La dittatura degli algoritmi. Il dominio della matematica nella vita quotidiana
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Anteprima del libro
La dittatura degli algoritmi. Il dominio della matematica nella vita quotidiana - Antonio Murzio
Prefazione
di Francesco Cancellato
vicedirettore di Fanpage.it
Lo scorso anno, su Facebook, sono stati caricati 2,5 miliardi di contenuti e cliccati 2,7 miliardi di like. A spanne, circa 500 terabyte al giorno di dati freschi. Con quei dati, che sono una minima frazione della massa dei big data, si può predire l’origine etnica, l’orientamento sessuale e l’affiliazione politica con un margine di errore attorno al 10%. Solo con quei dati. Vien da sé, che se a Facebook si aggiunge il resto, il margine di errore tende inevitabilmente a zero. Chi vuole il nostro voto, sa già cosa votiamo, senza nemmeno chiedercelo.
Perdonate l’autocitazione, ma credo sia utile. Ho scritto e pubblicato questo articolo il 15 maggio del 2015. Obama era ancora il presidente degli Stati Uniti D’America. Renzi era saldamente al timone del suo governo. Il Regno Unito era un membro importante dell’Unione Europea. Donald J. Trump non aveva nemmeno deciso di candidarsi alle primarie repubblicane. E se il mondo non sembrava un posto apparentemente tranquillo è perché i terroristi dell’Isis avevano già iniziato a seminare morte per le strade d’Europa, fino a quel momento nella redazione del settimanale satirico parigino «Charlie Hebdo».
Tutto doveva ancora succedere. Ma tutto, a suo modo, stava già accadendo. E non solo perché Alexander Nix, Robert Mercer e Steve Bannon avevano già fondato da un paio d’anni Cambridge Analytica, una startup fondata sull’idea di usare l’analisi dei big data e i test psicografici come strumento di strategia e comunicazione politica. E nemmeno perché questa idea non era che una risposta conservatrice all’enorme vantaggio competitivo che Obama e i democratici fino ad allora sembravano aver accumulato nell’ambito dell’ingegneria del consenso fondata sui dati, arrivando a «rubarci elettori che nemmeno sapevamo di avere», come ammisero sconsolati i consulenti politici di Mitt Romney, dopo le presidenzali del 2012. No, tutto stava già accadendo perché era già tutto lì. Perché tutto era pronto affinché accadesse. Perché avevamo già apparecchiato la tavola, coi nostri dati e con il nostro consenso a chi, grazie a quei dati, sarebbe diventato ricchissimo e potentissimo.
Quando un prodotto è gratis, vuol dire che il prodotto sei tu, recita uno degli aforismi più abusati di questi ultimi anni – e no, nemmeno Google è riuscito a dirmi chi per primo l’ha pronunciato. Però, pensateci bene: quante volte vi eravate imbattuti in un prodotto gratuito, prima del 2008? La tartina di salmone al supermercato, forse. La lattina di una nuova bevanda da provare fuori da un concerto. Le magliette lanciate sotto il palco, prima di un evento. Gratis era una parola che si contrapponeva all’economia di mercato. Che non ne era elemento costitutivo. Tutto ciò che era gratis era fuori mercato. Bene. Ora facciamo un salto in avanti dieci anni. Dei quattro titani del capitalismo del 2019 solo uno, Apple, offre prodotti a pagamento. Gli altri tre, Google, Facebook e Amazon, offrono servizi completamente gratuiti: non costa nulla cercare qualcosa su Google, o guardare un video su YouTube, né usare il navigatore satellitare di Google Maps, né aprire un account su Gmail. Non costa nulla iscriversi a Facebook, o modificare le proprie foto con Instagram, o chattare coi propri amici su Whatsapp. E non costa nulla nemmeno comprare o vendere qualcosa su Amazon. E a ben vedere non costano nulla nemmeno milioni di app che potete scaricare sul vostro telefono, un’economia resa possibile dal fatto che Apple, azienda che aveva costruito la propria differenza sui suoi sistemi chiusi, ha reso disponibile il codice sorgente del proprio smartphone, a uso e consumo di chi volesse realizzare un app. Gratis.
Eppure, sorpresa, Google LLC, nel 2018, ha fatturato 137 miliardi di dollari, con un utile netto di 30 miliardi. Provate a rispondere a questa domanda, se ci riuscite: come ha fatto? Tutto quel che conosci di Google è gratis, al netto di qualche servizio premium o degli assistenti domestici. Dove diavolo ha fatto quei soldi, Google? E dove li fa, Facebook, i suoi 40 miliardi di fatturato e i suoi 20 miliardi di utile netto, se apparentemente non ci vende nulla?
Altro giro altra corsa. Il dio dell’amore non si chiama più Cupido, bensì Elo. E non è un angioletto con arco e frecce. L’hanno inventato gli ingegneri informatici di Tinder, l’app di dating per eccellenza, usata in 196 Paesi al mondo, 26 milioni di potenziali coppie create ogni giorno. A scoprire la sua esistenza è stato il giornalista Austin Carr di Fast Company e scrive, già dal titolo dell’articolo, che vorrebbe non averlo mai fatto. Spiegare come funziona? Praticamente impossibile: «vast voting system», dicono gli ingegneri interpellati, un ampio sistema di voto. E alla fine un numero, la propria posizione nella classifica della bellezza: che per Carr è 946, «un po’ sopra la media». Quel che è interessante, tuttavia, è l’uso che Tinder fa di quell’algoritmo: proporre partner belli ai belli, brutti ai brutti. Intendiamoci, lo fa a fin di bene: Elo non è un esperimento eugenetico. Nei fatti, è stato semplicemente creato per non farci perdere tempo, e buona parte del tempo che perdiamo, in amore, lo perdiamo a coltivare l’illusione di afferrare l’inafferrabile.
Elo è stato recentemente abbandonato da Tinder, a causa delle critiche degli utenti. Almeno, Tinder ha detto che l’avrebbe abbandonato, senza fornire molti dettagli sul nuovo metodo utilizzato: «Non possiamo rivelare tutta la nostra salsa segreta», ha scritto la stessa Tinder sul suo blog, il 15 marzo del 2019. Ecco: la salsa segreta si chiama algoritmo, ed è la formula magica con cui sono elaborate le masse di dati che vengono raccolti, per renderli commerciabili, e anche solo banalmente utili. Il dato e l’algoritmo sono l’alfa e l’omega della nuova economia, quella dei 30 miliardi di utile di Google e dei 20 miliardi di utile di Facebook, quella in cui i due giganti della Silicon Valley sono riusciti, da soli, a prendersi nel giro di un decennio il 30% del mercato mondiale della pubblicità. Se il dato è il nuovo petrolio, l’algoritmo è la raffineria che trasforma il dato in benzina. Per fare soldi, insomma, c’è bisogno di un mare di dati e di un algoritmo che li sappia elaborare. Google e Facebook, evidentemente, sono le aziende che hanno il maggior numero di dati e gli algoritmi migliori per elaborarli.
Ci basta, come risposta? No, non basta. Alla ricetta manca un ingrediente: noi. Ed è di noi che parla il libro che avete per le mani. Un libro in cui Antonio Murzio e Chiara Spallino partono dall’inizio, da un correttore di bozze che cambia paper
in papero
per raccontarci come l’economia dei dati abbia cambiato la nostra vita in modi che nemmeno immaginiamo, nelle nostre piccole scelte di ogni giorno, dal modo in cui scegliamo un ristorante a quello attraverso cui leggiamo una notizia, sino a come scegliamo di vestirci e alle parole che usiamo. Parlano di noi, Murzio e Spallino, perché ci raccontano i processi – volontari, quando inconsapevoli – attraverso cui siamo entrati in un mondo nuovo, fatto di prodotti gratuiti, di dati come controvalore economico, di algoritmi che scelgono per noi. Un mondo da cui oggi non riusciremmo a uscire neanche se volessimo, a patto di non perdere un mare di tempo e di pagare lo scotto dell’irrilevanza sociale.
Si fermano al racconto lieve delle piccole cose, Murzio e Spallino, con garbo, chiarezza e la giusta dose di ironia. Lasciando a noi la domanda finale: qual è il prezzo di tutto questo? Una piccola risposta a questa domanda l’abbiamo avuta qualche mese fa, quando abbiamo scoperto che i