, ma non riescono ad andare oltre le premesse del descrittivismo. Mentre Amore senza benda, dove le passioni di Cavalleria rusticana svaniscono nel cinismo di squallidi interessi contrapposti, gioca la carta dello smascheramento per via economica, con prestiti linguistici in un ambiente che non li regge e non li giustifica.

    Verga cerca di rinnovarsi, ma casca all'indietro. Nella raccolta Vagabondaggio, la lunga novella eponima evidenzia nel titolo lo sforzo di questa ricerca errabonda: è varia, ma scivola dispersiva. Il testo che più ha procurato popolarità all'autore è Cavalleria rusticana, e lui lo riscrive: così II segno dell'amore, Il bell'Armando, Nanni Volpe, con variazioni e contaminazioni. Ma in Cavalleria rusticana c'era già scritto tutto e meglio; con minore condensazione artistica, emerge la cronaca sottostante, nella crudezza dei documenti umani.

    Tralascio I ricordi del capitano d'Arce, fiacchissimi tra il mondano e il crepuscolare, sempre in situazioni da pochade, una zeppa editoriale per l'opera omnia verghiana.

    Don Candeloro e Ci è forse la raccolta più interessante di questo lungo periodo involutivo. Verga ritorna alla logica degli spazi chiusi, per avere il vantaggio di espugnarli. Il primo è quello del teatro, anzi della sicilianissima opera dei pupi, attorno alla figura del mattatore don Candeloro. Il secondo è quello del monastero: Papa Sisto, L'opera del Divino Amore, Il peccato di donna Santa, La vocazione di suor Agnese, mostrano qua e là l'unghiata del vecchio leone. Il motivo unificante dovrebbe essere quello della commedia umana, delle scene di vita, con attori sia artisti che monaci e suore. La forzatura del rapporto è palese; mentre dall'una e dall'altra ricognizione viene confermata la morale di una decadenza inarrestabile, dell'arte come della fede religiosa, che è la convinzione tipica di chi non accetta il cambiamento e a poco a poco si rifiuta di appartenere al suo tempo.

    SERGIO CAMPAILLA 1862.

    Cronologia della vita e delle opere

    1840. Giovanni Carmelo Verga, discendente dal ramo cadetto dei baroni di Fontanabianca, nasce a Catania in via Sant'Anna 8, il 2 settembre, da Giovanni Battista Verga Catalano e da Caterina Di Mauro Barbagallo. Il capostipite della famiglia, di piccola nobiltà terriera, originaria di Vizzini, era un de Vergas, venuto in Sicilia al tempo dei Vespri siciliani (1282), e lo stemma del casato era un fascio di verghe strette dal braccio di un guerriero, donde il soprannome Viria a detta dello stesso scrittore. Giovanni Battista ebbe sei figli: Giovanni (morto prematuro), Giovanni Carmelo (lo scrittore), Mario. Pietro. Teresa e Rosa.

    1846. Verga riceve un'educazione tradizionale privata: ha come primo maestro Francesco Carrara e poi due religiosi, don Carmelino Greco e don Carmelo Platania.

    1851. Frequenta la «scuola fantasiosa del fantasioso don Antonino Abate», scrittore mediocre di idee liberali, che influenzerà le sue opere giovanili. Nella stessa famiglia Verga esisteva tuttavia un importante precedente letterario, Domenico Castorina, lontano cugino, vanto della cultura catanese, che col romanzo Itre alla difesa di Torino aveva superato per fama i limiti dell'isola. La prima stagione narrativa del Verga risente anche di questo modello.

    1853. Tra il '53 e il '57 la sua educazione è completata dalle lezioni di latino di don Mario Tonisi e di filosofia del padre Antonino Maugcri; suo compagno è Mario Rapisardi, il futuro poeta anticarducciano e anticlericale, che gli sarà amico e nemico in altri momenti della sua vita.

    1854. La famiglia Verga, a causa di una epidemia di colera, si trasferisce nella proprietà di Tebidi che, insieme a Mangalavite e a Passanitello, sarà lo sfondo delle opere della maturità ispirate al vero.

    1856-57. È di questi anni il primo amore di Verga, Maria Passanisi, un'educanda della badia di San Sebastiano in Vizzini, dove era monaca Rosalia, zia dei giovane. De Roberto, in Storia della «Storia di una capinera», la descrive come una «bellezza pallida e bruna», il cui ricordo ispirerà allo scrittore l'opera omonima.

    1857. Tenta le prime esperienze letterarie con il romanzo Amore e Patria, il cui manoscritto reca sulla prima pagina la data del 23 dicembre 1856.

    1858. Si iscrive alla Facoltà di Legge dell'Università di Catania, ma frequenta con maggiore successo i salotti della buona società catanese.

    1859-60. Esordisce come giornalista e fonda con alcuni amici, tra cui Nicola Niceforo e Antonino Abate, il settimanale «Roma degli Italiani» ( 1860), che durerà circa tre mesi.

    1860. Segue con entusiasmo le vicende della il guerra d'indipendenza e della spedizione dei Mille, arruolandosi nella Guardia Nazionale. Ma nel '62, deluso nelle speranze libe rali, si dimetterà.

    1861. Collabora ad altri giornali e fonda con Niceforo «L'Italia contemporanea».

    1862. Nel giorno dell'armistizio di Villafranca (11 luglio 1859) comincia a scrivere il suo secondo romanzo storico, I Carbonari della montagna, che verrà pubblicato presso la tipografia Galatola di Catania, tra il '61 e il '62. in quattro tomi.

    1863. Tra il 13 gennaio e il 15 marzo, in ventiduc puntate, nelle appendici del periodico fiorentino «Nuova Europa», dopo due estratti nell'agosto del '62, esce il romanzo Sulle lagune, ambientato nella Venezia del 1861. Il 5 febbraio 1863 muore il padre. La tutela dei figli è affidata al fratello don Salvatore.

    1864. Dirige a Catania «L'Indipendente», poi diretto, a partire dal decimo numero, da Antonino Abate.

    1865-66. Si reca nel maggio del '65 a Firenze, capitale del Regno d'Italia. Viene introdotto nei circoli fiorentini da due scrittori siciliani di fama. Capuana, critico della «Nazione», e Rapisardi, che lo presenta a Francesco Dall'Ongaro, docente di letteratura drammatica all'Università di Firenze, patriota e dantista. In casa Dall'Ongaro conosce Giselda Fojanesi, futura moglie di Rapisardi, per la quale nutrirà una breve ma tempestosa passione negli anni dall'80 all'85. In agosto invia al Concorso drammatico governativo, promosso in Firenze dalla «Società di incoraggiamento all'arte teatrale», la commedia Inuovi Tartufi (datata, in un abbozzo autografo, 14 dicembre 1865), rimasta inedita fino al 1982. L'opera non ebbe neppure una menzione da parte degli esaminatori.

    1866. Presso l'editore Negro di Torino pubblica il romanzo Una peccatrice.

    1867. Ritorna in Sicilia, dove un'epidemia di colera lo costringe a soggiornare in una villa di campagna a Sant'Agata Li Battiati e a Trecastagni.

    1869. Dall'aprile si trasferisce a Firenze, in via dell'Alloro 11, dove, tra il giugno e il luglio, scrive la Storia di una capinera e lavora al romanzo Eva, abbozzato a Catania. In settembre compie il viaggio di ritorno con Giselda Fojanesi, poiché la giovane maestrina toscana è stata chiamata a insegnare presso l'Educandato femminile del Convitto provinciale di Catania. In questo stesso periodo scrive il testo teatrale Rose caduche (pubblicato soltanto nel giugno 1928).

    1869-70. Nell'agosto del '69 scrive il primo atto dell'Onore, che resterà incompiuto.

    1871. Il successo arriva con la pubblicazione di Storia di una capinera, presso l'editore Lampugnani (l'opera era già uscita a puntate, nel '70, sul giornale «La Ricamatrice»).

    1872. Si trasferisce a Milano, dove si lega d'amicizia con Arrigo Boito, con Giacosa e con Rovetta. Lo impegna molto il lavoro di revisione del romanzo Eva, offerto per tre anni a vari editori, e finalmente ai fratelli Treves, nella cui villa a Belgirate lo scrittore è spesso ospite.

    1873. Presso Treves esce il romanzo Eva.

    1874. Il 15 giugno nella «Rivista italiana di scienze, lettere ed arti» pubblica Nedda, boz zetto siciliano, poi raccolto in un estratto di 61 pagine dall'editore Brigola. Nel giugno l'editore Brigola pubblica il romanzo Tigre reale, scritto negli anni precedenti. Alla fine dell'anno compare Eros, che conclude i romanzi di cornice mondana e aristocratica.

    1877. Pubblica, presso Treves, la raccolta Primavera e altri racconti.

    1878. Ha inizio la relazione con la contessa milanese Paolina Greppi Lester, che si prolungherà fino al 1905. Tra il 1878 e il 1880 compone due delle sue opere più significative: la raccolta di novelle Vita dei campi e il romanzo IMalavoglia. Nelle lettere all'editore, al fratello Mario e all'avvocato Salvatore Paola Verdura (21 aprile 1878) è già abbozzato il disegno dell'intero ciclo La Marea, poi IVinti, con le note affermazioni teoriche di adesione al verismo. Il 5 dicembre muore la madre.

    1879. Su «Il Fanfulla della domenica» pubblica la novella Fantasticheria, ispirata al breve soggiorno di Paolina Greppi ad Aci Trezza, in cui abbozza il nucleo dei Malavoglia.

    1880. Nella «Rivista minima» appare la novella L'amante di Raja con lettera-prefazione all'amico Salvatore Farina, in cui Io scrittore enuncia la sua particolare interpretazione della tesi dell'impersonalità. In primavera vede la luce la raccolta di novelle Vita dei campi, comprendente Fantasticheria, Jeli il pastore, Rosso Malpelo, Cavalleria rusticana. La Lupa, L'amante di Gramigna, Guerra di Santi, Penlolaccia.

    1881. In febbraio, nelle edizioni Treves, escono IMalavoglia, con una prefazione datata 19 gennaio, nella quale Verga, tracciando l'intero disegno dei Vinti, fissa i titoli definitivi in cinque romanzi: / Malavoglia, Mastro-don Gesualdo, La Duchessa di Leyra, L'Onorevole Scipioni, L'uomo di lusso. I Malavoglia ricevono critiche sfavorevoli, tranne quella di Capuana. Verga incontra a Roma Dina Castellazzi contessa di Sordevolo, che diverrà più tardi sua amante e resterà legata a lui fino alla morte.

    1882. Pubblica la novella Pane nero per l'editore Giannotta di Catania. Nel maggio si reca a Parigi col fratello Mario e vi incontra Eduard Rod, il quale tradurrà / Malavoglia col titolo Maeurs siciliennes (Scene di vita siciliana). In giugno si reca a Londra per vendere una preziosa collezione di monete (deve pagare le ipoteche sui terreni di famiglia). Lavora alle Novelle rusticane, alcune delle quali escono nella «Rassegna settimanale», nel «Fanfulla della domenica», in «Fiammetta» e nella «Rivista minima».

    1883. Presso l'editore Casanova di Torino, in gennaio, pubblica Novelle rusticane, comprendenti Il Reverendo, Cos'è il Re, Don Licciu Papa, Il Mistero, Malaria, Gli orfani, La Roba, Storia dell'asino di S. Giuseppe, Pane nero, I galantuomini, Libertà, Di là del mare. Alterna i soggiorni a Vizzini (l'ambiente delle Rusticane) con viaggi a Milano e pubblica, presso Treves, Per le vie, il cui primo titolo è Vita d'officina, una raccolta novellistica d'ambientazione milanese. In novembre torna a Catania, riallaccia la relazione con Giselda Fojanesi, e mentre comincia a lavorare al Mastro-don Gesualdo, in pochi giorni trasforma la novella Cavalleria rusticana nell'omonimo bozzetto drammatico in un atto. Il 19 dicembre Rapisardi scopre la lettera di Verga indirizzata a sua moglie Giselda datata 14, e lo sfida a un duello che non si farà.

    1884. Il 14 gennaio, al Teatro Carignano di Torino, per la Compagnia di Cesare Rossi, interpreti Flavio Andò (Turiddu), Eleonora Duse (Santuzza), Tebaldo Checchi (Alfio), va in scena con successo Cavalleria rusticana. Pubblica Drammi intimi per l'editore Sommaruga di Roma, raccolta comprendente / drammi ignoti, La Barberina di Marcantonio, Tentazione, La chiave d'oro, L'ultima visita, Bollettino sanitario.

    1885. Il 16 maggio, al Teatro Manzoni di Milano, va in scena In portineria, tratta dalla novella Il canarino del N. 15: sfavorevole l'accoglienza del pubblico e della critica.

    1886. Trascorre molti mesi a Roma e lavora all'abbozzo di un dramma tratto dalla novella / drammi ignoti. Al Valle di Roma, il primo dicembre, interpreti Flavio Andò, Eleonora Duse e Teresa Bernieri, si replica con successo In portineria. Il 29 luglio viene rappresentato a Catania, all'Arena Pacini, il poema sinfonico Cavalleria rusticana con musiche di Giuseppe Perrotta.

    1887. Soggiorna molti mesi a Roma per un affare di prestiti con le banche. Collabora a vari giornali con novelle (Nanni Volpe), e il motivo dei poveri diavoli diventa il filo conduttore della raccolta Vagabondaggio, pubblicata a Firenze per l'editore Barbèra. A fine estate torna a Vizzini.

    1888. Soggiorna tra Catania e Vizzini e segue la pubblicazione di Mastro-don Gesualdo, che appare in 11 puntate (dal primo luglio al 16 dicembre) su «La Nuova Antologia».

    1889. Completa per Treves Mastro-don Gesualdo. Inizia la relazione con Dina di Sordevolo.

    1890. Comincia l'anno a Vizzini «come uccello ferito che cerca il bosco» e lavora a I ricordi del capitano d'Arce che usciranno nel '91. Il 17 maggio, al Teatro Costanzi di Roma, ottiene un grande successo la prima dell'opera Cavalleria rusticana, su libretto di Targioni-Tozzetti e Menasci, musica di Pietro Mascagni, interpreti Gemma Bellincioni e Tito Stagno. Avvia la causa contro Mascagni e Sonzogno e attraversa un periodo di difficoltà finanziarie, mentre prepara anche un'altra raccolta. Don Candeloro e Ci per Treves.

    1891. Escono per Treves I ricordi del capitano d'Arce, che riutilizzano anche alcune novelle rielaborate dei Drammi intimi. Vince la causa contro Mascagni e Sonzogno. In ottobre si reca in Germania, a Francoforte, per mettere in scena al Lessing Theater Cavalleria rusticana, a cui fa quasi da regista, con successo.

    1894. Pubblica presso Treves Don Candeloro e Ci, una raccolta di dodici novelle. A Roma, dove si reca per brevi soggiorni, avviene il suo celebre incontro, insieme a Capuana, con Émile Zola.

    1896. Il 26 gennaio, al Teatro Gerbino di Torino, interpreti Flavio Andò e Virginia Reiter, va in scena La Lupa, accompagnata da successo e polemiche. Treves pubblica in volume unico i drammi La Lupa, In portineria, Cavallerìa rusticana.

    1897. Trascorre l'inverno a Catania, e in estate fa un lungo viaggio in Svizzera. Sul giornale «Le Grazie» appare, il primo gennaio, la novella Caccia al lupo.

    1898. Si propone di terminare entro l'anno La Duchessa di Leyra, e non si muove da Catania, tranne in agosto per recarsi a St. Moritz-Bad, a Mendrisio e a Pallanza, ospite di Giacosa.

    1901. Lavora a due bozzetti teatrali, Caccia al lupo e Caccia alla volpe, rappresentati il 22 novembre al Teatro Manzoni di Milano con la Compagnia Reiter-Pasta.

    1902. Escono in volume i due atti unici Caccia al lupo e Caccia alla volpe, tradotti in francese entro l'anno. Trascorre la villeggiatura in Svizzera, sui laghi, con Dina di Sordevolo e lavora alla stesura di Dal tuo al mio.

    1903. Il 30 novembre, al Teatro Manzoni di Milano, viene messo in scena il dramma in tre atti Dal tuo al mio.

    1905. In tre puntate, dal 16 maggio al 16 giugno, esce su «La Nuova Antologia» il roman zo Dal tuo al mio, rielaborazione del dramma omonimo.

    1906. Esce in volume, presso Treves, il romanzo Dal tuo al mio.

    1913. Cura la riduzione cinematografica di quattro suoi lavori: La Lupa, Tigre reale. Caccia al lupo, Storia di una capinera.

    1915. Si dichiara interventista e fedele ai princìpi del nazionalismo.

    1918. Sempre più stanco lavora alla Duchessa di Leyra, che brucerà nel caminetto di casa.

    1919. Scrive l'ultima novella, Una capanna e il tuo cuore, pubblicata postuma da De Roberto (12 febbraio 1922, su «L'Illustrazione italiana»). Collabora con De Roberto alla trasposizione librettistica della Lupa (per la musica di Pietro Tasca), che andrà in scena solo nel 1932, a Noto.

    1920. L'ottantesimo compleanno dello scrittore viene celebrato al Teatro Valle di Roma con un discorso di Luigi Pirandello, alla presenza di Benedetto Croce, ministro della Pubblica Istruzione. Il 3 ottobre viene nominato da Giolitti senatore del Regno, e risponde con un laconico telegramma. Rifiuta le nozze a Dina di Sordevolo, che nella lettera del 18 ottobre si mostra delusa ma rassegnata.

    1922. Nella notte tra il 24 e il 25 gennaio viene colpito da trombosi cerebrale. Muore il 27 gennaio, alle 10,20, nella casa catanese di via Sant'Anna 8, assistito dai nipoti e da De Roberto, il quale pubblicherà su «La Lettura» del primo giugno due capitoli inediti della Duchessa di Leyra. Viene sepolto nel cimitero di Catania, nel viale degli uomini illustri.

    Bibliografia

    Edizioni

    Principali raccolte: I grandi romanzi, a cura di F. CECCO e e. RICCARDI, con pref. di R. BACCHELLI, Milano, Mondadori, 1972; Tutte le novelle, a cura di e. RICCARDI, ivi 1979; Le novelle, a cura di G. TELONI, Roma, Salerno Editrice, 1980, 2 voll.; Le novelle, a cura di N. MEROLA, Milano, Garzanti, 1980, 2 voll.; Tutti i romanzi, a cura di E. GHIDETTI, Firenze, Sansoni, 1983; Opere, a cura di G. TELLINI, Milano, Mursia, 1988. Per i testi teatrali: Tutto il teatro, a cura di N. TEDESCO, Milano, Mondadori, 1980; Teatro, a cura di G. OLIVA, Milano, Garzanti, 1987.

    Tra le edizioni di singoli romanzi: Mastro-don Gesualdo, edizione critica a cura di e. RICCARDI, Milano, Fondazione Mondadori, 1979; I Malavoglia, testo critico e note a cura di M. PIERI, con un ritratto di Verga di G. BUFALINO, Milano, Tea, 1990.

    Per l'epistolario: Lettere al suo traduttore, a cura di F. CHIAPPELLI, Firenze, Le Monnier, 1954; Lettere d'amore, a cura di G. RAYA, Roma, Ciranna, 1971; Lettere a Luigi Capuana, a cura di G. RAYA, Firenze, Le Monnier, 1975 (ma ora si veda, a cura dello stesso, il Carteggio Verga-Capuana, Roma, Edizioni dell'Ateneo, 1984); Lettere sparse, a cura di G. FINOCCHIARO CHIMIRRI, Roma, Bulzoni, 1979; Lettere a Paolina, a cura di G. RAYA, Roma, Fermenti, 1980; Carteggio Verga-Treves, a cura di G. RAYA, Roma, Herder, 1986.

    Nell'Edizione nazionale, a cura della Fondazione Verga di Catania e pubblicata da Le Monnier di Firenze per conto del Banco di Sicilia, sono finora usciti i seguenti volumi: Vita dei campi, a cura di e. RICCARDI, 1987; Drammi intimi, a cura di G. ALFIERI, 1987; I Carbonari della montagna-Sulle lagune, a cura di R. VERDIRAME, 1988; Tigre reale, a cura di M. SPAMPINATO BERETTA, 1988; I ricordi del Capitano D'Arce, a cura di s. RAPISARDA, 1882; Tigre reale, voi. n, a cura di M. SPAMPINATO BERETTA, 1993; Don Candeloro e Ci, a cura di E. CUCINOTTA, 1995; Dal tuo al mio, a cura di B. BASILE, 1997.

    Studi

    Per la conoscenza della vastissima bibliografia critica: G. SANTANGELO, Storia della critica verghiana, Firenze, La Nuova Italia, 1954, rist. 1973; G. RAYA, Bibliografia verghiana (1840-1971), Roma, Ciranna, 1971; P. PULLEGA, Leggere Verga, Bologna, Zanichelli, 1973; Interpretazioni di Verga, a cura di R. LUPERINI, Roma, Savelli, 1975; E. GHIDETTI, Verga. Guida storico-critica, Roma, Editori Riuniti, 1979, rielaborata e aggiornata in i. GHERARDUCCIE. GHIDETTI, Guida alla lettura di Verga, Firenze, La Nuova Italia, 1994.

    Per la biografia: F. DE ROBERTO, Casa Verga, a cura di e. MUSUMARRA, Firenze, Le Monnier, 1964 (articoli e saggi pubblicati postumi negli anni 1920-25); N. CAPPELLANI, Vita di Giovanni Verga, Firenze, Le Monnier, 1940; G. CATTANEO, Giovanni Verga, Torino, Utet, 1969; G. RAYA, Vita di Giovanni Verga, Roma, Herder, 1990.

    Tra le guide alla conoscenza dell'autore e dell'opera: S. ZAPPULLA MUSCARÀ, Invito alla lettura di Verga, Milano, Mursia, 1977; e. GRECO LANZA, Incontro col Verga, Catania, Greco, 1978; G. MAZZACURATI, Verga, Napoli, Liguori, 1985; Il punto su Verga, a cura di V. MASIELLO, Roma-Bari, Laterza, 1986; V. GUARRACiNO, Guida alla lettura di Verga, Milano, Mondadori, 1986; N. MEROLA, Verga, Firenze, Giunti-Lisciani, 1993.

    Contributi critici più significativi: L. CAPUANA, Verga e D'Annunzio, a cura di M. POMILIO, Bologna, Cappelli, 1972 (interventi degli anni 1872-1898); F. CAMERONI, Interventi critici sulla letteratura italiana, a cura di G. VIAZZI, Napoli, Guida, 1974 (riunisce parte degli articoli su Verga pubblicati in vari anni del secolo scorso); E. SCARFOGLIO, Il libro di Don Chisciotte, Roma, Sommaruga, 1885, poi Milano, Mondadori, 1925; U. OJETTI, Alla scoperta dei letterati, Milano, Bocca, 1899; B. CROCE, Giovanni Verga [1903], in La letteratura della nuova Italia, m, Bari, Laterza, 1922; R. SERRA, Le lettere, Roma, Bontempelli, 1914, rist. a cura di M. BIONDI, Milano, Longanesi, 1974; F. TOZZI, Giovanni Verga e noi [1918], in Realtà di ieri e di oggi, Milano, Alpes, 1928; L. RUSSO, Giovanni Verga, Napoli, Ricciardi, 1920, nuova ed. Bari, Laterza, 1934 (ulteriore ed., con l'aggiunta del saggio La lingua di Verga, ivi 1941 e successive ristampe); L. PIRANDELLO, Verga e D'Annunzio, a cura di M. ONOFRI, Roma, Salerno Editrice, 1993 (i saggi su Verga sono del 1920 e del 1931); D.H. LAWRENCE, Phoenix, London, Heinemann, 1936 (le pagine su Verga sono del 1922); G. RAGONESE, Giovanni Verga, Roma, Maglione, 1931; A. MOMIGLIANO, Dante, Manzoni, Verga, Messina, D'Anna, 1944; M. BONTEMPELLI, Una ribellione religiosa contro la storia [1940], in Introduzioni e discorsi, Milano, Bompiani, 1964; D. GARRONE, Giovanni Verga, pref. di LUIGI RUSSO, Firenze, Vallecchi, 1941; G. DEVOTO, I «piani del racconto» in due capitoli dei «Malavoglia» [1948], in Itinerario stilistico, Firenze, Le Monnier, 1975; N. SAPEGNO, Appunti per un saggio sul Verga [1945] e A proposito del teatro del Verga [1953], in Ritratto di Manzoni ed altri saggi, Bari, Laterza, 1961; A.M. CIRESE, Verga e il mondo popolare: un procedimento stilistico nei «Malavoglia» [1955], in Intellettuali, folklore, istinto di classe, Torino, Einaudi, 1976; V. BRANCATI, L'orologio di Verga, in «Il Mondo», 27 marzo 1955, ristampato in Il borghese e l'immensità, a cura di s. DE FEO e G.A. CIBOTTO, Milano, Bompiani, 1973; L. SPITZER, L'originalità della narrazione nei «Malavoglia» [1956], in Studi italiani, a cura di e. SCARPATI, Milano, Vita e pensiero, 1976; G. CECCHETTI, Il testo di «Vita dei campi» e le correzioni verghiane [1957], in Il Verga maggiore, Firenze, La Nuova Italia, 1968; E. MUSUMARRA, Vigilia della narrativa verghiana, Catania, Giannotta, 1958; W. HEMPEL, Giovanni Vergas Roman «I Malavoglia» und die Wiederholung als erzàhlerisches Kunstmittel, Koln-Graz, Bohlau Verlag, 1959; G. TROMBATORE, Riflessi letterari del Risorgimento in Sicilia, Palermo, Manfredi, 1960; G. RAYA, La lingua del Verga, Firenze, Le Monnier, 1962; F. CHIAPPELLI, Una lettura verghiana: «La Lupa», in «Giornale storico della letteratura italiana», 1962; A. ASOR ROSA, Scrittori e popolo, Roma, Samonà e Savelli, 1965; E. MUSUMARRA, Verga minore, Pisa, Nistri-Lischi, 1965; G. RAGONESE, Interpretazione del Verga, Palermo, Manfredi, 1965, poi Roma, Bulzoni, 1977; R. LUPERINI, Pessimismo e verismo in Giovanni Verga, Padova, Liviana, 1968; E. GIACHERY, Verga e D'Annunzio, Milano, Silva, 1968, poi Roma, Studium, 1991; R. BIGAZZI, I colori del vero, Pisa, Nistri-Lischi, 1969; P.M. SIPALA, L'ultimo Verga, Catania, Bonanno, 1969; P. DE MEIJER, Costanti del mondo verghiano, Roma-Calta-nissetta, Sciascia, 1969; v. MASIELLO, Verga tra ideologia e realtà, Bari, De Donato, 1970; AA.VV., Il caso Verga, a cura di A. ASOR ROSA, Palermo, Palumbo, 1972; P.M. SIPALA, Verga e il cinema, Catania, Bonanno, 1972; S. FERRONE, Il teatro di Verga, Roma, Bulzoni, 1972; G. GUGLIELMI, Ironia e negazione, Torino, Einaudi, 1973; G. TELLINI, Le correzioni di «Vita dei campi», in L'avventura di «Malombra» e altri saggi, Roma, Bulzoni, 1973; e. RICCARDI, Dal primo al secondo «Mastro-don Gesualdo», in Studi di filologia e letteratura italiana offerti a Carlo Dionisotti, Milano-Napoli, Ricciardi, 1973; A. BARSOTTI, Verga drammaturgo, Firenze, La Nuova Italia, 1974; N. TEDESCO, Il teatro di Verga ed altri saggi, Palermo, Gino, 1974; R. LUPERINI, L'orgoglio e la disperata rassegnazione, Roma, Savelli, 1974; G. MAZZA-CURATI, Scrittura e ideologia in Verga ovvero le metamorfosi della «Lupa», in Forma e ideologia, Napoli, Liguori, 1974; R. BIGAZZI, SU Verga novelliere, Pisa, Nistri-Lischi, 1975; E. RICCARDI, Gli abbozzi del «Mastro-don Gesualdo» e la novella «Vagabondaggio», in «Studi di filologia italiana», 1975; G. DEBENEDETTI, Verga e il naturalismo, Milano, Garzanti, 1976; P.M. SIPALA, Scienza e storia nella letteratura verista, Bologna, Patron, 1976; R. LUPERINI, Verga e le strutture narrative del realismo, Padova, Liviana, 1976; V. SPINAZZOLA, Verismo e positivismo, Milano, Garzanti, 1977; e. 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ROSENTHAL, Berkeley-Los Angeles-London, University of California Press, 1983; P.M. SIPALA, Il romanzo di 'Ntoni Malavoglia e altri saggi, Bologna, Patron, 1983; G. FLNOCCHIARO CHLMLRRI, Un fazzoletto per Lia. Saggi verghiani, Catania, CUECM, 1984; R. VERDIRAME, L'avventura di «Tigre reale» e altri saggi verghiani, Catania, Aldo Marino Editore, 1984; s. CAMPAILLA, Mal di luna e d'altro, Roma, Bonacci, 1986, 19993. F NICOLOSI, Verga tra De Sanctis e Zola, Bologna, Patron, 1986; AA.VV., Rilettura di Verga, a cura di R. BRAMBILLA, Assisi, Biblioteca Pro Civitate Christiana, 1986; T. WLASSICS, Nel mondo dei «Malavoglia», Pisa, Giardini, 1986; G.P. MARCHI, Verga e il rifiuto della storia, Palermo, Sellerio, 1987; G. NENCiONi, La lingua dei «Malavoglia» e altri scritti di prosa, poesia e memoria, Napoli, Morano, 1988; R. LUPERLNI, Simbolo e costruzione allegorica in Verga, Bologna, Il Mulino, 1989; G. PATRIZI, Il mondo da lontano, Catania, Fondazione Verga, 1989; P. MAZZAMUTO, Il parvenu risorgimentale. Giovanni Verga fra antropologia e storia, Milano, Dharba, 1990; v. STELLA, L'intelligenza della poesia. Baudelaire, Verga, l'ermetismo, Roma, Bonacci, 1990; G.P. BLASLN, Come si fa lo stufato, mi sapori della modernità, Bologna, Il Mulino, 1991; e. MUSUMARRA, Di là del mare, Palermo, Palumbo, 1993; G. TELONI, L'invenzione della realtà. Studi verghiani, Pisa, Nistri-Lischi, 1993; R. SCRIVANO, Strutture narrative. Da Manzoni a Verga, Napoli, ESI, 1994; S. ZAPPULLA MUSCARÀ e E. ZAPPULLA, Le robe di casa Verga, con le foto di G. LEONE, Provincia Regionale di Catania, 1996; AA.VV., Verga e..., a cura di E. PAPPALARDO, Acireale, La Cantinella, 1996; S. CAMPAILLA, Le novelle di sesso e di sangue, introd. a G. VERGA, «La Lupa» e altre novelle di sesso e di sangue, Roma, Newton & Compton, 1996; s. ROSSI, La nausea nel cuore e altri saggi verghiani, Palermo, Palumbo, 1997; s. CAMPAILLA, Gli occhi di Malpelo, introd. a G. Verga, I Malavoglia, Roma, Newton Compton, 2007; S. CAMPAILLA, Controcodice, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 2001; G. LO CASTRO, Giovanni Verga, Catanzaro, Rubettino, 2001; M. MUSCARLELLO, Gli inganni della scienza, Napoli Liguori, 2001; s. CAMPAILLA, Eros in Sicilia, in «Saeculorum Gymnasium», gennaio-dicembre 2002; S. CAMPAILLA, Anno 2002. Domande radicali nella letteratura siciliana, Caltanissetta-Roma, 2002; Verga da vedere, a cura di F. GALLO, S. ZAPPULLA MUSCARÀ, E. ZAPPULLA, Palermo, Regione Siciliana, 2003; Giovanni Verga: scrittore fotografo, a cura di R. MUTTI, introduzione di G. BEZZOLA, Novara, De Agostini, 2004; R. LUPERINI, Verga moderno, Roma, Laterza, 2005; S. CIGLIANA, L'immaginario di Verga: saggi critici con documenti dal laboratorio verghiano, Roma Salerno, 2006; F. LEONE, La lingua dei Malavoglia rivisitata, Roma, Carocci, 2006; Il teatro verista. Atti del Congresso, Catania 24-26 novembre 2004, Catania, Fondazione Verga, 2007; Prospettive sui Malavoglia. Atti dell'Incontro di studio della Società per lo studio della modernità letteraria, Catania, 17-18 febbraio 2006, a cura di GIUSEPPE SAVOCA e ANTONIO DI SILVESTRO, Firenze, Olschki, 2007; M. G. RICCOBONO, Donne, mari, cieli: studi su Verga e Quasimodo europei, Roma, Aracne, 2008; s. IANNELLO, Le immagini e le parole dei Malavoglia, Roma, Sovera, 2008.

    Si ricordano anche gli Atti dei convegni organizzati dalla Fondazione Verga di Catania: I romanzi catanesi, 1981; I romanzi fiorentini, 1981; I Malavoglia, 2 voll., 1982; Naturalismo e verismo, 1988; Il centenario del «Mastro-don Gesualdo», 1991.

    Le Concordanze verghiane sono state curate da G.P. MARCHI, Verona, Fiorini, 1970.

    Tutte le novelle

    Nedda

    Il focolare domestico era sempre ai miei occhi una figura rettorica, buona per incorniciarvi gli affetti più miti e sereni, come il raggio di luna per baciare le chiome bionde; ma sorridevo allorquando sentivo dirmi che il fuoco del camino è quasi un amico. Sembravami in verità un amico troppo necessario, a volte uggioso e dispotico, che a poco a poco avrebbe voluto prendervi per le mani o per i piedi, e tirarvi dentro il suo antro affumicato, per baciarvi alla maniera di Giuda. Non conoscevo il passatempo di stuzzicare la legna, né la voluttà di sentirsi inondare dal riverbero della fiamma; non comprendevo il linguaggio del cepperello che scoppietta dispettoso, o brontola fiammeggiando; non avevo l'occhio assuefatto ai bizzarri disegni delle scintille correnti come lucciole sui tizzoni anneriti, alle fantastiche figure che assume la legna carbonizzandosi, alle mille gradazioni di chiaroscuro della fiamma azzurra e rossa che lambisce quasi timida, accarezza graziosamente, per divampare con sfacciata petulanza. Quando mi fui iniziato ai misteri delle molle e del soffietto, m'innamorai con trasporto della voluttuosa pigrizia del caminetto. Io lascio il mio corpo su quella poltroncina, accanto al fuoco, come vi lascierei un abito, abbandonando alla fiamma la cura di far circolare più caldo il mio sangue e di far battere più rapido il mio cuore; e incaricando le faville fuggenti, che folleggiano come farfalle innamorate, di farmi tenere gli occhi aperti, e di far errare capricciosamente del pari i miei pensieri. Cotesto spettacolo del proprio pensiero che svolazza vagabondo intorno a voi, che vi lascia per correre lontano, e per gettarvi a vostra insaputa quasi dei soffi di dolce e d'amaro in cuore, ha attrattive indefinibili. Col sigaro semispento, cogli occhi socchiusi, le molle fuggendovi dalle dita allentate, vedete l'altra parte di voi andar lontano, percorrere vertiginose distanze: vi par di sentirvi passar per i nervi correnti di atmosfere sconosciute: provate, sorridendo, senza muovere un dito o fare un passo, l'effetto di mille sensazioni che farebbero incanutire i vostri capelli, e solcherebbero di rughe la vostra fronte.

    E in una di coteste peregrinazioni vagabonde dello spirito, la fiamma che scoppiettava, troppo vicina forse, mi fece rivedere un'altra fiamma gigantesca che avevo visto ardere nell'immenso focolare della fattoria del Pino, alle falde dell'Etna. Pioveva, e il vento urlava incollerito; le venti o trenta donne che raccoglievano le olive del podere, facevano fumare le loro vesti bagnate dalla pioggia dinanzi al fuoco; le allegre, quelle che avevano dei soldi in tasca, o quelle che erano innamorate, cantavano; le altre ciarlavano della raccolta delle olive, che era stata cattiva, dei matrimoni della parrocchia, o della pioggia che rubava loro il - pane di bocca. La vecchia castalda filava, tanto perché la lucerna appesa alla cappa del focolare non ardesse per nulla; il grosso cane color di lupo allungava il muso sulle zampe verso il fuoco, rizzando le orecchie ad ogni diverso ululato del vento. Poi, nel tempo che cuocevasi la minestra, il pecoraio si mise a suonare certa arietta montanina che pizzicava le gambe, e le ragazze incominciarono a saltare sull'ammattonato sconnesso della vasta cucina affumicata, mentre il cane brontolava per paura che gli pestassero la coda. I cenci svolazzavano allegramente, e le fave ballavano anch'esse nella pentola, borbottando in mezzo alla schiuma che faceva sbuffare la fiamma. Quando le ragazze furono stanche, venne la volta delle canzonette: - Nedda! Nedda la varannisa - sclamarono parecchie. - Dove s'è cacciata la varannisal - Son qua - rispose una voce breve dall'angolo più buio, dove s'era ac coccolata una ragazza su di un fascio di legna.

    - O che fai tu costà?

    - Nulla.

    - Perché non hai ballato?

    - Perché sono stanca.

    - Cantaci una delle tue belle canzonette.

    - No, non voglio cantare.

    - Che hai?

    - Nulla.

    - Ha la mamma che sta per morire, - rispose una delle sue compagne, come se avesse detto che aveva male ai denti.

    La ragazza, che teneva il mento sui ginocchi, alzò su quella che aveva parlato certi occhioni neri, scintillanti, ma asciutti, quasi impassibili, e tornò a chinarli, senza aprir bocca, sui suoi pieni nudi.

    Allora due o tre si volsero verso di lei, mentre le altre si sbandavano ciarlando tutte in una volta come gazze che festeggiano il lauto pascolo, e le dissero: - O allora perché hai lasciato tua madre?

    - Per trovar del lavoro.

    - Di dove sei?

    - Di Viagrande, ma sto a Ravanusa -.

    Una delle spiritose, la figlioccia del castaido, che doveva sposare il terzo figlio di massaro Jacopo a Pasqua, e aveva una bella crocetta d'oro al collo, le disse volgendole le spalle:

    - Eh! non è lontano! la cattiva nuova dovrebbe recartela proprio l'uccello -.

    Nedda le lanciò dietro un'occhiata simile a quella che il cane accovacciato dinanzi al fuoco lanciava agli zoccoli che minacciavano la sua coda.

    - No! lo zio Giovanni sarebbe venuto a chiamarmi! - esclamò come rispondendo a se stessa.

    - Chi è lo zio Giovanni?

    - E' lo zio Giovanni di Ravanusa; lo chiamano tutti così.

    - Bisognava farsi imprestare qualche cosa dallo zio Giovanni, e non lasciare tua madre, - disse un'altra.

    - Lo zio Giovanni non è ricco, e gli dobbiamo diggià dieci lire! E il medico? e le medicine? e il pane di ogni giorno? Ah! si fa presto a dire! - aggiunse Nedda scrollando la testa, e lasciando trapelare per la prima volta un'intonazione più dolente nella voce rude e quasi selvaggia: - ma a veder tramontare il sole dall'uscio, pensando che non c'è pane nell'armadio, né olio nella lucerna, né lavoro per l'indomani, la è una cosa assai amara, quando si ha una povera vecchia inferma, là su quel tettuccio! - E scuoteva sempre il capo dopo aver taciuto, senza guardar nessuno con occhi aridi, asciutti, che tradivano tale inconscio dolore, quale gli occhi più abituati alle lagrime non saprebbero esprimere.

    - Le vostre scodelle, ragazze! - gridò la castalda scoperchiando la pentola in aria trionfale.

    Tutte si affollarono attorno al focolare, ove la castalda distribuiva con paziente parsimonia le mestolate di fave. Nedda aspettava ultima, colla sua scodelletta sotto il braccio. Finalmente ci fu posto anche per lei, e la fiamma l'illuminò tutta.

    Era una ragazza bruna, vestita miseramente; aveva quell'attitudine timida e ruvida che danno la miseria e l'isolamento. Forse sarebbe stata bella, se gli stenti e le fatiche non ne avessero alterato profondamente non solo le sembianze gentili della donna ma direi anche la forma umana. I suoi capelli erano neri, folti, arruffati, appena annodati con dello spago; aveva denti bianchi come avorio, e una certa grossolana avvenenza di lineamenti che rendeva attraente il suo sorriso. Gli occhi erano neri, grandi, nuotanti in un fluido azzurrino, quali li avrebbe invidiati una regina a quella povera figliuola raggomitolata sull'ultimo gradino della scala umana, se non fossero stati offuscati dall'ombrosa timidezza della miseria, o non fossero sembrati stupidi per una triste e continua rassegnazione. Le sue membra schiacciate da pesi enormi, o sviluppate violentemente da sforzi penosi, erano diventate grossolane, senza esser robuste. Ella faceva da manovale, quando non aveva da trasportare sassi nei terreni che si andavano dissodando; o portava dei carichi in città per conto altrui, o faceva di quegli altri lavori più duri che da quelle parti stimansi inferiori al compito dell'uomo. La vendemmia, la messe, la raccolta delle olive per lei erano delle feste, dei giorni di baldoria, un passatempo, anziché una fatica. E vero bensì che fruttavano appena la metà di una buona giornata estiva da manovale, la quale dava 13 bravi soldi ! I cenci sovrapposti in forma di vesti rendevano grottesca quella che avrebbe dovuto essere la delicata bellezza muliebre. L'immaginazione più vivace non avrebbe potuto figurarsi che quelle mani costrette ad un'aspra fatica di tutti i giorni, a raspar fra il gelo, o la terra bruciante, o i rovi e i crepacci, che quei piedi abituati ad andar nudi nella neve e sulle rocce infuocate dal sole, a lacerarsi sulle spine, o ad indurirsi sui sassi, avrebbero potuto esser belli. Nessuno avrebbe potuto dire quanti anni avesse cotesta creatura umana; la miseria l'aveva schiacciata da bambina con tutti gli stenti che deformano e induriscono il corpo, l'anima e l'intelligenza. - Così era stato di sua madre, così di sua nonna, così sarebbe stato di sua figlia. - E dei suoi fratelli in Eva bastava che le rimanesse quel tanto che occorreva per comprenderne gli ordini, e per prestar loro i più umili, i più duri servigi.

    Nedda sporse la sua scodella, e la castalda ci versò quello che rimaneva di fave nella pentola, e non era molto.

    - Perché vieni sempre l'ultima? Non sai che gli ultimi hanno quel che avanza? - le disse a mo' di compenso la castalda.

    La povera ragazza chinò gli occhi sulla broda nera che fumava nella sua scodella, come se meritasse il rimprovero, e andò pian pianino perché il contenuto non si versasse.

    - Io te ne darei volentieri delle mie, - disse a Nedda una delle sue compagne che aveva miglior cuore; - ma se domani continuasse a piovere... davvero!... oltre a perdere la mia giornata non vorrei anche mangiare tutto il mio pane.

    - Io non ho questo timore! - rispose Nedda con un triste sorriso.

    - Perché?

    Perché non ho pane di mio. Quel po' che ci avevo, insieme a quei pochi quattrini, li ho lasciati alla mamma.

    - E vivi della sola minestra?

    - Sì, ci sono avvezza; - rispose Nedda semplicemente.

    - Maledetto tempaccio, che ci ruba la nostra giornata! - imprecò un'altra.

    - To', prendi dalla mia scodella.

    - Non ho più fame; - rispose la varannisa ruvidamente, a mo' di ringraziamento.

    - Tu che bestemmi la pioggia del buon Dio, non mangi forse del pane anche tu? - disse la castalda a colei che aveva imprecato contro il cattivo tempo.

    - E non sai che pioggia d'autunno vuol dire buon anno? - Un mormorio generale approvò quelle parole.

    - Sì, ma intanto son tre buone mezze giornate che vostro marito toglie rà dal conto della settimana! - Altro mormorio d'approvazione.

    - Hai forse lavorato in queste tre mezze giornate, perché ti s'abbiano a pagare? - rispose trionfalmente la vecchia.

    - E' vero! è vero! - risposero le altre, con quel sentimento istintivo di giustizia che c'è nelle masse, anche quando questa giustizia danneggia gli individui.

    La castalda intuonò il rosario, le avemarie si seguirono col loro mono-tono brontolio, accompagnate da qualche sbadiglio. Dopo le litanie si pregò per i vivi e per i morti, e allora gli occhi della povera Nedda si riempirono di lagrime, e dimenticò di rispondere amen.

    - Che modo è cotesto di non rispondere ameni - le disse la vecchia in tuono severo.

    Pensava alla mia povera mamma che è tanto lontana: - balbettò Nedda timidamente.

    Poi la castalda diede la santa notte, prese la lucerna e andò via. Qua e là, perla cucina o attorno al fuoco, s'improvvisarono i giacigli in forme pittoresche. Le ultime fiamme gettarono vacillanti chiaroscuri sui gruppi e su gli atteggiamenti diversi. Era una buona fattoria quella, e il padrone non risparmiava, come tant'altri, fave per la minestra, né legna pel focolare, né strame pei giacigli. Le donne dormivano in cucina, e gli uomini nel fienile.

    Dove poi il padrone è avaro, o la fattoria è piccola, uomini e donne dormono alla rinfusa, come meglio possono, nella stalla, o altrove, sulla pa glia o su pochi cenci, i figliuoli accanto ai genitori, e quando il genitore è ricco, e ha una coperta di suo, la distende sulla sua famigliuola; chi ha freddo si addossa al vicino, o mette i piedi nella cenere calda, o si copre di paglia, s'ingegna come può; dopo un giorno di fatica, e per ricominciare un altro giorno di fatica, il sonno è profondo, al pari di un despota benefico, e la moralità del padrone non è permalosa che per negare il lavoro alla ragazza la quale, essendo prossima a divenir madre, non potesse compiere le sue dieci ore di fatica. Prima di giorno le più mattiniere erano uscite per vedere che tempo facesse, e l'uscio che sbatteva ad ogni momento sugli stipiti, spingeva turbini di pioggia e di vento freddissimo su quelli che intirizziti dormivano ancora. Ai primi albori il castaido era venuto a spalancare l'uscio, per svegliare i pigri, giacché non è giusto defraudare il padrone di un minuto della giornata lunga dieci ore, che gli paga il suo bravo tari, e qualche volta anche tre carlini (sessantacinque centesimi!) oltre la minestra.

    - Piove! - era la parola uggiosa che correva su tutte le bocche, con accento di malumore. La Nedda, appoggiata all'uscio, guardava tristemente i grossi nuvoloni color di piombo che gettavano su di lei le livide tinte del crepuscolo. La giornata era fredda e nebbiosa; le foglie avvizzite si staccavano strisciando lungo i rami, e svolazzavano alquanto prima di andare a cadere sulla terra fangosa, e il rigagnolo s'impantanava in una pozzanghera dove s'avvoltolavano voluttuosamente dei maiali; le vacche mostravano il muso nero attraverso il cancello che chiudeva la stalla, e guardavano la pioggia che cadeva con occhio malinconico; i passeri, rannicchiati sotto le tegole della gronda, pigolavano in tono piagnoloso.

    - Ecco un'altra giornata andata a male! - mormorò una delle ragazze, addentando un grosso pan nero.

    - Le nuvole si distaccano dal mare laggiù, - disse Nedda stendendo il braccio; - verso il mezzogiorno forse il tempo cambierà.

    - Però quel birbo del fattore non ci pagherà che un terzo della giornata!

    - Sarà tanto di guadagnato.

    Sì, ma il nostro pane che mangiamo a tradimento?

    - E il danno che avrà il padrone delle olive che andranno a male, e di quelle che si perderanno fra la mota?

    - È vero, - disse un'altra.

    - Ma provati ad andare a raccogliere una sola di quelle olive che andranno perdute fra mezz'ora, per accompagnarla al tuo pane asciutto, e vedrai quel che ti darà per giunta il fattore!

    - È giusto, perché le olive non sono nostre!

    - Ma non sono nemmeno della terra che se le mangia!

    - La terra è del padrone, to' ! - replicò Nedda trionfante di logica, con certi occhi espressivi.

    - È vero anche questo; - rispose un'altra, la quale non sapeva che rispondere.

    - Quanto a me preferirei che continuasse a piovere tutto il giorno, piuttosto che stare una mezza giornata carponi in mezzo al fango, con questo tempaccio, per tre o quattro soldi.

    - A te non ti fanno nulla tre o quattro soldi, non ti fanno! - esclamò Nedda tristemente.

    La sera del sabato, quando fu l'ora di aggiustare il conto della settimana, dinanzi alla tavola del fattore, tutta carica di cartacce e di bei gruzzoletti di soldi, gli uomini più turbolenti furono pagati i primi, poscia le più rissose delle donne, in ultimo, e peggio, le timide e le deboli. Quando il fattore le ebbe fatto il suo conto, Nedda venne a sapere che, detratte le due giornate e mezza di riposo forzato, restava ad avere quaranta soldi.

    La povera ragazza non osò aprir bocca. Solo le si riempirono gli occhi di lagrime.

    - E lamentati per giunta, piagnucolona! - gridò il fattore, il quale gridava sempre, da fattore coscienzioso che difende i soldi del padrone. -Dopo che ti pago come le altre, e sì che sei più povera e più piccola delle altre! e ti pago la tua giornata come nessun proprietario ne paga una simile in tutto il territorio di Pedara, Nicolosi e Trecastagne! Tre carlini, oltre la minestra!

    - Io non mi lamento... - disse timidamente Nedda intascando quei pochi soldi che il fattore, ad aumentare il valore, aveva conteggiato per grani. - La colpa è del tempo che è stato cattivo e mi ha tolto quasi la metà di quel che avrei potuto buscarmi.

    - Pigliatela col Signore! - disse il fattore ruvidamente.

    - Oh, non col Signore! ma con me che son tanto povera!

    - Pagagli intiera la sua settimana, a quella

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