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Rabbits. Gioca se hai il coraggio
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E-book526 pagine6 ore

Rabbits. Gioca se hai il coraggio

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Info su questo ebook

È un normalissimo giorno lavorativo, uguale a tanti altri. Ti hanno assegnato un compito che ti ha assorbito completamente, e quando guardi l’orologio ti accorgi che sono le 4:44 del pomeriggio. Controlli le e-mail, e scopri che hai 44 messaggi non letti. Sorpreso, ti rendi conto che è il 4 aprile: 4/4. E quando sali in macchina per tornare a casa il contachilometri segna 44.444.

Una coincidenza? O hai appena visto l’ingresso della tana del coniglio?

Rabbits è un colossale Alternate Reality Game che usa il mondo intero come scenario. Da quando è nato, nel 1959, si sono tenute dieci iterazioni e sono stati decretati nove vincitori. Nessuno conosce la loro identità, e non si sa nemmeno in cosa consista esattamente il premio che hanno vinto: forse una favolosa somma di denaro, forse un ingaggio nella CIA, forse addirittura l’immortalità o la chiave per decifrare l’universo. L’unica cosa certa è che più ci si addentra nel gioco, più diventa pericoloso: in passato sono morte delle persone, e il numero di vittime sta crescendo.

E ora sta per iniziare l’Undicesima iterazione.

K, affascinato da questo mondo segreto, cerca da anni un modo per partecipare. L’occasione si presenta quando il ricchissimo Alan Scarpio, presunto vincitore di una delle passate edizioni, lo contatta per affidargli una missione disperata: c’è qualcosa che non va nel gioco, e K deve risolvere il problema prima che inizi la nuova iterazione, o il mondo intero ne pagherà le conseguenze.

Cinque giorni dopo Scarpio viene dato per disperso.

Due settimane più tardi, K manca la scadenza. Inizia l’Undicesima iterazione.

E tutto a un tratto è in gioco il destino dell’intero universo.

LinguaItaliano
Data di uscita23 set 2022
ISBN9788830542105
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    Anteprima del libro

    Rabbits. Gioca se hai il coraggio - Terry Miles

    1

    NELLA SALA GIOCHI DEL MAGO

    «Cosa sapete di questo gioco?»

    I sorrisi svanirono dai volti dei complottisti e curiosi del deep web, le loro conversazioni s’interruppero a metà frase e i cellulari vennero rapidamente infilati in una varietà di zainetti e di tasche, ognuno di loro si sforzò di apparire calmo e insoddisfatto mentre si chinava in avanti, drizzando le orecchie e con lo sguardo carico di aspettativa.

    Dopotutto, era il motivo per cui si trovavano lì.

    Erano venuti, e venivano sempre, per quello. Di quello parlavano nelle lunghe, goffe divagazioni sul loro primo forum Tor Browser Web, quella cosa che avevano scoperto per caso su un subreddit privato, o su un blog del deep web tenuto da un mezzo matto specializzato in cospirazioni clandestine tanto insolite quanto rare.

    Era la cosa che ti faceva fremere d’impazienza, ti rodeva quella parte del cervello che voleva disperatamente credere in qualcos’altro.

    Era quello a farti avventurare fuori nel cuore della notte, sotto la pioggia, per andare in un locale che faceva contemporaneamente da pizzeria e sala giochi, un posto che sarebbe stato di sicuro dichiarato inagibile se qualcuno si fosse preso la briga di ispezionarlo.

    Venivi perché quel misterioso qualcosa sembrava diverso. Era l’esperienza inspiegabile che entrava nella tua vita: l’UFO che tu e tuo cugino avevate visto dalla canoa sul lago quell’estate, l’apparizione ai piedi del letto quando ti eri svegliato nel cuore della notte il giorno in cui avevi compiuto diciott’anni. Il brivido elettrico che ti era corso lungo la schiena dopo che tuo fratello maggiore ti aveva chiuso in cantina e aveva spento la luce. Era quello che ti rode il culo, come diceva mio nonno.

    «So che dovrebbe essere una specie di test per il reclutamento – l’NSA, forse la CIA» disse una ragazza poco più che ventenne. Era già stata qui la settimana scorsa. Non aveva fatto domande durante quella presentazione, ma poi mi aveva fermato nel parcheggio per chiedermi qualcosa sui frattali, se a mio giudizio potevano essere collegati alla geometria sacra (secondo me sì) o al complesso lavoro di John Lilly (secondo me no).

    Non mi aveva domandato nulla direttamente della cosa.

    Era sempre così.

    Le domande sul gioco arrivavano più di frequente come indiscrezioni online, o venivano poste in consessi di fanatici che la pensano allo stesso modo, in luoghi sicuri come negozi di fumetti o sale giochi. Nel mondo reale, parlarne ti faceva sentire esposto, come se ti trovassi troppo vicino a qualcosa di pericoloso, o sporto troppo in avanti sulla banchina della metropolitana per sentire il rombo del treno in arrivo.

    Il gioco era il treno.

    «Sono morte migliaia di persone durante il gioco» disse un trentenne magrolino e con i capelli rossi. «Nascondono tutto sotto un tappeto, come se non fosse mai successo.»

    «Ci sono un sacco di teorie» risposi, come avevo già detto un migliaio di volte, «e sì, c’è chi crede che alcune morti siano collegate al gioco.»

    «Perché lo chiami il gioco e non usi il suo vero nome?» La donna che aveva parlato stava seduta su una carrozzella. L’avevo già vista qualche volta da queste parti. Era vestita come una bibliotecaria degli anni Cinquanta e teneva gli occhiali appesi al collo con una catenina di perline. Si chiamava Sally Berkman. Gestiva la sessione di gioco di Dungeons & Dragons più famosa della città. Original Advanced D&D.

    «Cellulari e altri dispositivi elettronici nella scatola» dissi, ignorando la domanda di Sally. Piaceva immensamente quando la mettevo giù dura, facendo sembrare tutto più pericoloso, più clandestino.

    I partecipanti si avvicinarono e misero cellulari, laptop e ogni altro genere di dispositivo elettronico in loro possesso dentro una grande cassa di legno sul pavimento.

    Era una vecchia cassa di cedro. Il Mago l’aveva riportata da un viaggio in Europa qualche anno prima. C’era un disegno sul coperchio, una specie di immagine rituale raffigurante una lepre che veniva cacciata. Era una scena particolarmente intricata, descritta nel dettaglio e terrificante. Sullo sfondo c’era un gruppo di cacciatori con i cani che avanzavano minacciosi sulla preda in primo piano, ma ad attirare l’attenzione era l’espressione sul muso della lepre. C’era qualcosa di cupo e di astuto nel modo in cui guardava fuori dal basso del disegno – occhi spalancati e folli, bocca semiaperta. Non so perché, l’espressione di quella lepre mi dava sempre la sensazione di temere più per i cacciatori che per lei. La cassa aveva l’aria di essere stata costruita fra l’inizio degli anni Venti e la fine degli anni Trenta del secolo scorso. La usavo sempre quando facevo queste cose; quella sua aura vagamente misteriosa conferiva alla cerimonia un’autentica atmosfera di antica cospirazione.

    Una volta depositato l’ultimo cellulare, chiusi il coperchio con un calcio, provocando un rumore secco di grande effetto, e tirai fuori un vecchio registratore a nastri.

    Ovviamente avevo una copia digitale della registrazione, ma avevo deciso di riversarla su nastro da un mp3. C’è qualcosa di romantico in una registrazione analogica. Come la cassa di legno, il registratore a nastro era solo per impressionare, e quelle persone si erano presentate qui, in questa vecchia sala giochi nel distretto universitario di Seattle, per assistere a una messinscena.

    Erano venuti dai seminterrati delle case dei genitori, dai loro disordinati monolocali, dagli attici di piccoli grattacieli e da semplici case di legno costruite nei boschi più di cinquant’anni fa. Erano venuti per sapere qualcosa del gioco. Erano venuti ad ascoltare il Prescott Competition Manifesto, o PCM.

    Proprio nell’istante in cui stavo per premere play udii una voce dal fondo della sala. «È vero che conosci Alan Scarpio?»

    «Sì, lo conosco. Voglio dire, l’ho incontrato una volta mentre stavo giocando la Nona iterazione» risposi, cercando di scoprire chi aveva fatto la domanda.

    Non c’erano così tante persone, forse quaranta o cinquanta, ma la sala era piccola e in alcuni punti la gente stava in fila per tre o per quattro.

    «Quasi tutti sono convinti che Scarpio abbia vinto la Sesta iterazione del gioco» dissi.

    «Sì, lo sappiamo. Dicci qualcosa che non sappiamo.»

    Non ero ancora riuscito a individuare chi aveva parlato. Si trattava di una voce maschile ma, con il ronzio dei videogame e dei flipper, era difficile dire con esattezza da dove proveniva.

    «Alan Scarpio è un playboy straricco che frequenta Johnny Depp» disse un ragazzo appoggiato a un vecchio cabinato arcade Donkey Kong. «Non può essere un giocatore.»

    «Magari giocava, ma non ci sono prove che abbia vinto» disse una donna con una T-shirt Titanica. «Californiac è il nome riportato nel Cerchio, non Alan Scarpio.»

    «Allora come spieghi che sia diventato così ricco da un giorno all’altro?» replicò Sally Berkman – la solita domanda quando si parlava di Scarpio. «Non può che essere Californiac. È logico. È nato a San Francisco.»

    «Oh, be’, se è nato a San Francisco non può che essere lui.» Il tizio del Donkey Kong voleva chiaramente fare un po’ di casino.

    «San Francisco è in California» ribatté Sally Berkman. «Californiac.»

    «Wow, dici sul serio?» fece Donkey Kong, scuotendo la testa.

    «Cosa ne dite se adesso vi faccio sentire ciò che siete venuti ad ascoltare?» domandai.

    Se avessi lasciato che continuassero a parlare di Scarpio e a discutere se fosse davvero Californiac, il vincitore della Sesta iterazione del gioco, saremmo rimasti lì tutta la notte. Di nuovo.

    Feci un cenno a una ragazza con i ricci biondi che stava vicino all’ingresso e lei spense le luci.

    Si chiamava Chloe. Era una mia buona amica. Lavorava per il Mago.

    La sala giochi era la casa del Mago.

    Si trattava di un vecchio spaccio d’alcolici clandestino che negli anni Ottanta era stato trasformato in sala giochi-pizzeria. Il forno per la pizza aveva tirato le cuoia più di dieci anni prima, e così adesso era rimasta solo una sala giochi. Nessuno aveva capito come il Mago fosse riuscito a mantenere in attività questo posto dopo il boom di videogiochi per pc e, più tardi, per laptop, eppure ce l’aveva fatta.

    Entrare in questa sala era come entrare in un’altra epoca.

    Le pareti di mattoni e i tubi a vista sul soffitto facevano a pugni con gli schermi luminosi e l’audio a 8-bit dei videogiochi, dando vita a uno strano ma piacevolissimo miscuglio di anacronismi.

    Chloe lo chiamava l’estro degli anni Ottanta.

    Il Mago era fuori città per un viaggio di studio, ma non partecipava mai a questo genere di riunioni.

    All’inizio si era limitato a concedere l’uso di questo posto ad alcuni di noi, perché potessimo riunirci dopo l’Ottava iterazione del gioco. La sala giochi del Mago era diventata una specie di clubhouse, un luogo di ritrovo informale per chi, come noi, era ancora ossessionato dal gioco, dopo che molti ne erano usciti.

    Premetti play sul registratore e la voce della dottoressa Abigail Prescott riempì la sala.

    Il livello di segretezza che circonda il gioco ha a che fare, come molti candidati… RUMORE STATICO… è caos fra l’inizio e il primo marcatore, nessun algoritmo può ricostruirne la logica… CREPITIO… ho sentito descrivere la condizione alla base del gioco, metaforicamente, come una specie di fluido, come il citoplasma o il protoplasma di una cellula… RUMORE STATICO… Era in letargo da molto tempo quando, nel 1959, venne alla luce il primo indizio. Stava sulle pagine del Washington Post, una lettera al direttore, e nel testo di una canzone degli Everly Brothers che, messe insieme, fornivano l’indicazione che il gioco era tornato. Una studentessa di Oxford comprese tutto e portò il suo professore nella matrice del pensiero a Cambridge… CREPITIO… il nome Rabbits venne usato per la prima volta in riferimento a un disegno che conteneva un coniglio sulla parete di una lavanderia a gettoni di Seattle. Rabbits non era il nome di quella particolare iterazione del gioco, come non è il nome di questa… per quanto possiamo dire, gli stessi giochi – almeno i giochi in questa variante moderna – non hanno nomi. Sono numerati dalla comunità dei giocatori… RUMORE STATICO… attenzione, abbiamo motivo di credere che quanto riferito a proposito di rischi fisici e psicologici sia, in realtà, incompleto, e… RUMORE STATICO… Quello che segue è stato scritto, a quanto si dice, sul muro di quella lavanderia a gettoni di Seattle nel 1959, con il titolo scarabocchiato di MANIFESTO, e sopra il disegno di un coniglio:

    Giochi in silenzio, non parli.

    Trovi porte, castelli coi merli.

    I guardiani son lì a preservarli.

    E tu giochi, preghi, non parli.

    Eccolo. Rabbits. Il motivo per cui ci trovavamo lì, in cerca di nuove informazioni, indizi, qualunque cosa potesse costituire una prova della prossima iterazione numerata: Undicesima, o XI.

    Era già cominciata?

    Stava per cominciare?

    La Decima iterazione era davvero conclusa?

    Qualcuno aveva visto il Cerchio?

    Lasciai che l’eco delle parole di Abigail Prescott rimanesse sospesa nell’aria, poi proseguii con la parte della presentazione riservata alle domande.

    «Dubbi, interrogativi?»

    «Cosa puoi dirci della dottoressa Prescott?» chiese con voce stentorea un uomo vestito interamente di jeans – camicia scura e pantaloni chiari. Era impegnato in un gioco realizzato dalla Williams Electronics negli anni Ottanta, Robotron: 2084.

    Si trattava di un mio amico, Baron Corduroy: una specie di infiltrato che mi ero portato dietro per indirizzare il dibattito verso certi aspetti della mia presentazione.

    «Be’, ecco, sappiamo che la dottoressa Abigail Prescott ha lavorato alle dipendenze sia di Robert Wilson della Stanford University – un professore che si occupa in particolare di teoria dei giochi in relazione all’economia – sia del fisico quantistico Ronald E. Meyers, ma nessuno è riuscito a scoprire qualcosa di interessante su di lei. Alcuni credono che Abigail Prescott sia solo uno pseudonimo, ma nessuno può dirlo con certezza.»

    «Lo pseudonimo di chi?» chiese Sally, la Dungeon Master.

    «Non ne ho idea» risposi, ed era vero. Abigail Prescott sembrava essere un nome in codice. Era praticamente impossibile trovare qualcosa su di lei online o da qualunque altra parte – e credetemi, ci ho provato.

    «Dove hai preso questa registrazione?» Di nuovo quella voce dal fondo della sala. Non ero ancora riuscito a individuare chi fosse a parlare.

    «Be’, come molti di voi sanno, il Prescott Competition Manifesto è estremamente raro. Nell’attimo in cui viene postato su un sito crowd-sharing viene rimosso più velocemente di quanto gli studi di produzione rimuovano i loro film coperti da copyright. Non è molto, ma al momento questa clip è la migliore fonte di informazione sul gioco a nostra disposizione…»

    Un’altra pausa a effetto.

    «Nello specifico, questa clip mi è stata data da un amico che ha quasi vinto l’Ottava.» Quest’ultima affermazione era una bugia. Avevo comprato la registrazione nella darknet per l’equivalente di ventisei dollari in Bitcoin.

    Calò il silenzio nella sala.

    Erano felici quando menzionavo una qualunque cosa collegata alle iterazioni del gioco dotate di un numero, o ai vincitori di quelle iterazioni, il Cerchio. E, naturalmente, Hazel, il più famigerato giocatore di Rabbits.

    Hazel non è stato il solo partecipante famoso. C’erano i due noti giocatori canadesi, Nightshade e Sadie Palomino; ControG, il vincitore della Decima – e più recente – iterazione del gioco; l’anarchico brasiliano che si faceva chiamare col numero 6878; e, naturalmente, Murmur, il più micidiale di tutti, che, a detta di molti, aveva sacrificato le sue compagne per conquistarsi un minimo di vantaggio durante la Nona. Ma questi altri giocatori, per quanto abili ed esperti, stavano un gradino sotto a Hazel.

    Hazel era quello a me più vicino. Lasciavo sempre un piccolo aneddoto su Hazel per il finale.

    «Coraggio, dicci qualcosa che non sappiamo.» Di nuovo il mio amico Baron.

    Questa volta non si era nemmeno voltato nel porre la domanda. Mi dissi che avrei dovuto scambiare due parole con lui a proposito del suo impegno nel guadagnarsi la parte di profitti che gli spettava.

    «Corre voce che ci sia un’altra forza all’opera, dietro le quinte – qualcosa di potente, misterioso e, in qualche caso, micidiale. Qualcosa che ci osserva da un’altra dimensione, che scruta nel nostro mondo da un’oscurità infinita, aspettando che i giocatori commettano un errore.» Feci di nuovo una pausa a effetto, poi continuai, con la voce leggermente più bassa. «Questo avvertimento è stato scoperto sul retro di una carta della classificazione decimale Dewey trovata in una vecchia cassettiera di un negozio di roba usata irlandese.»

    Mi schiarii la voce, poi recitai:

    «Ricorda il gioco, o il tuo mondo è morte.

    Ricorda di seguire ogni segnale.

    Nell’ombra governiamo la tua sorte.

    Cieco, inciampi nel tranello fatale.

    Non c’è caso e non c’è chi è più forte,

    Quindi gioca, e non smettere, o mortale».

    «Caspita, notevole.» Ancora quella voce.

    Mi guardai intorno e intravidi un giubbotto verde militare che si muoveva fra gli spettatori.

    «È questo, dunque, il gioco» continuai. «Rabbits.»

    Mi guardai di nuovo intorno lentamente. «Con premi di natura imprecisata per chi partecipa e punizioni spaventose per chi tradisce il segreto e lo spirito del gioco, è difficile credere che qualcuno stia ancora davvero giocando.» Feci un respiro profondo, da attore consumato, e proseguii. «Altre domande?»

    «Una mia amica dice che ha la prova del fatto che il gioco è ricominciato, l’Undicesima versione.» A dirlo era un nuovo acquisto, una donna con una bandana rossa, seduta sul pavimento e con la schiena appoggiata a un cabinato di Dragon’s Lair.

    «Con tutto il rispetto per la tua amica, gli esperti sono tutti concordi nel dire che il gioco è rimasto inattivo da quando è finita la Decima iterazione. Siamo in un ciclo negativo. Nessuno è in grado di dire se – o quando – il gioco ricomincerà.»

    «Cosa sai dirci di Hazel?» Ancora Baron Corduroy, finalmente tempestivo.

    «Temo di avere finito il tempo a mia disposizione per stasera.»

    Mugugni nella sala.

    «Ma se volete ulteriori informazioni, c’è un nuovissimo PDF scaricabile sul mio sito.»

    In genere almeno metà degli spettatori si fermava fuori per fare qualche altra domanda, ed era in quel momento che finalmente condividevo qualcuna delle storie che avevo sentito a proposito di Hazel e di certi altri famigerati giocatori di Rabbits, ma c’era una proiezione notturna di Donnie Darko al cinema Grand Illusion che iniziava fra una ventina di minuti.

    Il diagramma di Venn della gente interessata a Rabbits e al thriller fantascientifico di Richard Kelly del 2001 è sostanzialmente un unico cerchio.

    Salutai uno dopo l’altro tutti i partecipanti mentre riprendevano i loro dispositivi elettronici e si affrettavano nella pioggia per andare a vedere il film.

    Quando anche l’ultimo uscì dalla sala giochi aprii una piccola cassetta di sicurezza verde e contai le offerte. Duecentodue dollari. Niente male. Lasciai al Mago la sua parte e feci scivolare la cassetta sotto il bancone.

    «Bravo, quante belle stronzate.» Era la voce sconosciuta di prima, l’uomo con il giubbotto militare. Sotto indossava una felpa nera col cappuccio, che gli nascondeva il volto. Stava giocando a Robotron: 2084, quello a cui era attaccato Baron durante la mia presentazione.

    Probabilmente lui e Baron si erano scambiati di posto mentre la gente se ne stava andando.

    «Dov’è Baron?» gli chiesi.

    «Chi?»

    «Quello che giocava a questo gioco prima di te.»

    «Credo sia andato a vedere Donnie Darko

    Ovviamente. Baron non si era degnato di stare attento mentre parlavo di Rabbits, ma sarebbe stato felice di sganciare sette dollari per vedere un film che aveva già visto almeno ottanta volte.

    «Niente male» disse il tipo, accennando con la testa allo schermo.

    Mi avvicinai e vidi il punteggio. Non era affatto male. Molto più alto di quanto sarebbe stato capace di fare Baron, e il mio amico era il miglior giocatore di Robotron che noi avessimo conosciuto.

    «Una volta ci andavo matto.» A quel punto il tipo con il giubbotto verde si voltò e abbassò il cappuccio.

    Lo riconobbi immediatamente.

    Ci sono due cose che vale qui la pena di notare. Primo, il tizio che giocava a Robotron nella sala giochi del Mago – l’uomo che mi aveva chiesto se conoscevo Alan Scarpio – era il celebre miliardario, filantropo e solitario che, a detta di molti, aveva vinto la Sesta iterazione di Rabbits: il maledetto Alan Scarpio. Secondo, benché poco prima avessi detto di conoscere Alan Scarpio, non l’avevo mai incontrato in tutta la mia vita.

    «Ho bisogno del tuo aiuto» disse.

    «Perché?» risposi.

    «C’è qualcosa che non va in Rabbits, e ho bisogno che tu mi aiuti a sistemarlo.»

    Detto questo, Alan Scarpio si rimise tranquillamente a giocare.

    2

    E ALLORA? È SOLO UN PICCHIO DEL CAZZO

    Nel caso ve lo stiate domandando, io mi chiamo K. Proprio così. Solo K. Una lettera.

    Vi dirò un paio di cose: primo, K è l’abbreviazione di qualcosa. Secondo, non vi dirò mai cos’è questo qualcosa. Dovrete farvene una ragione e non sentirvi troppo delusi.

    Sono cresciuto nel Pacifico nord-occidentale, un posto che, a quell’epoca, mi pareva il più umido e desolato della Terra. Un posto di cui, molti anni dopo, avrei romanticamente detto che era un mondo verde e malinconico pieno di antichi segreti e di vite nascoste. Un posto che oggi vedo come una specie di amalgama inquietante di tutte quelle cose.

    Sono abbastanza vecchio da ricordare i videogiochi cabinati nelle sale giochi, e abbastanza giovane da non riuscire a immaginare un mondo senza internet.

    Quand’ero bambino, i miei genitori credevano che io fossi dotato di quella che chiamano memoria eidetica: una particolare abilità nel trattenere immagini, parole e pattern nei più precisi dettagli. A quei tempi si usava l’espressione memoria fotografica, ma è imprecisa. La memoria fotografica non esiste, e se anche esistesse, io non ne ero dotato. Ero solo in grado di ricordare certe cose, descriverle con chiarezza, e richiamarle alla mente. Non riuscivo a ricordare tutto, solo cose collegate a modelli che mi sembravano interessanti. Non era un giochino matematico. Benché probabilmente avrei potuto far cadere una scatola di stuzzicadenti sul pavimento e dire quanti erano, non sareste riusciti a farmi calcolare nemmeno una delle più semplici radici quadrate.

    Siccome ero capace di ricordare le più assurde stronzate, a volte riuscivo a distrarre un bullo incazzato della mia classe quanto bastava a fargli passare la voglia di prendermi a calci nel culo, ma funzionava solo il cinquanta per cento delle volte – una percentuale che crollò rapidamente a zero quando entrai al liceo, e la capacità di focalizzarmi sui dettagli cogliendo delle oscure connessioni mutò da occasionale atto di autoconservazione a vera e propria ossessione.

    È stata quest’ossessione per la ricerca di pattern e la rottura di codici (che potevano anche non essere affatto dei codici) a farmi etichettare come leggermente neurodiverso – una diagnosi che mi portò a una serie di cure d’ogni genere e sul divano di svariati terapeuti. È stata ugualmente questa ossessione a farmi entrare nel mondo di Rabbits.

    Quando chiedono di indicare il momento preciso in cui è venuta a sapere del gioco, le persone in genere non sanno rispondere. Forse hanno visto qualcosa su una misteriosa bacheca online, oppure hanno letto un frammento di conversazione su kill screen nascosti nei cabinati delle sale giochi anni Ottanta. O forse è stato l’amico di un amico che parlava di un ragazzo morto mentre giocava a uno strano gioco con l’Atari 2600 che nessuno ricordava fosse mai esistito.

    Io invece ho ben presente dove mi trovavo quando ho sentito per la prima volta il nome Rabbits.

    Ero a una festa a Lakewood, nello stato di Washington.

    Essendo cresciuto a Olympia, appena un’ora a sud di Seattle, ho avuto modo di sentire le storie legate a Polybius, il video-gioco arcade che, a detta di molti, uccise alcuni giovani in Oregon. Ma questo gioco misterioso era diverso, più enigmatico, e forse anche più sinistro. Come Polybius, era circondato da strane voci – inclusi uomini in completo grigio e possibili conseguenze sul proprio stato mentale per chi partecipava. Ma diversamente da Polybius, nessuno parlava di questo gioco – almeno fino a quando non sono stato a quella festa.

    Bill e Madeline Connors erano amici di famiglia e ogni anno organizzavano una festa per il 4 luglio. Avevano due figlie – Annie ed Emily – più grandi di me, rispettivamente di uno e tre anni.

    Le sorelle Connors ascoltavano la musica giusta e vestivano sempre alla moda – molte cinture e molti cappelli. A quella festa indossavano entrambe un cappello alto, a strisce – roba da libri del Dr. Seuss – che avevano comprato in quello che, mi assicurarono, era il negozio più in voga di Melrose Avenue a Los Angeles. Lo presi per buono. A quel tempo non ero mai andato oltre Oakland, per il corso di vela.

    Mentre i nostri genitori stavano in giardino un po’ ubriachi a giocare a freccette, entrai in casa per prendere una Coca (da me mi era vietato berla) e sentii casualmente Annie ed Emily che parlottavano.

    Si stringevano l’una all’altra davanti al computer di famiglia, fissando qualcosa sullo schermo.

    «Sei riuscita a capire come scaricare EverQuest o no?» chiese Annie.

    «Ho qualcosa di meglio» rispose Emily, facendo apparire una schermata che conoscevo. Vedevo tutto piuttosto bene da dove mi trovavo, subito dietro la porta della cucina. Stavano guardando un newsgroup di Usenet.

    Annie si chinò in avanti per osservare più da vicino. «Cos’è alt punto binaries punto games?»

    «Gaming group» rispose Emily, digitando con gesti precisi sulla tastiera.

    «Cosa vuol dire binaries?»

    «Sta’ zitta un attimo.»

    «Le foto di Zelda?»

    «Non proprio.»

    «Un altro bambino che danza?»

    «Ascolta e taci.» Emily posò delicatamente una mano sulla bocca della sorella e premette la barra spaziatrice.

    Partì un video. Sembrava una clip presa da un vecchio documentario naturalistico. La voce che accompagnava le immagini parlava di un picchio imperiale.

    «E allora? È solo un picchio del cazzo. Torniamo fuori. C’è Luke Milligan» disse Annie, strattonando sua sorella.

    «Luke Milligan è uno stronzo. Ha cercato di infilare una mano sotto la camicetta di Nina durante la lezione di chimica.»

    «Davvero?» Annie era visibilmente delusa.

    «E poi… non è un picchio qualsiasi» aggiunse Emily.

    «Cosa vuoi dire?»

    «Voglio dire, guardali tutti. Ci saranno almeno cinquanta picchi in queste ultime tre scene.»

    «Sì, e allora? Sono grossi?»

    «Sì, sono grossi, ma non è questo il punto. Il documentario è stato girato nel 1989 e l’ultima volta che è stato visto un picchio imperiale era il 1956.»

    «Caspita.» Anna si chinò verso lo schermo. «E questo cosa significa?»

    «È Rabbits» disse Emily, spegnendo il computer.

    «Rabbits?» Annie aveva gli occhi sgranati. Era affascinata.

    Io pure.

    C’era qualcosa nel modo in cui Emily aveva pronunciato la parola rabbits da farlo sembrare un segreto – qualcosa che gli adulti sapevano e che i bambini non avrebbero potuto capire.

    Emily si guardò intorno per essere sicura che nessuno stesse ascoltando. Dal mio punto di osservazione non riuscivo a vederla. Lei abbassò la voce: «È un gioco segreto».

    Annie fissò l’immagine di un picchio immobile sullo schermo. «Cosa significa?»

    «Significa che ci giocherò» rispose Emily in tono pragmatico.

    «Come?»

    «È complicato dirlo.»

    «Ma è tipo cosa?»

    «Tipo che bisogna trovare delle cose.»

    «Quali cose?»

    «Pattern, modelli, discrepanze. Cose che non hanno senso.»

    «Pattern?» domandò Annie. Stava facendo del suo meglio per capire, ma chiaramente non aveva idea di cosa diavolo stesse dicendo sua sorella.

    Emily fece un respiro profondo e riordinò i pensieri prima di continuare. «Okay, allora, c’è un documentario naturalistico prodotto da una società che non esiste più, se mai è esistita.»

    Rimasi fermo in cucina, come ipnotizzato, mentre Emily spiegava alcune strane teorie su quel documentario.

    In sostanza, era molto semplice. C’era un nome nei titoli di coda a cui non era associato alcun ruolo, tipo trucco, assistente al suono, capo elettricista o macchinista.

    C’era un nome che se ne stava tutto solo sullo schermo – un nome orfano, credo che Emily lo chiamasse così. Disse ad Annie che aveva sentito per caso una discussione a questo riguardo e che ne aveva parlato con gli altri nel suo forum di giocatori. Avevano provato con la numerologia e la matematica applicate alle lettere di quel nome, e alla fine avevano scoperto una cosa chiamata La stazione notturna.

    «Cos’è La stazione notturna?» chiese Annie.

    «È quello che scopriremo. Vieni.»

    Uscii in giardino senza farmi vedere, giusto in tempo per evitare di farmi sorprendere dalle due.

    Emily disse ai genitori che andava con Annie all’emporio e chiese, svogliatamente: «Avete bisogno di qualcosa?».

    In pochi gridarono le loro richieste – sigarette, ginger ale, patatine con qualche salsa. Annie prese nota di tutto mentre Emily andò a recuperare le chiavi del pick-up di sua madre.

    Si udì la voce di Mrs. Connor sopra le altre: «Portate K con voi».

    «Mamma, non c’è spazio» disse Emily in tono lamentoso.

    «È grande abbastanza, Em. Non fare storie.»

    Emily sbuffò e mi passò davanti senza degnarmi di uno sguardo. «Su, vieni, ragazzino.»

    «Cosa ti fa credere che io voglia venire?» dissi.

    Annie mi prese per mano e mi trascinò con lei.

    Io volevo andare con loro – non solo perché Annie era la prima ragazza che avessi baciato, ma anche per quello che Emily aveva detto poco prima in cucina. L’idea di un misterioso gioco segreto chiamato Rabbits.

    Questo era diverso. Questo era qualcosa di grosso, roba da adulti.

    Tenere Annie per mano ed essere trascinato verso il vecchio pick-up Chevy bianco e blu con quegli pneumatici bitorzoluti mi riportò al momento in cui mi aveva baciato.

    Annie Connors era di una bellezza fuori dalle regole. Aveva gli occhi un filo troppo separati e i capelli esageratamente ondulati e sempre in disordine, ma io la trovavo bellissima e dotata di una sicurezza sfrontata, che ti trascinava e al tempo stesso ti spaventava.

    Qualche settimana dopo che avevo compiuto tredici anni, le nostre famiglie si erano riunite per celebrare il Thanksgiving. Annie e io eravamo stati mandati giù a prendere un gioco che si chiamava Trivial Pursuit. Mentre andavamo nel ripostiglio dove tenevamo i nostri vecchi giocattoli, Annie all’improvviso mi aveva sbattuto contro la caldaia di fianco alla mia camera di fortuna ricavata nel seminterrato mai finito. Poi, come se fosse la cosa più normale del mondo, aveva premuto il suo corpo contro il mio, mi aveva preso il volto fra le mani e mi aveva baciato.

    Sapeva di vermetti gommosi all’uva. Era incredibile.

    «Allora?» mi aveva chiesto dopo il bacio.

    Non riuscivo a parlare, ma sono sicuro di avere risposto con gli occhi: porca puttana, wow.

    «Salta su.» Emily era già sul pick-up e stava scegliendo una cassetta per il tragitto.

    Montai su, cercando di non sedermi troppo vicino a Emily. Annie Connors era molto bella e misteriosa, ma Emily era di un altro pianeta.

    «Muoviti, è quasi l’ora.» Emily avviò il pick-up prima che Annie avesse chiuso la portiera.

    Non me ne intendevo di macchine, ma quella doveva avere più di dieci anni. Il posacenere sotto l’autoradio debordava di mozziconi arancioni e bianchi. Sul pavimento c’erano una bottiglia di Sprite vuota e un vecchio sacchetto di chips sale e aceto, con delle briciole di patatine verdastre ben visibili sul fondo lucido della confezione.

    «L’emporio è aperto ventiquattr’ore su ventiquattro» dissi, rendendomi immediatamente conto che Emily lo sapeva già.

    Tutti lo sapevano.

    Emily non disse nulla e infilò una cassetta nell’autoradio. Si udì un clic, poi un ronzio meccanico, e le lucine rosa dell’affare illuminarono l’abitacolo. A quel punto Tori Amos iniziò a cantare Crucify ed Emily avviò il pick-up lungo il viale tortuoso che portava alla strada principale.

    Oltrepassammo l’emporio senza fermarci. Emily non rallentò nemmeno.

    Rimasi in silenzio. Non volevo aprir bocca e rischiare di dire qualcosa che potesse influire su ciò che stavamo facendo. Stavamo vivendo un’avventura – la mia prima avventura da brivido – e non avrei mai detto qualcosa col rischio di mandare tutto a puttane.

    Emily tirò fuori un pacchetto di sigarette dall’aletta parasole e staccò le mani dal volante per accendersene una. Senza che sua sorella dicesse una parola, Annie si sporse davanti a me e afferrò il volante.

    Emily e Annie agivano in perfetta sincronia.

    Annie guidò al posto di sua sorella, guardando attentamente la strada e mantenendo il pick-up in carreggiata, con la concentrazione di un neurochirurgo o di un controllore del traffico aereo, come se rimanere fra le due strisce bianche fosse la sola cosa che faceva ruotare la Terra.

    Procedemmo per altri sette minuti prima che Emily riprendesse il volante e svoltasse lungo una vecchia strada usata per il trasporto di tronchi d’albero. Un minuto dopo accostò sul ciglio sterrato.

    «Qui non c’è niente, solo la casa dei Peterman» dissi, «ma può darsi che ci sia qualcuno alla cava di ghiaia.»

    Se mi fossi fatto vedere alla cava di ghiaia con Emily e Annie Connors, il giorno dopo a scuola sarei stato considerato un eroe.

    Emily mi fece segno di stare zitto. Accese le luci in cabina ed estrasse un piccolo diario dalla borsa.

    «Sei sicura che fosse questa la strada?» chiese Annie. «K ha ragione. C’è solo la casa dei Peterman su di qui.»

    Emily fissò il diario che teneva in grembo.

    Le pagine erano completamente coperte di parole, numeri e disegni piccolissimi. Mi sembrava di averlo già visto – non il contenuto, ma lo stile. Era simile a quello che io e i miei amici scrivevamo sulla carta millimetrata mentre giocavamo a Dungeons & Dragons.

    Emily cerchiò alcuni numeri che aveva scritto sopra a quello che sembrava un insieme di nomi e simboli.

    Rifletté per qualche istante, poi sommò i numeri, si appoggiò allo schienale e fece un profondo sospiro.

    «Centosette virgola tre» dichiarò. Io stavo zitto. Guardare Emily Connors che faceva delle operazioni era una delle cose più belle a cui avessi mai assistito.

    Mise via il diario e si voltò verso di me con aria grave. «Non dovrai dire a nessuno ciò che sta per succedere stanotte.»

    «Non lo dirò» risposi.

    «Non sto scherzando.» Mi afferrò il polso, con forza. «Devi giurarlo.»

    «Non lo dirò a nessuno.» Ma gli occhi di Emily mi fecero capire che non le bastava. «Non lo dirò, lo prometto. Lo giuro.» Alzai un mignolo. Emily lo ignorò e mi fissò negli occhi per quella che mi parve un’eternità. Poi, apparentemente soddisfatta da ciò che vi aveva visto, controllò nuovamente l’informazione contenuta nel diario e lo rimise nella borsa.

    Annie estrasse la cassetta di Tori Amos. «Qual è il numero?»

    «Uno zero sette virgola tre» rispose Emily.

    «Ricevuto.» Annie sintonizzò lentamente la radio su quella frequenza. Solo rumore statico. «Sei sicura che sia questo?»

    «Lo spero.» Emily regolò il volume poi si girò verso di noi e sorrise.

    Era meraviglioso e inquietante.

    Per quanto ne sapevo, Emily Connors non era una che sorrideva spesso.

    «Ora?» chiese a sua sorella, di colpo tutta concentrata.

    «Le dieci e sei minuti» rispose Annie.

    Emily mi toccò il braccio e disse: «Fa’ quello che vuoi ma non dare in escandescenze, okay?».

    Feci del mio meglio per apparire a mio agio e disinvolto mentre Emily innestò la marcia e si rimise sulla stradina dei boscaioli.

    Avevamo sentito il rumore statico alla radio per circa un minuto quando Emily annuì a sua sorella e premette la levetta per spegnere i fari.

    Nero assoluto.

    Procedevamo alla stessa velocità ma ora non vedevo niente.

    Eravamo completamente ciechi.

    I rumori statici alla radio riempirono la cabina.

    «Emily, non credo…»

    «Sssh.» Mi afferrò di nuovo il braccio tanto forte da lasciarmi quattro lividi, uno per ogni dito. «Ascolta.»

    Non fiatai e rimasi in ascolto.

    «Hai sentito una voce?» domandò Emily.

    Annie scrollò le spalle. Chiaramente, non aveva sentito nulla. Emily mi guardò e io scossi la testa.

    Mi sforzavo, ma mi era difficile concentrarmi a causa dei rumori statici e della situazione. Stare su un pick-up con Emily e Annie Connors in marcia lungo una vecchia stradina in disuso nel buio più totale non era una procedura standard, per quel che mi riguardava.

    «Cos’è stato?» Emily alzò il volume. «Per favore, ditemi che l’avete sentito anche voi.»

    «Credo di sì» mentii.

    Non avevo ancora udito nulla, a parte un rumore continuo. Mi faceva male la testa. Il rumore statico della radio mi pizzicava le orecchie e iniziò a vibrare un intenso ronzio, che saliva dal profondo del petto. All’improvviso sentii la bocca secca.

    Ho sempre

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