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La contessa di Apricale
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E-book122 pagine1 ora

La contessa di Apricale

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Info su questo ebook

Una storia d’amore e di intrighi nell’Europa della Belle Epoque; il percorso di una donna, bellissima e misteriosa, di origine contadina, che parte dal borgo di Apricale nell'entroterra ligure per approdare, passando per Nizza e Parigi, alla corte dei Romanov in qualità di spia prima e di amante dopo.
Anna Cristina Bellomo, meglio nota come “la contessa di Apricale”, nasce da una famiglia di origine contadina, ma le sue ambizioni la spingono a cercare fortuna oltre i limiti della terra natia. Raggiunge, infatti, Nizza dove riesce a ereditare il patrimonio del conte De la Tour per spingersi, poi, fino a Parigi dove frequenta gli ambienti della Belle Epoque. La sorte la porta anche in Russia, alla corte dei Romanov, dove diventa spia e amante dello zar. Conosce le prigioni giapponesi da dove evade per fare, infine, ritorno al paese ligure dove concluderà, tragicamente, la sua esistenza.
LinguaItaliano
Data di uscita12 mag 2014
ISBN9788875639778
La contessa di Apricale

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    Anteprima del libro

    La contessa di Apricale - Claudio Nobbio

    Ringraziamenti

    Si ringrazia:

    Amministrazione Comune di Apricale

    Museo Castello della Lucertola

    Enzo Cini per le ricerche svolte a Parigi

    Tuscia Katia Nobbio per le ricerche d’archivio e su internet

    Teatro della Tosse di Genova

    busto.jpg

    Busto in marmo dello scultore Dainelli (1900), recante la dicitura Cristina contessa De la Tour, casualmente ritrovato dall’antiquario sanremese Marco Languzzi nel parco di una villa di Sanremo di proprietà di una famiglia inglese. È l’unica immagine pervenutaci della contessa; probabilmente il suo coinvolgimento nell’attività di spionaggio ha portato all’eliminazione di tutte le altre. Il busto è visibile nel Castello della Lucertola di Apricale.

    I

    Apricale è un borgo fortificato che si stende sul fianco di una verde e soleggiata collina poco a nord di Ventimiglia. Le sue case di pietra e le strade selciate si snodano attorno al castello che domina la visuale. Da lassù si vede lontano e qualcuno, nei giorni sereni, vi scorge persino le onde del mare. Qui da sempre vive una popolazione di contadini montanari, coriacei e testardi, che per secoli hanno combattuto la dura lotta della sopravvivenza tra l’aspra vegetazione collinare, lontani dalla costa ma talmente vicini alla Francia, da aver assunto un dialetto francesizzante e un nome francese per il borgo, cioè Auvrigue.

    In una di queste povere famiglie nacque nel 1861 Cristina Bellomo che la cronaca consacrò come la contessa di Apricale. Quel giorno, 8 di aprile, il tempo era sereno e, poco dopo l’una, le vicine andarono ad annunciare a Giovanni Battista Bellomo, intento ai lavori dell’orto, che gli era nata la settima femmina. La portata di queste notizie è forse incomprensibile ai giorni nostri, ma un contadino aveva bisogno di maschi, anche se le femmine spesso lavoravano quanto gli uomini e, in sovrappiù, svolgevano anche i pesantissimi lavori domestici. Erano donne dure, ma nonostante la vita grama le avesse temprate, tanto da perdere qualsiasi vezzo femminile, i padri non gradivano l’arrivo di una figlia. Si sosteneva che mangiavano a ufo e producevano poco. Per Giovanni Battista, soprattutto, si trattava della settima e si può comprendere che, se non altro, fosse stanco della monotonia. L’uomo, chino sulla zolla, imprecò contro il Cielo, Iddio e tutti i Santi. Quella sera mangiò in silenzio la cena preparata da sua sorella guardando torvo le facce rosee delle bambine; non rivolse parola a sua moglie Apollonia mentre si coricava accanto a lei nella stanza buia, poi come tutte le altre volte si rassegnò. La sera dopo, accompagnato dal padrino e dalla madrina, si recò nella chiesa della Purificazione e fece battezzare la creatura con il nome di Cristina per il semplice motivo che quello era il nome della madrina, Cristina Piccone. Non aveva la fantasia di escogitarne altri. Poi, dopo aver firmato con una croce l’atto di nascita e di battesimo, annunciò al mondo che non avrebbe più voluto altri figli. La bottega chiude! spiegò e nessuno si permise ulteriori domande.

    Che Cristina fosse diversa dagli altri lo si vide molto presto. Era di una bellezza strabiliante e vezzosa nei modi, con due occhi verdi che sembravano di cristallo. Il padre, suo malgrado, cominciò ad amarla e a preferirla a tutte le bimbe della nidiata. La madre la guardava un po’ in cagnesco: per lei infatti, nella generale povertà, non si doveva trasgredire dal criterio di uguaglianza. Apollonia tirava su le sue ragazze nell’austerità e nel culto del lavoro che era sempre eccessivo e sfiancante. C’erano gli animali da portare al pascolo, l’orto da curare – e si sa che l’orto vuole l’uomo morto! – l’erba da falciare nei prati giù del paese, i raccolti invernali delle olive da farsi nel freddo glaciale del primo inverno, la casa da governare, e poi tanti tanti bucati. La scuola non era prevista in queste attività: era considerata una perdita di tempo. Apollonia taceva quando suo marito parlava, come doveva fare una moglie sottomessa, ma parlava forte e chiaro alle sue figlie e, se non capivano subito, le picchiava perché imparassero e, soprattutto, ricordassero. Cristina seguì presto le sorelle al pascolo, imparando a tenere le bestie riunite nello stesso posto come fa un bravo cane da pastore. Nei prati fuori del paese, vicino alla frontiera, vedeva passare strana gente: erano i contrabbandieri che importavano in Italia merci di monopolio, come sale e tabacco, per poi rivenderli giù a valle. Una volta vide anche i gendarmi che li inseguivano e istintivamente provò simpatia per quegli ardimentosi che sfidavano l’ordine costituito. Durante l’estate bisognava stivare il foraggio e non era facile salire per le strette vie di Apricale, veri e propri carruggi, con una gerla colma di fieno. Le donne più anziane, che facevano questo lavoro da tempi immemorabili, avevano i calli alla schiena e Cristina giurò a se stessa che a lei non sarebbe mai capitato. Anzi, per evitarlo, si imbottiva le spalle di cuscini che aveva confezionato lei stessa, non quadrati, ma oblunghi in modo da foderare i duri imbragamenti delle gerle.

    La sua diversità apparve vistosamente verso i nove anni. La sorella più grande si sposò e per l’occasione tutti si vestirono a festa. Durante il banchetto di nozze, in mezzo a un prato con tavoli ricoperti di ghirlande, qualcuno osservò che la sposa sembrava una signora con il bustino che le stringeva la vita. Cristina aveva creduto che quell’aggeggio strano che aveva visto indossare alla sorella fosse una decorazione nuziale, invece si trattava, a quanto pareva, di un capo di abbigliamento femminile molto diffuso. Si informò, fece domande e seppe così che veniva imposto alle bambine di rango fin dalla più tenera età, allo scopo di modellare una vita sottile come un giunco. Le vere signore, anzi, si distinguevano proprio per quello, mentre una popolana avrebbe potuto essere bella come il sole, ma la vita larga avrebbe denunciato implacabilmente il suo basso lignaggio. Cristina decise così di portare il bustino e si impossessò di quello che la sorella aveva portato solo per un giorno. Apollonia gliele diede di santa ragione quando lo scoprì, ma Cristina si impuntò come un ciuco obiettando con molta serietà: Mamma, se io faccio il mio lavoro e ubbidisco sempre, che differenza fa per te se porto il bustino?. Apollonia urlò come un’ossessa chiamando Giovanni a dirimere la questione. È vero, Apollonia. Che te ne importa, in fondo, se la ragazza fa il suo dovere?. Gliele dai tutte vinte! protestò la mamma e sentenziò che se il bustino, per eccesso di strettezza, avesse compromesso le capacità lavorative di Cristina, glielo avrebbe fatto a pezzi. Cristina si impegnò; portava la gerla e pungolava gli animali, raccoglieva l’erba con il forcone e lavava i panni alla fontana, tutto con il bustino che la costringeva a non piegarsi mai. I paesani ridevano al suo passaggio dicendo che aveva ingoiato un manico di scopa. Ma il peggio doveva ancora venire. Quando Cristina entrò nella pubertà si strinse ulteriormente il bustino; era quello il periodo determinante. Al mattino quando andava al lavoro se lo faceva mettere da una sorella fin quasi a soffocare e di notte lo portava più allentato, ma comunque lo teneva. Un giorno d’estate svenne mentre falciava l’erba: il bustino le impediva di respirare. Sua madre lo fece a brandelli con una grande forbice da sarta, mentre Cristina piangeva disperata. Il padre richiamato dalle urla della ragazza, che aveva allora quattordici anni e stava diventando bellissima oltre che longilinea e flessuosa, disse ad Apollonia che quello non era il modo. È piena di grilli per la testa! E tu invece di farglieli passare la incoraggi! gridò Apollonia. Ma non hai capito che Cristina non è come le altre? obiettò Giovanni Forse per lei c’è un altro destino. Incoraggiala un po’ anche tu, invece. Può darsi che qualcosa di buono ce ne venga.

    Quando papà Bellomo predicava, tutti, anzi tutte, si mettevano sull’attenti e quel giorno anche Apollonia dovette eseguire, ma controvoglia. Provava infatti la sensazione che quella figlia non avrebbe combinato niente di buono nella vita e che avrebbe fatto una brutta fine. Per la sua mentalità cercare di uscire dal proprio ambiente e dal proprio ceto era impresa assurda e fallimentare. Ci si doveva rassegnare al proprio stato e al proprio dovere, perché quella era la volontà di Dio e chi cercava di opporsi era un empio e sarebbe finito come si meritava, cioè male. Ma Cristina non era soddisfatta della volontà di Dio, anzi proprio il suo aspetto fisico sembrava quasi un segno palese che nei disegni della Provvidenza qualcosa doveva essere andato storto. Una fanciulla così bella, delicata, fine doveva essere nata per sbaglio in casa di poveri contadini. Forse, commentava qualcuno, ci doveva essere stato un errore di destinazione e magari, proprio nello stesso tempo, in qualche casa patrizia, altri genitori dovevano essere preoccupati per una figlia rozza che non riuscivano a educare. Cristina era nata per altri ambienti, non per Apricale. Tuttavia, se qualcuno si diceva convinto di ciò, molti altri davano ragione ad Apollonia e la compiangevano, povera donna: Cristina era solo una vanitosa e si meritava una bella strigliata per essere condotta alla ragione. Anzi di lì a poco a strigliarla e a toglierle tutte quelle arie ci avrebbe pensato un bel marito, magari

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