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Storie di confine: Le altre vittime di Caporetto
Storie di confine: Le altre vittime di Caporetto
Storie di confine: Le altre vittime di Caporetto
E-book601 pagine8 ore

Storie di confine: Le altre vittime di Caporetto

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Info su questo ebook

Dopo la sconfitta di Caporetto, l’esercito austrotedesco dilagò nella pianura veneta e compì razzie e violenze.
Molte donne ne furono vittime.
Da questo fatto nasce il romanzo che racconta anche la generosità di due personaggi importanti dell’epoca: Celso Costantini, che ebbe l’idea di raccogliere i figli della guerra in un istituto e Elena d’Aosta che ne fu una importante benefattrice.
LinguaItaliano
Data di uscita8 ott 2022
ISBN9788866604228
Storie di confine: Le altre vittime di Caporetto

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    Anteprima del libro

    Storie di confine - Ivana Tomasetti

    Tavola dei Contenuti (TOC)

    Copertina

    PRIMO CAPITOLO

    Guerrino

    SECONDO CAPITOLO

    Oreste

    TERZO CAPITOLO

    Oreste

    QUARTO CAPITOLO

    Guerrino

    QUINTO CAPITOLO

    Speranza

    SESTO CAPITOLO

    Maria

    SETTIMO CAPITOLO

    Speranza

    OTTAVO CAPITOLO

    Maria

    NONO CAPITOLO

    Speranza

    DECIMO CAPITOLO

    Maria

    UNDICESIMO CAPITOLO

    Maria

    DODICESIMO CAPITOLO

    Luigi

    TREDICESIMO CAPITOLO

    Maria

    QUATTORDICESIMO CAPITOLO

    Luigi

    QUINDICESIMO CAPITOLO

    Oreste

    SEDICESIMO CAPITOLO

    Maria

    DICIASSETTESIMO CAPITOLO

    Guerrino

    EPILOGO

    AVVENIMENTI STORICI

    cover.jpg

    Un romanzo storico di

    Ivana Tomasetti

    S T O R I E

    D I

    img1.png

    CONFINE

    LE ALTRE VITTIME DI CAPORETTO

    ISBN versione digitale

    978-88-6660-422-8

    STORIE DI CONFINE

    LE ALTRE VITTIME DI CAPORETTO

    Autore: Ivana Tomasetti

    © CIESSE Edizioni

    www.ciesseedizioni.it

    info@ciesseedizioni.it - ciessedizioni@pec.it

    I Edizione stampata nel mese di ottobre 2022

    Impostazione grafica e progetto copertina: © CIESSE Edizioni

    Immagine di copertina: Licenza Creative Commons CC0

    (libero uso commerciale, attribuzione non richiesta)

    img2.png

    Collana: LE NOSTRE GUERRE

    Editing a cura di: Giulia Pretta

    Direttore di Collana: Silvia Pascale

    Consulente storico-scientifico di Collana: Orlando Materassi

    Editore e Direttore Editoriale: Carlo Santi

    PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA

    Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione dell’opera, anche parziale, pertanto nessuno stralcio di questa pubblicazione potrà essere riprodotto, distribuito o trasmesso in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo senza che l'Editore abbia prestato preventivamente il consenso.

    Questa è un’opera di fantasia, seppur basata su fatti storici. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in maniera fittizia. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.

    Canto delle donne

    Io canto le donne prevaricate dai bruti

    La loro sana bellezza, la loro non follia

    Il canto di Giulia io canto riversa su un letto

    La cantilena dei salmi, delle anime mangiate

    Alda Merini

    In ogni gruppo umano esiste una vittima predestinata:

    uno che porta pena,

    che tutti deridono,

    su cui nascono dicerie insulse e malevole,

    su cui, con misteriosa concordia,

    tutti scaricano i loro mali umori e il loro desiderio di nuocere.

    Primo Levi

    PRIMO CAPITOLO

    Guerrino

    Gli avevano detto che era stato uno dei primi. Cosa significasse, lui non lo sapeva. Porre domande era uno sforzo che non era ancora abituato a fare, dalle sue parole sembrava passare sofferenza, poteva essere frenata dal silenzio che non muoveva l’aria, che non agitava il pensiero, che non entrava sotto la pelle.

    Il silenzio era piatto come un cielo che non infonde speranze. Quello che conosceva gli sfuggiva dalla mente, diventava spazio intorno ai suoi occhi; non aveva sperimentato altra realtà, non poteva fare confronti. Da che aveva memoria ricordava puntini sopra un grembiule celeste, scarpe grosse di polvere dove stavano i piedi, liberi solo col caldo, la luce accecante del pomeriggio.

    Fuori dalla casa grande, una scala di tre gradini portava a uno spiazzo. C’era una rete che racchiudeva le galline, gli piaceva osservarne una bianca, una specie di crestina rossa, lo sguardo di traverso, una zampa sollevata. Se si avvicinava, l’animale lo guardava e gli sembrava di avere i suoi stessi pensieri, lei chiusa dentro una rete di ferro leggero che diceva di qui non potrai uscire, lui con una recinzione che diceva io ti proteggo. Cosa c’era fuori? Non lo sapeva, ne aveva paura. Le strade non le conosceva, la gente non parlava. Nulla di interessante, nulla di vivibile; un filo d’erba bastava all’animale, e a lui doveva bastare il suo colletto. Doveva stare attento. Il becco era duro e rigido anche se le piume erano morbide. Il dolore sarebbe arrivato se avesse esposto il dito troppo oltre, ognuno aveva il suo territorio: fuori, il suo, dentro, il pollaio e la gallina.

    La suora entrava a raccogliere le uova con dei manicotti che proteggevano. Non aveva paura dei becchi coriacei, erano le galline ad aver paura di lei. Le galline e il gallo stesso fuggivano se il passo della donna era fremente, se dondolava troppo la gonna nera o se il gesto era impaziente. Arrivavano quando le chiamava mostrando il pastone. La mano si allargava e dove le zampe passeggiavano, lì beccavano il cibo.

    I bambini non mangiavano per terra, erano più fortunati, ma dovevano consumare ciò che riempiva il piatto dicendo grazie. Alle volte erano solo patate. Avrebbe preferito forse essere una gallina, chissà se avrebbe avuto lo stomaco pieno. Nessuno le rimproverava, le zampe forti fuggivano senza farsi raggiungere. Nessuno gli avrebbe tirato il collo, servivano per le uova. I minuti passavano, il tempo dell’aria era finito.

    «Guerrino!»

    Doveva voltarsi di scatto e lui faceva apposta a dare prova di lentezza. Aspettò di essere chiamato due volte, se si fosse arrabbiata sarebbe stato contento. Aveva deciso di ricambiare quel che riceveva. Era cresciuto in fretta anche se lui non se lo ricordava. Nessuno gli parlava di ricordi. Chi era lui? Da dove veniva? Tutti lì dentro avevano un passato diverso dagli altri, sapevano di non essere uguali, non comprendevano perché. Non si somigliavano, ma avevano gli stessi vestiti. Qualcuno con gli occhi chiari e i capelli biondi, altri dalla carnagione scura come gli occhi della gallina e le mani diverse, che la magrezza e lo sporco di terra rendevano uguali.

    Aveva cominciato a pensare da poco. Quando veniva punito ora si ricordava. Non era sempre d’accordo. La linea diceva che dovevano essere riconoscenti, loro erano poveri, sostenuti da chi aveva pietà e portava i denari per il cibo, le calze, le scarpe. Gli abiti mostravano tempo trascorso su altri bambini, altre vite vissute prima di coprire la loro pelle, il cibo era in grandi sacchi che arrivavano sui camion e che erano costretti a mangiare per placare la fame.

    Le suore discorrevano di guerra, era passata dalla pianura e ora aveva trovato la sua fine nel cielo sopra di loro, diventato finalmente celeste, nel silenzio delle notti che coprivano il buio di stelle. Si guardava le unghie e sentiva che crescevano lungo le dita, diventando pezzi da tagliare. Conosceva lo specchio che era nell’entrata e vedeva i suoi capelli chiari, gli occhi celesti. Le donne erano brune, le suore allegre per quel tanto che potevano fingere, specie quando arrivavano ospiti di riguardo. Erano i benefattori, quelli a cui si aggrappava la loro vita di bambini.

    Lui tutte queste cose le sapeva, gli facevano rabbia. Si chiedeva perché il destino lo avesse costretto a restare lì dentro in una vita piena di obbedienza. Nella camerata i maschi erano divisi dalle femmine, compivano un altro percorso. Quando l’occhio vigile non osservava, le monellerie prudevano le mani. Sentiva bruciare sulla sua pelle l’ingiustizia, specialmente quando vedeva l’errore diventare intransigenza. Aveva passato il tempo della prima comunione. I peccati erano diventati sensibili, gli altri li indovinavano prima che lui li sapesse. Prima che se ne rendesse conto, era diventato un peccatore, doveva sentirsi in colpa, qualcosa aveva fatto, cosa?

    Buchi tra il legno delle latrine cominciavano a essere allegri e sottintesi, le gambe sapevano di dovere fare in fretta, gli occhi vedevano l’immagine che era nelle loro menti. Avrebbero assaggiato il bastone, ma intanto il riso era sulle loro teste, nei loro occhi che vedevano brandelli di pelle senza significato. Come quando il gallo beccava forte la testa alla gallina bianca. Lei si divincolava, diventava furente di grida e di slanci, ma non c’era niente da fare, lui la sottometteva e i suoi artigli vincevano la ribellione. La natura era violenta, la guerra aveva lasciato i suoi frutti di devastazione e di povertà a opera degli uomini. Doveva diventare anche lui allo stesso modo? Non lo sapeva, seguiva il suo istinto come un cavallo che sente la briglia e non è contento.

    «Guerrino!»

    Ecco, era la seconda. Si decise a muoversi. La gallina lo guardò, gli disse arrivederci. Era la cena. Si mangiava sempre all’istituto. Le cucine erano grandi. Entrarono a file ordinate.

    «Silenzio.»

    La preghiera diceva che presto avrebbero mangiato nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Ma la pazienza doveva essere sperimentata per intero, rispondere con voce tonante alle preghiere, fare i segni composti, alzarsi, sedersi. Il discorso fu pieno di ringraziamenti, i benefattori dovevano essere ricordati. I bambini dovevano sapere che il loro sguardo dipendeva dalle mani degli altri, da quelli che portavano i sacchi di vestiti, di cibo. La guerra era finita, per loro non ancora. I poveri restavano tali per lungo tempo, per tutto il corso della vita, aggrappandosi alla situazione che li circondava.

    C’era anche una suora il cui sguardo poteva accarezzare gli occhi e la mente. Erano i momenti in cui il gioco diventava spensieratezza e sorriso. Il girotondo fingeva di sentirli uniti e contenti, giravano dentro una speranza che essi stessi non sapevano di avere, che non avrebbero difeso, perché non la possedevano fino in fondo. Era un attimo che si confondeva tra la paura del buio, tra la scelta di genitori che venivano a cercare una testolina bionda o mora, i riccioli più simili all’angelo della loro stessa infanzia. Un bambino da amare che non era il loro. E le suorine li lavavano e li mettevano ordinati in fila, come merce di scambio, senza che sapessero cosa stava succedendo. Solo i più grandicelli, come lui ora, potevano sussurrare il destino di chi veniva scelto, di chi avrebbe lasciato presto il camerone dove dormivano, la sala mensa dove mangiavano, dove le carezze erano rade e gli sguardi di tutti, senza preferenze. Io sono grande, nessuno vorrà prendermi in una famiglia.

    Che cos’era una famiglia?

    Una madre, un padre, un uomo, una donna, un figlio che avrebbe avuto la loro attenzione ogni giorno, ogni momento. Sconosciuti. Forse era troppo, per lui. La briglia al collo poteva essere allentata, il cielo guardato con libertà consapevole, senza essere figlio di nessuno, di genitori acquisiti, che avrebbero potuto farne un piccolo schiavo, dentro un affetto, sì, ma circondato da una corda che lo avrebbe tenuto fisso come e più di un comando di suore. Qualcuno era già ritornato.

    «Cosa è successo?»

    «Mi facevano lavorare nei campi, se non obbedivo, mi battevano, non mi davano la cena… Sono contento di essere ritornato.»

    «Anche noi di rivederti.»

    La solitudine bagnava il letto molto spesso. Suor Antonietta non diceva niente, se qualcun'altra si accorgeva erano rimproveri, le lenzuola dovevano essere lavate, il materasso esposto, era una vergogna. Allora la sera si ricordava di non bere, cercava di andare in bagno il più tardi possibile, si diceva speriamo. Non voleva sentire le risatine dei compagni, il puzzo della sua urina. Qualche volta ci riusciva. Suor Antonietta gli aveva procurato un vaso da notte, lo teneva sotto il letto.

    «Se ti svegli, fai la pipì qui, anche se non ti scappa, ricordati…»

    Allora quella notte scostò le lenzuola nella penombra. Credette che i suoi compagni dormissero, qualcuno russava o parlava nel sonno. La notte allentava le coperture della mente, che metteva a nudo le sofferenze dell’anima. Si nascose accucciandosi sopra il vaso, come fosse una femmina. Alle volte le aveva viste rintanarsi dietro i cespugli e poi riemergere aggiustandosi la gonna. Lui era disinteressato, a quel tempo.

    Il vaso era vuoto e la pipì si mise a canterellare, nel silenzio della camerata che dormiva. Il timore del suono inatteso e non familiare fece rizzare sul letto qualcuno.

    «Suora, aiuto! Che sta succedendo? I topi!»

    Una luce si accese in fondo, arrivò l’ombra che poteva salvare, ma solo uno alla volta.

    «Ssst, dormite, non c’è nessuno. Non ci sono topi.»

    Il pianto cessò tra le coperte. Guerrino era ancora accucciato. Non avrebbe bagnato il letto. Il suo vicino aprì gli occhi.

    «Che stai facendo?»

    «Niente, dormi!»

    Nascose il vaso sotto il letto.

    Al mattino la domanda riemerse.

    «Tu non me la racconti giusta!»

    Il riso di Carlo era diverso, era sorto qualche volta, ma aveva anche lui qualche punto debole. Odiava il latte e doveva berlo lo stesso. Qualche volta l’aveva bevuto al suo posto.

    «È un segreto…»

    Gli occhi si allargarono, mentre il sapone correva sulla pelle e la suora tuonava.

    «Svelti, non chiacchierate! Oggi, giorno di festa!»

    «Cosa intendi?»

    La voce divenne un filo, le teste furono vicine sotto l’indifferenza del vocio degli altri.

    «Suor Antonietta mi ha dato un vaso da notte!»

    La notizia era troppo stuzzicante. Rise anche lui.

    «Sì, così non faccio la pipì a letto, la faccio nel vaso, ma non devi dirlo a nessuno! È un segreto!»

    «Ah, ecco il rumore! Era la tua pipì!»

    Si diedero una gomitata, guardandosi al di sopra del sapone.

    «Se lo dici a qualcuno, ti…»

    «Manterrò il segreto! Se tu berrai il mio latte!»

    «D’accordo!»

    Piano piano il vizio gli passò, scattò il gradino dell’essere più grande. La suora chiamava, chiamava. Veniva a controllare se si erano lavati le orecchie.

    «Oggi arriverà un’autorità, dobbiamo fare bella figura!»

    Si scambiarono uno sguardo furbesco. Cosa gliene importava a loro. O forse sì.

    «Ci sarà il dolce…»

    Impettiti, indossarono i loro abiti puliti, le maglie aderenti fatte a mano chissà da quali mani, dicevano di provenire di lontano e sopra una giacca per tutti, pantaloni stirati. I colori grigi e marroni ricordavano il pelo delle capre che da poco erano arrivate nella stalla bassa, nei pressi del pollaio. L’aria diventava elettrica, le mani delle suore sfioravano pesantemente, tenevano in fila senza tentennamenti. Si davano la mano: davanti loro, i maschi, dietro le femmine con le trecce annodate strette, che sembravano far male. Dal cancello di ferro lontano dai pensieri dei bambini, le ruote di gomma liscia si mossero verso il piazzale. Schierati, tutti dovevano cantare, il coro si levò alto, la patria chiamava a essere lodata.

    Furono contenti di sapere che il lavoro non era stato per nulla. I bambini non erano scheletrici, potevano dirsi sani e ben pettinati. La donna dal cappello nero che finiva in un velo fino a metà schiena portava pensieri di serietà e di impegno, teneva imprigionati gli sguardi, il viso lungo e austero tirava in un sorriso solo quando parlava o imprigionava gli occhi di tenerezza inconsapevole. Ascoltò la musica, accettò i fiori che le venivano offerti, osservò il lustro delle camerate, il bianco delle pareti. La tristezza rimase nelle mani dei piccoli ospiti, curiosi di sapere cosa sarebbe accaduto.

    Ma non successe nulla. Lei passò per i tavoli a lodare, restando nell’aria sopra le loro teste, sopra i loro cucchiai. Ascoltarono il suo profumo che sapeva di saponi e di talco, i tacchi batterono sul pavimento come quelli delle suore quando arrivavano dal fondo di corridoi che a loro erano preclusi.

    Nel pomeriggio videro la superiora accompagnarla in chiesa, il prete avrebbe cantato l’inno del ringraziamento. La guerra era finita, i benefattori diventavano tanti, tra loro anche una duchessa. Nelle file di banchi dovettero rimanere in silenzio, le gambe dovevano dimenticare le corse che avrebbero voluto fare imitando i suoni della gallina bianca. Le mani si unirono e il capo restò chino. Quanto costava una fetta di torta. Comunque pensò che ne era valsa la pena.

    Nei giorni seguenti, camion portarono altri sacchi, le suore ebbero un gran da fare a mettere in ordine. Avevano poco tempo per badare ai dettagli.

    Lo stava osservando da un po’, oltre alla gallina un altro essere lo aveva colpito per il suo aspetto nudo, un po’ ripugnante. Vicino alla ciotola d’acqua, si strofinava contro l’orlo, insozzato dal fango e dalla polvere che facevano da padrone anche sopra e sotto i suoi piedi calzati in scarpe risuolate due volte. Si nascondeva alla luce, l’acqua diceva che sarebbe stata lì per lui fino a quando avesse voluto. Le zampe delle galline affondavano nel fango e parlavano di movimenti distratti e arroganti. Guerrino si chiedeva se avesse veramente visto la piccola macchia marrone oppure se fosse stato uno scherzo della vista. Vide muoversi qualcosa e allungò la mano. Tra le dita un molle senza volontà, una creatura pulsante. Capì che la ranocchietta era innocua. Quando Carlo si avvicinò l’occasione fu ghiotta.

    «Potremo spaventare qualcuno!»

    La malizia aleggiò tra i loro occhi.

    «E chi? Di chi dobbiamo vendicarci? A chi vuoi fare dispetti? È così piccola che non fa paura a nessuno!»

    «A quelli che ti canzonano perché fai la pipì a letto, per esempio.»

    Aprì la mano e le zampe diventarono loquaci, la pelle sorrideva di delicatezza.

    «Non la userò per fare male, potrebbe farsi male anche lei…»

    «Allora lasciala, andrà dove vorrà.»

    «Le zampe delle galline sono dure.»

    La suora non li guardava. Le mani a coppa portarono la rana ai limiti del campo, verso la rete che delimitava il confine. Le mani erano piccole e si infilarono tra un buco e l’altro del filo metallico. La ranocchia fece un salto, capì che la libertà le era stata concessa dopo uno spavento.

    «Vai libera! Noi restiamo qui.»

    Era una soluzione saggia, parlava di generosità e di rispetto. La pelle aveva toccato un’altra pelle, ne aveva sentito il battito, un cuore che somigliava al suo, che viveva le sue stesse emozioni, senza che ne avesse le prove. Suor Antonietta diceva che tutte le creature erano state create da Dio, anche le rane, allora.

    Al di là della rete un orizzonte piatto si allungava fino alle nebbie mattutine, portava zanzare al tramonto, non doveva essere calpestato. Il letto dei nemici non ebbe sorprese, gli animaletti dell’orto restarono lontani.

    Non poteva lamentarsi, non sapeva chi fosse, né da dove venisse, non era importante, sentiva scendere una stilla di affetto dagli occhi di suor Antonietta, dalla severità poco organizzata, che lo lasciava vivere. Per andare alla chiesa il tragitto era breve, la fila lunga. Era diventato grande, la messa giornaliera era il suo impegno. Partivano presto, mentre gli altri si alzavano e vedevano il paese risvegliarsi intorno ai loro passi, le finestre si aprivano e gli sguardi li seguivano curiosi. Qualcuno mormorava, se incontravano monelli li segnavano a dito.

    «I figli della guerra!»

    Le donne si facevano il segno di croce come passasse il peccato, abbassavano gli occhi e lui guardava aspettando il riso di scherno che li lasciava vulnerabili a una paura sconosciuta. Non voleva sapere.

    «Che intendono?»

    Non era una domanda da rivolgere a voce alta, si doveva parlare sottovoce, far finta di non aver sentito. Carlo lo fissava negli occhi.

    «Siamo orfani, non abbiamo nessuno. Viviamo di carità.»

    Il capo si chinava, la sconfitta girava nel loro sangue, il sangue di nessuno, rosso, ma senza una famiglia. Arrivavano in chiesa con l’animo basso, la schiena curva nel rimorso di colpe mai fatte. Si domandavano perché, ma non avevano risposte.

    Per suor Antonietta era la volontà di Dio. Ma Dio era troppo lontano, fuori dall’umiliazione di ogni giorno. Eppure tra loro c’era sempre chi sapeva tutto, chi si ergeva sopra gli altri. Il loro scherno lo aveva accompagnato fino a quando la suora non aveva escogitato il sistema, fino a quando si era sentito trattenuto dalle sue braccia, un cerchio di appartenenza che poteva valere per lui solo, anche se c’erano gli altri. Si chiedeva se anche Carlo sentisse l’idea di essere di qualcuno, loro appartenevano all’istituto, a suor Antonietta. Lo sapevano bene che non potevano essere figli suoi, se uno veniva chiamato orfano significava che i suoi genitori erano morti. Lassù in qualche parte del cielo, di sicuro lo guardavano. Non poteva uccidere animali, restare indietro nei doveri, ingannare se stesso, sapeva che loro avrebbero disapprovato. Come se ancora fossero vivi, sentiva qualche volta la voce di una madre che gli diceva che la mancanza era condivisa. In chiesa la statua della Madonna aveva gli occhi chiari, il manto celeste, se lui alzava lo sguardo, lei lo guardava. Chissà se sua madre le assomigliava. Quando era più piccolo, l’impunità dell’infanzia lo aveva fatto parlare.

    «Suor Antonietta, siete voi la mia mamma?»

    Lui non se lo ricordava, ma il silenzio doveva correre verso una risposta.

    «Non sono io la tua mamma, le suore non hanno bambini, ma ti voglio bene come se lo fossi. C’è sempre una mamma per tutti che sta in cielo.»

    In chiesa gli aveva mostrato la statua della Madonnina e il colore liscio e tenue gli era entrato negli occhi a creare pace e tranquillità. Di notte alle volte piangeva, non sapeva perché, chiamava, lo sfinimento alla fine lo faceva addormentare. Erano in tanti, non poteva dirsi in solitudine, c’era sempre qualcosa da guardare e un colore da osservare, ma non trovava la dolcezza dell’anima. Sentiva un vuoto che non aveva nome, una carezza che non arrivava. Le storie che suor Antonietta raccontava erano piene di bambini, madri, giochi che avrebbe voluto fossero suoi. Si lasciava trasportare, ma la realtà era diversa. Si sforzava di assomigliare al bambino che la sua voce interna gli diceva, immaginando una madre che non aveva mai visto, una mano che non lo aveva mai accompagnato. E si chiedeva perché non era stato fortunato come i monelli infingardi del paese, che li additavano lanciando il loro sprezzo sopra i capelli. Loro erano cattivi, eppure avevano una madre, lui non era stato meritevole di questo? Li guardò tutti imprigionandoli nel suo sguardo.

    Oggi che era un poco più grande aveva in testa molte più domande, la consapevolezza diventava sempre più chiara e ribelle, il freno era difficile, se non ci fosse stata la suorina dal sorriso largo e dalla voce chiara, che si modulava intorno alle sue mani e lanciava messaggi di leggerezza nell’aria; lui si sentiva volare insieme agli altri, diventare aria dentro la stanza, dentro un’esperienza che non sembrava appartenergli. Si scioglievano rabbie, dispiaceri, ferite della pelle, strappi di capelli. E il canto scivolava in lente volute sopra le loro teste, avvolgeva il cappello nero della suora, arrivava al pavimento e si risollevava riempiendo le pareti e rimbalzando di nuovo su di loro che sentivano vibrare le mani e lo stomaco senza sapere come. Facevano parte di un unico sentiero, in un’armonia che avevano creato seguendo le braccia di suor Antonietta, che sorrideva, sorrideva, combattendo fortemente con l’aria, con il suono che doveva seguire il suo volere. Seduti sulle panche assistevano a ciò che si creava dalle loro voci, lo stupore li faceva pervasi della soddisfazione di essere all’altezza, di sapere e seguire il comando della maestra. E ripetevano, ripetevano, finché lo scopo era soddisfatto, finché suor Carmela battendo sui tasti dell’armonium piegava la testa e la risollevava, forzando il peso e tenendo le dita immobili; lo sguardo al cielo era il segno della soddisfazione e loro comprendevano le parole non dette.

    C’erano bei momenti all’istituto, quel che mancava era la libertà di restare a far niente, come se il tempo trascorso con se stessi non fosse importante. Forse si voleva far dimenticare che il pensiero avrebbe portato sofferenza; dentro la povertà in cui dovevano vivere consapevolmente non c’era posto né per i sogni, né per un’altra vita. Se fosse arrivata, poteva solo essere un imprevisto che era meglio non mettere in conto.

    Quando cantava, Guerrino si sentiva convinto che sarebbe diventato un cantante, la voce usciva senza sforzo, piallata dentro la gola e lui la poteva modulare come voleva, accontentando la musica, staccandosi dalla panca sopra la quale era seduto. Se era in chiesa, veniva rapito dall’incenso che vagava nell’aria, dai canti che muovevano l’anima e la facevano vibrare.

    Si chiedeva se non fosse meglio diventare un prete, che organizzava la funzione, che gli altri ascoltavano e che poteva lanciare parole che non sarebbero state dimenticate perché somigliavano sempre a loro stesse. Ammirava la veste luccicante di fili e di pizzi, l’eleganza del portamento. Il prete era un’autorità. Veniva alle volte a salutarli. Le suore facevano l’inchino e gli sguardi erano devoti come davanti a un’immagine sacra. Incuteva timore e rispetto, ma la sua figura diceva di essere altrove, non con loro dentro il refettorio che odorava di pasti fatti in grande, di pentoloni al sapore di cipolle, dove, seduti sulle panche scure, davano la schiena ai compagni che mangiavano nei tavoli dietro a loro. Benediva tutti, dall’alto. Quando avevano fatto la prima comunione era arrivato anche il cardinale da Venezia, lui se lo ricordava perché le suore lo nominavano sempre, raccomandandosi.

    «Siate educati, non gridate davanti al cardinale! Dobbiamo fare bella figura!»

    Era stata una giornata diversa perché, oltre alla messa, avevano fatto una foto davanti alla chiesa, i colletti bianchi mostravano la loro non appartenenza, i grembiuli scuri dei maschi si distinguevano da quelli delle femmine che di scuro avevano solo i capelli. Dietro, in piedi, davanti, seduti sulla ghiaia che cercava di non pungere le gambe, nessuno aveva ancora imparato a sorridere. Guerrino aveva il colletto di traverso, suor Antonietta di fianco. Si chiedeva cosa stesse facendo l’uomo davanti a loro. La fotografia arrivò qualche giorno più tardi e anche lui poté riconoscere la sua figuretta che stava su un lato, fuori dall’ammasso dei compagni, nessun legame tra le mani, che se ne stavano a penzolare senza senso.

    Quella mattina file di camion erano in attesa fuori dai cancelli. Le suore e gli inservienti indaffarati. Li avevano preparati, ma non potevano prevedere cosa sarebbe successo. L’aria era limpida, l’autunno diventava inverno dolcemente.

    «Noi saliremo sui camion.»

    «Come fai a saperlo?»

    «Vedrai se non ho ragione.»

    Erano piccoli ancora, le loro mani portarono pacchetti che le suore avevano preparato, abiti che potevano essere valigie. Suor Antonietta li chiamò.

    «Sul camion non dovrete muovervi, vi fareste male!»

    La novità era protetta, ghiotta per le loro menti, per la loro immaginazione. Una giornata che li avrebbe visti partire.

    «Non andiamo molto lontano, sempre qui, nel paese!»

    Sperò che non fossero ancora obbligati a uscire e incontrare i monelli nelle strade verso la chiesa, quelli che li indicavano con il dito teso come fossero animali nel peccato con le donne che si sarebbero segnate. L’inquietudine gli diceva che erano ancora là, troppo vicini. La suora salì in mezzo a loro a consolare il viaggio, i loro sorrisi traballanti. La pianura entrava nei loro occhi con delicatezza, senza ferire, aprivano le ciglia ai nuovi verdi che l’autunno mostrava nella campagna, gialli e marroni sopra gli alberi presto nudi di foglie. L’aria allegra dell’infinito entrava sotto il telone e diceva che potevano farne mantelli per il prossimo inverno, potevano sentirla sulle mani e farne luce per ciò che sarebbe arrivato. Avrebbero vissuto un’altra stagione mentre il tempo passava. All’orizzonte, il profilo di montagne lontane parlava di altri luoghi sconosciuti che potevano essere visitati e vissuti, di speranze fuori dal recinto del loro primo ospizio. Gli occhi si allargavano, rubavano colori e libertà che non avevano sperimentato; videro lontano l’acqua di un torrente e lo sporco sulle mani disse che doveva essere ripulito, il vestito rassettato, i capelli pettinati. Se il mondo era grande valeva la pena di sperimentarlo nell’ordine: troppe situazioni si erano concluse senza storia, quando i ragazzi non erano in ordine.

    Questo diceva la suora, questo dicevano gli sguardi dei genitori che arrivavano a cercare figli, o quelli delle autorità che cercavano la carità da diffondere. Prepararsi a un nuovo periodo, a nuove esperienze, se fossero state fresche e splendenti sarebbe dipeso dalle loro braccia, dal loro viso e dalla loro obbedienza.

    Guerrino si chiedeva il perché di quel nome con cui tutti lo chiamavano senza chiedergli se gli piacesse. Qualcuno gliel’aveva dato, qualcuno lo aveva scritto ed era rimasto. Rotolavano le due erre e non sapeva se darne la colpa alla guerra che lui non ricordava o trovare lo spirito guerriero che poteva risorgere anche in tempo di pace. Lo sentiva arrivare dai piedi, quando non erano ancora stanchi, salire fino alle pupille quando lo stomaco era pieno e il coraggio si diffondeva nei muscoli. Allora pensava di fare e di progettare, architettava un futuro dove la sua vita sarebbe cambiata. L’affetto grande di suor Antonietta poteva bastare per i piccoli, per fare brevi i pianti della notte, per raccogliere carezze rubate tra le spinte dei compagni. Ora avrebbe incominciato la scuola, gli avrebbero insegnato a leggere. Vedeva i cartelli delle vie, gli sarebbe piaciuto sapere cosa ci fosse scritto.

    Il camion si fermò davanti a una casa grande, le finestre numerose, tutte in fila su ogni piano; non era tanto diversa da quella che avevano lasciato, solo più grande. I comandi furono impartiti a voce tonante, ognuno doveva restare nella fila che gli era stata assegnata. La confusione divenne inevitabile. Qualche valigia si era fatta dimenticare sul camion, qualche compagno non sapeva a chi dare la mano, il cortile era troppo esteso per bambini ancora piccoli che cercavano galline.

    Vide gli occhi di Carlo e quelli di Carlo videro i suoi. Non seppero darsi una risposta. Il cancello aveva le braccia aperte e mostrava la campagna verde con i fossi limitati da pioppi dritti in file ordinate. Non c’era tanta differenza. Si presero per mano dimenticando valigie e i passi andarono indietro verso la pianura, nascosti dai camion. Nessuno si volse verso di loro. Gli occhi sprizzarono luce mai vista, intraprendenza, libertà senza regole. Fuori il verde era infinito, tutto da digerire e guardare, pieno di promesse. Si tennero lontani dalla strada, fingendo di essere fratelli, tornavano a casa in una serata qualunque. Più lontani, i piedi vollero correre sul sentiero, sperimentarono volontà che non conoscevano. Videro il ruscello e i pesciolini guizzare. Anche i piedi dissero che volevano libertà e levarono scarpe e calze. L’acqua era fredda, gridarono per la sorpresa e rimasero seduti sull’orlo godendo quello che non avrebbero dovuto fare. La saggezza era lontana, le parole senza ritegno.

    «Siamo scappati.»

    «Siamo grandi, possiamo trovare un posto dove stare.»

    «Ci troveranno?»

    «Non pensiamo a questo, siamo solo due, ci sono tanti altri bambini, allontaniamoci.»

    Aspettarono che i piedi si asciugassero e ripresero le scarpe. Allontanò, per non sembrare piccolo, la figura di suor Antonietta, un margine dei suoi pensieri.

    «Hai fame?»

    «Ho sempre fame.»

    Attesero l’imbrunire e cercarono case tra la pianura, non credevano fosse così difficile.

    «I cani abbaiano sempre.»

    Intorno al pollaio non c’era nessuno, armeggiarono, contenti che le finestre fossero spente. Qualche gallina prese a starnazzare e allora si fermarono, finché la notte continuò il silenzio. Sulla paglia al lume della luna, videro le uova e ingordi batterono sul guscio e ne succhiarono il contenuto. Non rimase nulla e lasciarono il pollaio tirando la porta di rete scardinata. Il silenzio li perdonò, nessuno li aveva visti. Cominciarono a comprendere.

    «È difficile trovare da mangiare!»

    Carlo era più preparato.

    «Stasera dormiremo sotto le stelle.»

    «Non abbiamo coperte.»

    Si stesero sotto gli alberi.

    «Copriamoci con le foglie.»

    «Le foglie non tengono caldo, la notte è umida.»

    «Ma allora, perché siamo fuggiti?»

    «Ti ho guardato, era una sensazione nuova…»

    Tacquero trovando posizioni dure sopra le radici, guardando il cielo pieno di stelle. Il fresco nelle ossa passò in secondo piano e gli si opposero respirando forte, riempiendo di aria verde i polmoni, pensando di condurre un’altra vita, dentro le favole che la suora raccontava. Sembravano più belle all’istituto, piene di immaginazione e di cornici sfocate nella morbidezza di un cuscino o di una stufa accesa. Guardando il cielo però il fascino era nuovo. Nessuna sensazione poteva essere simile nei discorsi o nelle fiabe. Tutti i sensi erano lì a farne parte, non parole, ma pulsazioni grevi, piene di punti stellati che avvolgevano l’anima.

    Allargò gli occhi come a possedere il firmamento sopra di lui, non riuscì a sciogliere parole, la lingua restò dritta sopra il palato e lui pensò di non esserci, di trovarsi insieme a quell’ipotetica madre che sentiva vibrare dentro di lui nelle notti quando il sonno non era veglia e la veglia non era sonno, quando poteva immaginare qualsiasi cosa. Vedeva figure che si rincorrevano e che gli parlavano di solitudini amiche, di mani che lo avrebbero accarezzato.

    Parlare non era necessario, il pensiero era dentro ogni vibrazione e andava e tornava dal cielo nero fino al movimento delle ciglia. Sentì il compagno russare leggermente e si disse che anche lui avrebbe dovuto dormire prima che il sole sorgesse, ma restò a occhi spalancati finché i pensieri si chiusero nel galleggiare di stelle che gli aveva riempito di immagini la mente.

    Si svegliarono che i passeri cinguettavano tra i rami, a frotte distribuivano trilli di vita e li spinsero a fare altrettanto.

    «Che facciamo oggi?»

    Il sole poteva essere amico, l’aria leggera. Il buio era diventato luce anche dentro i loro occhi. Il verde brillante dell’erba li spingeva a camminare sul morbido a lavarsi il viso nel ruscello, a cercare di rubare le more dai rovi. Si allontanarono fino a che non videro le case del paese e la direzione non ebbe importanza. Una cascina occhieggiava tra alberi ancora verdi d’estate, mucche che pascolavano parlavano di libertà e di latte.

    «A me il latte non piace!»

    «Lo so, ma non si tratta di questo.»

    Si avvicinarono a vedere cosa stesse succedendo.

    «L’importante è trovare da mangiare. Lascia fare a me. Come ti sembro?»

    Si lisciò il vestito spiegazzato, si guardò le scarpe impolverate, si riavviò i capelli.

    «Dovresti fare il bagno per essere presentabile, ma qui non si tratta di suore!»

    Una mano sulla bocca a soffocare il riso sgorgato dentro una libertà fuori dai limiti, il rischio era con loro e sperimentarlo era stimolante.

    La donna uscì dalla porta e si avvicinò ai fili vuoti. Aveva in mano un secchio pieno di bianco. Non potevano avvicinarsi a contaminare il lavoro. L’immaginazione di cui erano padroni li aiutò e Guerrino si sporse appena in avanti.

    «Scusateci, signora, siamo due fratelli rimasti orfani, andiamo di cascina in cascina in cerca di lavoro, non avreste qualche cosa per noi? Ci adattiamo a fare tutto.»

    Attese. La donna li soppesò e disse parole che non pensavano.

    «Non siete un po’ troppo piccoli per girare da soli nella campagna?»

    Ebbero un brivido, il significato poteva andare oltre, dove non avrebbero voluto.

    «Non siamo molto alti, ma abbiamo già quindici anni» mentì.

    La donna finì di stendere.

    «Venite.»

    Dentro la casa il fuoco raccontò storie che già sapevano, che avevano vissuto.

    «Sedetevi.»

    Gli mise davanti un piatto ciascuno. Il caldo andò giù come un ruscello nel deserto. Si ricordarono di essere fuggiaschi.

    «Grazie, siete molto gentile, vorremmo ricambiare.»

    «Se davvero volete, venite con me, se mungerete le capre potrete dormire nel fienile e fermarvi i giorni che vorrete. Vi mostro come si fa.»

    Gli animali avevano le corna, volevano delicatezza. Le mani piccole tirarono i capezzoli dolcemente, riempirono il secchiello di latte. Carlo era disgustato.

    «Preferivo l’istituto.»

    «Taci, qui siamo liberi, facciamo quello che vogliamo, abbiamo trovato un lavoro, un tetto e un piatto dove mangiare. Che vuoi di più? Non fare caso al latte, non lo devi bere!»

    Le capre non erano tante, decisero che poteva essere un buon accordo. La paglia era morbida più del terreno, qualche punta si insinuava sotto i vestiti, non era un luogo tranquillo e rilassante, ma trovata la posizione, poteva diventarlo. La donna preparava da mangiare e loro mangiavano lontani dalla famiglia, si occupavano delle capre, ne assumevano l’odore e il passo, finché un giorno avevano quasi deciso di essersi stufati. È vero che l’inverno arrivava a grandi passi, il fienile poteva essere un luogo più freddo del previsto e fuochi non se ne potevano accendere anche ammesso di essere capaci.

    Dai pertugi del cancello di legno videro arrivare un’auto e si stupirono. Gli sembrò di averla già vista, ma tutte si somigliavano. Il colore nero parlava di autorità e lontananze che avevano dimenticato. Ora erano divenuti cavalli selvaggi intenti a conoscere il modo di galoppare sotto il vento. Rimasero quieti, ad aspettare il momento in cui le capre li avrebbero reclamati, in cui il dovere di pastori li avrebbe fatti diventare responsabili del loro lavoro. Al resto non dovevano interessarsi. La donna veniva verso di loro, verso il portone che si spalancava. Non le avevano detto come si chiamavano.

    «Carlo! Guerrino!»

    Il freddo cominciò a scorrere nelle loro vene. Lo sguardo si fermò, il cuore perse un battito. Non seppero altro che guardarsi. Il richiamo si ripeté, mentre la luce inondava la paglia. Cosa poteva essere successo?

    «Dove vi nascondete? Venite fuori, sappiamo che siete lì.»

    Aspettarono che la luce li inondasse e poi a passi incerti camminarono sprofondando sulla paglia, alzando le ginocchia fino alla bocca per non inciampare. Il viso scuro mostrava la colpa che aleggiava sopra di loro.

    «Ringraziate la padrona che ci ha chiamati, se non fosse stato così, non avremmo certo avuto tempo di venire a raccogliervi di nuovo, con tanti altri da sfamare!»

    L’uomo non l’avevano mai visto, una suora lo accompagnava, ma non li prese per mano. Li spinsero sull’auto e compresero che la libertà era finita. Le loro mani si trovarono a far fronte comune. La pelle passava argomenti che non sarebbero stati compresi da nessuno e si increspava senza aver freddo.

    «Cosa pensavate? Di vivere da soli come foste già adulti? O di morire di freddo al prossimo inverno?»

    Dare risposte non sarebbe stato utile a nessuno. Quello che pensavano doveva restare sepolto dentro le loro anime. Guerrino si sentì stringere dentro una morsa che avrebbe fatto male. Le parole dure sferzavano le sue speranze, davano cornice alla solitudine, non era il silenzio delle stelle, ma il ludibrio che i compagni gli avrebbero rivolto e verso cui non avrebbe trovato difesa. C’era Carlo, più forte, ma l’istituto li avrebbe ingoiati prima di essere grandi, tagliando germogli che volevano spuntare. Il silenzio diventò rumore del motore, rabbia da respirare. Bastarono pochi minuti e furono nel cortile, occhi curiosi volevano sapere, volevano vedere. La testa si chinò improvvisamente. Sotto le ciglia una lacrima non doveva ballonzolare, la debolezza di bambino non doveva mostrarsi per rendere soddisfatte le mani della superiora. Furono in piedi di fronte a lei.

    «Ecco i due signorini! Cosa pensavate di fare? Non siete riconoscenti a chi vi ha tolto dalla strada per vestirvi e darvi da mangiare? Non sapete che nessuno vuole avere a che fare con voi?»

    No, questo non lo sapevano. Non ne sapevano neanche la ragione. Erano così puzzolenti i loro nomi da orfani? Le domande rimasero impietrite dentro il respiro, le mani non potevano parlare. Sapeva tutto.

    «Mi dicono che avete rubato delle uova, volete diventare ladri? È questo che avete imparato all’istituto? È il vostro sangue che vi spinge alle cattive azioni?»

    Perché faceva tante domande, loro non potevano rispondere, se avessero potuto, gliene avrebbero fatte altrettante, tutte quelle che rimanevano sprofondate nell’acqua dei loro impossibili ricordi. Avevano fatto un colpo di testa, non sapevano il perché. Era stato un momento di follia, quello che all’istituto non si sperimentava mai, dritti e calmi dentro il solco che era tracciato per il loro bene. Guerrino attese che il temporale scemasse, che la predica avesse il suo epilogo.

    «Un’azione del genere deve essere punita e il vostro castigo sarà quello di lavare i panni dell’istituto insieme alle lavandaie. Suor Giovanna vi darà il quantitativo giornaliero e riferirà a me. Il castigo durerà per il tempo necessario.»

    Gli avevano dato un quaderno a quadretti e una matita. La suora gli indicò il banco davanti, era tra i più piccoli, ma già col marchio della sua malefatta. La sentiva colpire gli occhi ogni volta che scorgeva lo sguardo fisso sopra i suoi capelli, sopra le sue mani, uno sguardo silenzioso, senza virgole, pieno di punti di domanda. La superiora non si era più fatta vedere. Suor Giovanna era troppo grassa per essere cattiva, dopo la scuola preparava un cesto di vestiti e due pezzi di sapone.

    «Un cesto per tutti e due, fate presto, dopo farete i compiti di scuola.»

    Qualche macchia era tenace.

    «Date qua, siete troppo sfaticati!»

    Strofinava il sapone e risciacquava dentro il mastello, finché il lavoro era compiuto. Quando il buio inghiottiva presto la luce del pomeriggio, interveniva.

    «Voi andate, finisco io, non occorre che lo diciate.»

    Quello di dirlo era l’ultimo pensiero. Guerrino si accorse che i modi non facevano la sostanza. Le parole di suor Giovanna sembravano pietre sopra i loro visi di bambini, ma i fatti parlavano d’altro, racchiudevano un’altra verità e presto la corvée cessò.

    «Oggi ho parlato con la madre superiora, visti i buoni risultati vi solleva dalla punizione.»

    «Grazie!»

    Sapevano entrambi che stavolta le parole della suora avevano giocato la loro partita. La mente di Guerrino si tuffò nella scuola. Non trascorse troppo tempo che la maestra lo guardò come guardava tutti gli altri, non usò il suo registro per scrivere dubbi sul comportamento, ma per evidenziare risultati inaspettati.

    Sì, a Guerrino la scuola piaceva. Beveva le parole della maestra, ricopiava i segni, ne ricordava il suono, imparò a leggere qualche parola. Libriccini piccoli con tante figure, dove angeli dalle lunghe ali sostenevano piccini inermi verso la conoscenza del mondo, poesie raccolte e vagheggianti di cui gli sfuggiva il significato. Parole nuove come patria e famiglia, immagini di soldatini in fila nella marcia. Sul quaderno c’era il disegno dell’Italia, un ragazzino che doveva essere la sua immagine con una mano levata verso l’alto, il viso di una donna con in testa l’elmo romano e sopra una scritta che fu la prima che riuscì a decifrare anche perché glielo dissero gli altri: Quaderno Balilla. L’insegnante aveva scritto il suo nome, per lui era troppo presto. La maestra spronava allo studio e all’esercizio e nel contempo si faceva carico di diffondere le idee che riempivano l’aria di quel periodo.

    Vicino alla croce era appeso il ritratto del re, con una fascia di traverso sul petto. A destra quello di un altro signore, che chiamavano Mussolini e che mostrava un’aria impettita. La maestra diceva che era un uomo molto importante, lei lo sapeva perché veniva da fuori, non dormiva all’istituto, era pagata per istruirli. Per loro la strada era già spianata: un orfano non poteva ambire a studiare e a diventare importante, i poveri dovevano imparare a lavorare, l’istituto gli avrebbe dato in mano un mestiere. Intanto gli occhi comprendevano i segni, riusciva a leggere le scritte che comparivano sulle case del villaggio quando uscivano per andare alla chiesa. «Credere, obbedire, combattere» oppure «Fra tutte le opere che possiamo donare alla patria la prima e la più necessaria è quella della figliolanza». Per leggere questa impiegò qualche settimana, ogni volta che passava aggiungeva la decifrazione di una parola, ma l’ultima gli rimase oscura.

    «Che significa figliolanza

    Non poteva dare prova di ignoranza davanti alla classe, lo chiese a Carlo. Lui lo sapeva.

    «Vuol dire fare figli, averne tanti.»

    Più in là non poteva andare, ma nella mente sorsero parole che non potevano essere sbagliate. Come! La patria voleva figli e loro erano reclusi in un istituto, sbeffeggiati dagli altri ragazzi che avevano madri e padri? Cominciò a comprendere che le parole volevano il loro filtro. Un orfano restava un orfano. L’entusiasmo non scemò, l’idea della speranza era aperta e sostituibile con progetti che non potevano essere visti dallo sguardo corto della maestra. A lui al momento non interessavano, gli bastava comprendere di essere capace.

    Non voleva suscitare invidia, né tra i compagni, né mettere a disagio l’insegnante che poteva supporre di essere spinta a ridimensionare i suoi principi, o meglio le nuove regole della riforma scolastica. Erano pensieri troppo complicati, ci si sarebbe dedicato quando si fosse presentata

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