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Sonosuono
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E-book208 pagine2 ore

Sonosuono

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Info su questo ebook

È sufficiente sostituire la parola musica con la parola vita, nella narrazione che ti ha portato fin qui, per diventare finalmente il suono che sei sempre stato. Scoprirai che la buca più grande in cui sei caduto, sei proprio tu." * Andrea è un giovane chitarrista dalla brillante carriera ma in crisi con l'idea di musica che ha visto trasformarsi negli anni, tra mestiere e vocazione. Si imbatte un giorno nel sito web che vende Ritratti Sonori, e incuriosito dalla suggestiva connessione tra suono e identità, contatta l'autore scoprendo che si tratta di un famoso pianista caduto in disgrazia. Questi lo prenderà come suo allievo, proponendogli un esercizio di ascolto che lo accompagnerà in un viaggio nella musica e nelle sue mille alterazioni in chiave, tra amori appassionati, concerti incredibili e incredibili fallimenti, manager e spie russe, alla ricerca di quel "suono" nascosto nel troppo rumore di fondo. Rumore che a volte chiamava musica, a volte vita. Ma cos'è, in fondo, che chiamava musica? Un viaggio scandito dai brani di una suggestiva playlist alla ricerca di quel suono che non è passione del fare, ma dell'essere. Come l'amore.
LinguaItaliano
Data di uscita12 apr 2022
ISBN9791221401219
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    Anteprima del libro

    Sonosuono - Matteo Cimenti

    4’33’’

    Cosa cerchi, allora: l’uomo o la musica?

    Non ricordo se gli avevo risposto, alla fine. Ma del resto, non ricordo tante altre cose. Non ricordo nemmeno perché sono qui, adesso. Ma devo in qualche modo ricordare, prima di salire su quel palco. Il suonare stesso, in fondo, è un ricordare. E ricordare è un riascoltare le tante melodie che abbiamo fermato su quella partitura a più voci che sembra essere la nostra vita.

    È questo, forse, il compito più ingrato del musicista: distillare in poche note tutta la vita che gli ha attraversato il cuore, per scivolargli poi sotto le dita.

    Io tra le dita ho poco più di uno spartito, che inizia con il link a un maledetto sito web e finisce su questo palcoscenico. Un palcoscenico importante, per una serata importante. Chissà cosa direbbe il mio Maestro, vedendomi sul cartellone del Primo Teatro della Capitale. C’è una grande eccitazione attorno all’evento, a giudicare dal battage pubblicitario che l’ha accompagnato e dal vociare dei tanti che riempiono il corridoio, appena dietro la porta del camerino. Ho già avvertito lo steward di farli stare zitti, ma a quanto pare non è servito a niente. Le risate e gli intercalari ad alta voce si accavallano ai sussurri che tentano invano di abbassare i toni. Ogni tanto un’imprecazione di voce maschile, ben definita, ammonisce le intemperanze di quelle più acute e stridule. Ce n’è una in particolare che mi si conficca proprio tra le meningi, come un chiodo. Anche quando bisbiglia. Mi chiedo quale forma corporea possa emettere una frequenza così irritante. Per fortuna la voce dello steward, che attraversa su e giù il corridoio a intervalli regolari, appare e svanisce come una carezza sulle mie orecchie ipersensibili. Ma non c’è solo il vociare concitato dietro la porta, a deconcentrarmi. La stanza stessa sembra piena di rumori: il frusciare del ventilatore, lo scalpiccio degli stivali che non riesco a tenere fermi, la goccia del lavandino in bagno che cresce a dismisura nel mio piccolo cervello fino a diventare una cascata fragorosa. Il ticchettio inesorabile dell’orologio appeso al muro, sopra lo specchio, che scandisce i minuti che mi separano dall’apertura del sipario.

    Sembra tutta una congiura di bisbigli, sfrigolii, scalpiccii e tonfi e rimbombi per impedirmi di ricordare. Un rumore di fondo che disturba la mia concentrazione, come l’ansia che mi stringe la gola. So che mi sto giocando il tutto per tutto, questa sera, dopo le vertigini e i tonfi di una carriera altalenante, ma non so ancora il perché. Per prima cosa, devo mettere fine a questa cacofonia senza senso.

    Prendo in mano lo smartphone che tengo appoggiato sulle ginocchia, ignoro la miriade di notifiche che lampeggiano sullo schermo e carico la playlist con i brani e la musica di una vita, nella speranza che un suono coerente possa evocare le immagini che faccio fatica a trattenere e a mettere in fila.

    Schiaccio le grandi cuffie sulle orecchie, favorendo un effetto ventosa, premo play e chiudo gli occhi. Immediatamente vengo inghiottito da un silenzio ovattato che attrae a sé ogni altra frequenza.

    È un crescendo di organo in Re minore, adesso, che mi riporta finalmente al primo gennaio del xxxx, quando tutto è incominciato.

    CAREFUL WITH THAT AXE, EUGENE

    Stavo passeggiando nel parco dietro casa, nel cuore della Grande Città, in una tipica mattina di Capodanno. Il sole ammorbidiva i prati che sfiatavano vapori sottili sopra i fili d’erba, così come gli abitanti della città - immaginavo - i bagordi delle feste. Chi il troppo cibo, chi l’alcol, chi la polverina. Ciascuno impegnato a smaltire l’eccesso della sostanza che più lo completava.

    Io, per conto mio, cercavo di smaltire il peso di un ipotetico futuro.

    Credo capiti a molti, il primo giorno dell’anno. È il giorno in cui si tirano le somme e si compilano le liste dei buoni propositi per l’anno nuovo. A destra il fatto, a sinistra il da fare. E di cose fatte, al mio ventisettesimo anno di età, ce n'erano a sufficienza. Per quanto riguarda le cose da fare, si potevano riassumere in tre parole: fare il musicista.

    Da quando mio padre mi aveva regalato una chitarra, quattordici anni prima, avevo imbracciato non solo uno strumento ma una ragione di vita. E con lei un destino. Che col passare degli anni aveva assunto una sfumatura meno romantica, dopo gli iniziali sogni di gloria e le aspettative di successo. Per carità, non che avessi voluto diventare una rock star, ma almeno imparare a suonare bene lo strumento, questo sì, per rendere omaggio ad un altra divinità oltre alla Gloria: la Musica. Così mi ero riempito le tasche di certificati e attestazioni di merito tra Conservatori, Master Class e clinics nelle prestigiose scuole del Nord Europa.

    Avevo compiuto il mio dovere, quindi, e potevo ritenermi soddisfatto. Se non fosse che dovevo confrontarmi con un’altra idea di musica, a quel punto.

    Vuoi per colpa delle nuove tecnologie, vuoi per l’usura del tempo, la musica era diventata un oggetto di consumo come tanti altri. Cibo che andava digerito in fretta e senza troppo impegno. Forse perché si era spostato il baricentro dell’attenzione, negli anni, così come il rispetto del pubblico; o forse perché eravamo in tanti a piantare note in un terreno già abbondantemente coltivato. Sta di fatto che il suono aveva un altro sapore, meno bio se vogliamo, e più di qualcuno pativa addirittura la fame.

    Come Aldo, per esempio, un vecchio amico con cui avevo diviso il palco la sera prima. Soprannominato la Voce, non aveva fatto altro che lamentarsi dei miseri ingaggi che ormai era costretto ad accettare. Frustrazione che però non gli aveva impedito di darsi al pubblico con tutto se stesso. Anche se con qualche capello bianco in più, tra i folti ricci da corsaro, rimaneva pur sempre un vero animale da palcoscenico. Con un naso grande e appuntito, come il suo carattere.

    Chi non si era invece lamentato di nulla, era stato Filippo, virtuoso bassista con la faccia da bravo ragazzo e i baffetti alla moda. Asso di Spade, a trentatré anni, aveva già fatto tutto quello che si poteva fare e nel migliore dei modi: liceo classico col massimo dei voti, poi gli anni nella City, dove come bassista dei Custed aveva fidelizzato un’infinità di ragazzine. Quindi la laurea con lode in Giurisprudenza e l’ingaggio come manager per una multinazionale americana. Un tipo a posto, per carità, ma uno che involontariamente ti sbatte in faccia l’evidenza del talento che va oltre lo studio o la fottuta dedizione.

    Stavo pensando a loro, mentre attraversavo il prato cosparso di foglie secche annerite dal gelo, e al concerto. Pensavo soprattutto a quella strana sensazione di estraneità che avevo provato guardando la gente che saltava sotto il palco. Non era la prima volta che accadeva, nell’ultimo periodo. La sensazione che le dita che si muovevano sul manico della chitarra fossero quelle di un altro. Un altro la cui musica suonava distante, e sostanzialmente falsa.

    Per scacciare quel ricordo molesto, avevo deciso di tornare a casa con l’idea di farmi una cioccolata densa e bollente. Convinto anche dal vento gelido che aveva iniziato a soffiare da nord, lungo il sentiero che costeggiava la macchia di ippocastani giganti che portava all’uscita del parco.

    Stavo accelerando il passo quando la notifica di una mail in arrivo aveva attirato la mia attenzione. Avevo rallentato, per guardare il display. L’indirizzo mi era sconosciuto, così come il nome della sedicente cantante che aveva firmato un messaggio a dir poco stravagante: Cari colleghi, vi inoltro il link di un sito che ho scoperto per caso. Potrebbe essere interessante per chi è stanco della solita musica.

    Mi ero fermato di colpo, sorpreso dall’incredibile coincidenza tra il contenuto della mail e il mio stato d’animo. Ci avevo subito cliccato sopra, fermandomi in mezzo al viale con la testa china sul cellulare.

    Il sito si presentava scarno e davvero poco invitante. Era un sito autogestito, probabilmente da un dilettante. Il banner consisteva in una semplice scritta nera su sfondo bianco, Music Tattoo, e un viso di profilo dalla cui nuca fuoriuscivano tante note che si disperdevano negli interstizi non scritti della homepage.

    Se sei stufo di suonare note a caso, se vuoi ascoltare una musica diversa e che sia davvero tua, sei venuto nel posto giusto c’era scritto. Più sotto, in un piccolo riquadro, lampeggiava la dicitura in grassetto: Ciascuno di noi ha un suono: io so come trovare il tuo.

    Tutto qui. Per saperne di più bisognava contattare telefonicamente l’Ascoltatore, come riportato nella pagina di presentazione nella quale vantava ottime referenze come pianista ma al riparo di un sospetto anonimato.

    Speravo di scoprire il segreto che non aveva il coraggio di mostrare, bazzicando sui social una volta arrivato a casa, ma un’altra notifica aveva stravolto le priorità della giornata: da Pino, ore 18.

    La sera di San Silvestro, infatti, oltre ai miei vecchi amici avevo incontrato anche una bellissima ragazza: Carmen Rossi. Una che sa esattamente chi è.

    Una che suona come il fischio di un treno che entra in galleria a tutta velocità.

    ODD POETRY

    Una settimana dopo, a causa del ben noto fenomeno della trasmigrazione delle coperte, la mia metà del letto era scivolata sulla metà di lei. Il freddo pungente mi aveva così avvertito che la settimana stava per ricominciare, in quel lunedì che si preannunciava nero come il cielo che premeva sulle grandi finestre del salotto.

    Mi ero sollevato sui gomiti, ancora assonnato, per guardarmi attorno. Era come se la vedessi per la prima volta, la mia Tana. Un miniappartamento di sessanta metri quadri in zona centrale, al terzo piano, open space. Rientrava perfettamente nel cliché dell’artista: grande salotto-cucina, divano in pelle vintage, muri in mattone rosso a vista e un soppalco in tubi di metallo come camera da letto. Tutto molto factory style.

    Accanto a me Carmen dormiva profondamente, con i lunghi capelli dorati sparsi sul cuscino color malva e il leggero tremolio delle labbra carnose. Ci eravamo visti spesso, dopo il primo appuntamento, e ci eravamo subito piaciuti. Per una qualche strana alchimia olfattiva che più degli sguardi aveva guidato le nostre emozioni. O forse perché condividevamo le stesse radici, venendo entrambi dal Paesello, una piccola cittadina ai piedi delle montagne che si stagliavano all’orizzonte della Grande Città.

    Sta di fatto che nell’arco di una settimana avevamo bruciato le tappe. Da un innocuo aperitivo a un intero week end chiusi nella Tana, ad esplorare l’intimità dei corpi e le poche sincerità che scappavano tra una risata e l’altra.

    Quando le avevo accarezzato la guancia per svegliarla, lei si era stiracchiata rumorosamente arricciando il piccolo nasetto all’insù.

    «Buongiorno.» Mi aveva baciato, strizzando i grandi occhi color del mare. L’inclinazione dolce del suo sguardo era durata per un attimo, subito rimpiazzata da una linea retta ben più idonea al suo carattere. Che non era dolce, ma determinato. Infatti era balzata fuori dal letto, trascinandosi dietro il lenzuolo per coprire il suo corpo morbido e sensuale mentre scendeva di sotto per prepararsi. La sentivo borbottare ogni tanto, nell’andirivieni tra il bagno e il salotto.

    «Oggi sarà una giornata campale. Devo, e sottolineo devo, chiudere quel contratto prima di sera.»

    Carmen lavorava per un importante studio di commercialisti del centro città.

    «Mi piacerebbe poter fare la tua vita, sai? Voi artisti… Invidio soprattutto i vostri lunedì mattina».

    Era la cosa più carina che poteva dirmi in quel momento. Da quel poco che avevo intuito, Carmen non possedeva alcuna sensibilità lunare. Degli artisti probabilmente amava solo il successo e il prestigio di rimando. Dopo aver infilato il tailleur blu scuro che le fasciava perfettamente i fianchi, mi aveva salutato con un bacio da lontano ed era uscita come il soffio di vento che aveva raffreddato la stanza.

    Io ero sceso subito dopo, ma con ben altro ritmo. C’era un'altra cosa che attirava il mio interesse quel giorno: il sito internet Music Tattoo. Avevo scorrazzato in lungo e in largo, nello space, alla ricerca di qualche informazione. E meno ne trovavo, maggiore era la mia curiosità. Perché l’idea di scoprire il proprio suono era da sempre il Santo Graal di ogni musicista. Rappresentava il fine più alto della musica, il traguardo più difficile da raggiungere. La possibilità poi di trovare quello degli altri, in veste di consulente, poteva essere davvero un’idea originale e in linea con i tempi. Tempi in cui bisognava inventarsi un lavoro, più che cercarlo.

    Ma non avevo scovato nient’altro che un numero di telefono e la conferma che la consulenza era a pagamento.

    Così, dopo aver fatto una abbondante colazione con frutta, tè e gli avanzi del pandoro di una settimana prima, mi ero deciso a chiamare. Dopo una ventina di squilli mi aveva risposto una voce maschile, ricca di sfumature sulle basse frequenze. Dapprima sospettoso che fossi uno dei tanti curiosi perditempo, poi rassicurato dal fatto che fossi un professionista, mi aveva spiegato candidamente in cosa consisteva la sua proposta: come i pittori del ‘500, creava Ritratti Sonori personalizzati su richiesta.

    A quelle parole avevo avuto un sussulto, credendo di essere capitato nelle mani di un altro paraguru in cerca di polli da spennare, ma lui mi aveva descritto così accuratamente la procedura

    - piuttosto articolata, tra mp3 e questionari da scambiarci online

    - da sembrare quasi plausibile.

    «Quindi lei crede di poter trovare il mio suono, senza nemmeno conoscermi? Sembra un po’ presuntuoso, ma potrebbe interessarmi come cosa. Però vorrei incontrarla di persona, prima di tirare fuori i soldi. Per ricambiare la serietà che si aspetta da me, intendo.»

    Volevo poterlo guardare bene in faccia, per capire quanto e se potessi fidarmi di un tipo così. Lui dopo un attimo di esitazione, aveva accettato.

    «Va bene. Ci possiamo incontrare questo mercoledì al Bar, quello in via Lennon. Lo conosci? Ok. Ci vediamo là, alle diciotto.» E aveva aggiunto, tradendo un sorriso che potevo solo immaginare: «Portati un libro, per farti riconoscere. Sicuramente sarai l’unico.»

    Una risata limpida e vigorosa aveva fatto gracchiare le casse audio del telefono che tenevo in mano.

    RED SHOES BY THE DRUGSTORE

    Il Bar era il locale più anonimo della città, come si poteva già intuire dalla scelta del nome, a creatività zero. Non voleva identificarsi con una clientela o con un particolare tipo di servizio. Ci potevi

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