E io no! Non sono tedesco!: Alberto Pucciarini, dalle scuole in colonia alla prigionia in Germania
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Info su questo ebook
Alberto Pucciarini, che per la grande Storia è uno degli oltre seicentomila italiani in divisa che hanno detto NO! al fascismo e al nazismo, per chi ha scritto il testo è stato, prima di tutto, un uomo, un nonno e un caro amico.
Il lavoro di ricerca ha approfondito due aspetti fondamentali della vita di Alberto: da una parte, il suo percorso formativo (che fu di molti), fino alla scelta: «E io no! Non sono tedesco!»; dall’altra, la sua esperienza da Internato militare italiano.
Tra l’educazione fascista, i mass-media di regime e l’esperienza dell’internamento, emerge un personaggio curioso, veloce nel lavoro, d’intelletto acuto: alla fine di tutto un patriota.
Di centrale importanza, per una ricostruzione fedele della vicenda, sono stati – oltre all’intervista, piacevolissima e lucida, del protagonista – i documenti da lui stesso gelosamente conservati e accompagnati, in fase di analisi e decodifica, con dolcezza e perizia, dalle ricostruzioni e dai commenti della figlia Maria Grazia.
Chi ha scritto il libro ha voluto fornire un contesto storico-critico sintetico e cogente, volto all’accoglimento della vicenda esemplare di Alberto Pucciarini: si è cercato, in buona sostanza, di ricostruire l’uomo e il tempo, di dar voce ad un ricordo, avvalorato e documentato della storiografia.
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Anteprima del libro
E io no! Non sono tedesco! - Tommaso Rossi
Tavola dei Contenuti (TOC)
Titolo pagina
Prefazione
Introduzione
Alberto Pucciarini, in poco più di diciott’anni di vita
«E quella è stata la nostra fortuna». Studente in colonia, patriota in Patria
«Sono morti anche dentro al gabinetto». L’IMI Alberto Pucciarini
Due righe per ricordarlo
cover.jpgAURORA CAPORALI
TOMMASO ROSSI
«E io no!
Non sono tedesco!»
Alberto Pucciarini, dalle scuole in colonia alla prigionia in Germania
Prefazione a cura di:
Dr. MARCO TERZETTI
Presidente Sezione ANEI L. Teglia
di Perugia e Consigliere nazionale ANEI
Postfazione a cura di:
MARIA GRAZIA PUCCIARINI
«E IO NO! NON SONO TEDESCO!»
Alberto Pucciarini, dalle scuole in colonia alla prigionia in Germania
Autori: Aurora Caporali e Tommaso Rossi
img1.pngISBN versione digitale
978-88-6660-408-2
© CIESSE Edizioni
www.ciesseedizioni.it
info@ciesseedizioni.it - ciessedizioni@pec.it
I Edizione stampata nel mese di gennaio 2022
Impostazione grafica e progetto copertina: © CIESSE Edizioni
Immagine di copertina fornita dagli Autori
img2.pngCollana: Le nostre guerre
Editing a cura di: Orlando Materassi e Silvia Pascale
Direttore di Collana: Silvia Pascale
Consulente storico-scientifico di Collana: Orlando Materassi
Editore e Direttore Editoriale: Carlo Santi
PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA
Tutti i diritti sono riservati.
È vietata ogni riproduzione dell’opera, anche parziale, pertanto nessuno stralcio di questa pubblicazione potrà essere riprodotto, distribuito o trasmesso in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo senza che l'Editore abbia prestato preventivamente il consenso.
Opera realizzata con il sostegno economico di
A.N.E.I.
Sezione di Perugia
Prefazione
Dobbiamo ad Alberto Pucciarini, alla figlia Maria Grazia e agli Autori il merito di averci coinvolto emotivamente ripercorrendo una delle complesse vicende che hanno caratterizzato il Novecento e che risultano tuttora sospese. Intendo il silenzio che ha avvolto per circa quarant’anni la vicenda degli Internati Militari Italiani (IMI), la questione dei risarcimenti, i particolari rapporti tra Italia e Germania entrambe inserite nel blocco occidentale, le scelte obbligate dell’Italia vinta e altro, magistralmente riportato nel testo, che lascio volentieri alla curiosità del lettore.
Mi piace ribadire l’importanza delle testimonianze dirette come quella di Pucciarini, che, mediate dal metodo storico-scientifico, costituiscono i tanti tasselli necessari a comporre il grande mosaico della Storia.
L’unica intervista ad Alberto Pucciarini costituisce uno degli elementi che permettono di ricostruire la complessa storia di un evento così denso di conseguenze per il mondo intero: la Seconda guerra mondiale.
In tale ambito gli Imi sono stati gli unici prigionieri di guerra cui è stato offerto il rimpatrio e che questo rimpatrio hanno rifiutato in massa, con un deciso NO! consapevoli della difficile sorte che li avrebbe attesi. Proprio tale comportamento – che non esito a definire eroico – li caratterizza e li distingue dagli altri militari catturati.
Tommaso Rossi, partendo dagli eventi che precedettero e seguirono l’Otto settembre, illustra efficacemente tutta la vicenda soffermandosi anche sugli aspetti emotivi e razionali che hanno determinato quel rifiuto. Il NO! opposto reiteratamente da giovani nati, cresciuti e formati nel fascismo, ma fiaccati nel morale dalla delusione di trovarsi improvvisamente contrapposti all’ex alleato e fisicamente sfibrati dalle condizioni di vita nei lager.
La vicenda degli IMI ha accomunato oltre 630.000 giovani e giovanissimi, interessando quindi la maggior parte delle famiglie italiane e originando situazioni del tutto nuove e, per certi aspetti, incredibili. Una per tutte: il protratto silenzio della maggior parte dei reduci, spiegato dagli Autori con motivazioni che inducono il lettore ad equilibrate valutazioni sull’accoglienza riservata agli Imi al ritorno in Patria e a casa.
Molto interessante e completa la parte dedicata all’illustrazione del contesto socioculturale dell’epoca dove si integrò totalmente il padre di Alberto, Giuseppe Pucciarini. Questi, infatti, prese parte come volontario all’impresa di Fiume e fu uno dei protagonisti locali dell’epopea fascista. Ovviamente il giovanissimo Alberto ne fu influenzato, tanto che il suo NO! potrebbe addirittura sembrare fuori luogo.
Oltretutto la formazione scolastica di Alberto Pucciarini è avvenuta in parte in Etiopia, dove il regime metteva in atto in modo completo e assoluto i principi didattico-educativi dell’epoca: in sintesi l’applicazione integrale della mistica fascista nel ruolo educativo della scuola e delle istituzioni orientate alla formazione dell’uomo nuovo.
Su questi aspetti storico-didattici ci intrattiene con dovizia di particolari e di conoscenze Aurora Caporali, anche con disamine complete di alcuni libri di testo utilizzati nel contesto scolastico e sociale della colonia.
Mi piace infine rilevare alcuni dettagli che mi rendono più vicino alla famiglia di Alberto. Anche mio padre chiedeva la Santa Benedizione; l’attività esercitata in colonia per la costruzione di strade mi ha riportato all’adolescenza, quando conobbi un imprenditore che aveva avviato l’attività proprio in Etiopia; il cognome del nonno materno, Fioroni, è infine presente tra miei lontani congiunti.
Il lavoro degli Autori, fondato su un’intervista sottoposta a seria analisi storica, è meritevole di alta considerazione in quanto esalta l’importanza del tema della Memoria confortato da un interesse per vicende purtroppo ancora poco note, ma tanto cariche di valori morali.
Li ringrazio per l’impegno profuso e per aver portato a termine l’opera con evidente perizia.
L’Associazione Nazionale Ex Internati nei lager nazisti
La costituzione di un’Associazione tra Internati ha avuto luogo ancora prima della liberazione dei lager dal giogo nazista, avvenuta nel mese di aprile 1945. Rimandando il lettore alla esauriente trattazione all’interno del volume, è opportuno ribadire anche in questa sede che gli IMI sono ora annoverati tra i protagonisti della Resistenza, cosa in precedenza del tutto trascurata se non negata.
Grazie anche all’azione dell’Associazione Nazionale Ex Internati nei lager nazisti (questa l’attuale denominazione), la vicenda è stata portata all’attenzione del pubblico, come testimoniato anche da questa pubblicazione.
La presenza di una Sezione dell’Associazione Nazionale Ex Internati a Perugia risale al 1978, promossa da un gruppo di reduci, ormai andati avanti, tra cui mio padre Bruno. Le attività culminarono nel 1989, con il presidente T.Col. Leopoldo Teglia, che curò l’apposizione di una targa celebrante l’avvenuta tumulazione a Redipuglia dei resti di cinquecento umbri deceduti in Germania, a Zeithain.
La dipartita del Presidente Teglia, avvenuta nel 2007, comportò l’interruzione delle attività. Nel 2017, a seguito della pubblicazione della mia opera Lettere da un giovane militare (1942-1945), la Sezione di Perugia è stata riattivata, conta ora ben settanta soci (figli e nipoti di IMI) e ha realizzato negli anni campagne di formazione e informazione, rivolte specialmente ai giovani, e mostre artistiche e documentarie per la tutela e valorizzazione della Memoria.
Perugia, 23 settembre 2021
Dott. Marco Terzetti
Presidente Sezione ANEI L. Teglia
di Perugia
Consigliere nazionale ANEI
Introduzione
Questo testo nasce da un’amicizia consolidata e lontana nel tempo, prendendo forma a partire da una scoperta recente all’interno di questo rapporto: il nonno di un’amica, nato e cresciuto in un paesino sotto Perugia, lungo le rive del Tevere, da bambino aveva vissuto qualche anno in colonia; rientrato in Italia aveva concluso gli studi e, con due classi d’anticipo sull’età prevista, aveva chiesto e ottenuto l’arruolamento. L’8 settembre 1943 era a Pola con addosso una divisa della Regia Marina, allievo Specialista direzione tiro (SDT); di lì a pochi giorni la cattura da parte dei tedeschi, il trasporto in Germania e la reclusione dietro al filo spinato, poi la proposta di collaborare con il neonato governo fascista repubblicano.
Per la grande Storia, Alberto Pucciarini è uno degli oltre seicentomila italiani in divisa che hanno detto no al fascismo e al nazismo, lavorando e soffrendo da Internato Militare Italiano (IMI) fino ai primi di aprile del 1945, tre mesi prima di poter riabbracciare i suoi cari in Italia. Per chi scrive, è innanzitutto un uomo di 91 anni ancora da compiere, intervistato in casa sua a Ponte Pattoli il 4 novembre (la data è pura casualità) 2017; piccolo di statura, ma robusto come tutti coloro che hanno lavorato con le mani e le braccia per gran parte della vita, voce non tonante o imperiosa ma sempre decisa, memoria di un’infallibilità talvolta disarmante. Questo incontro era stato, in un certo senso, preparato da una serie di informazioni avute dalla figlia Maria Grazia, che non potremo mai finire di ringraziare per averci regalato questa splendida opportunità (ben lungi dal solo risvolto professionale). Quello che non potevamo sapere, tanto meno speravamo, è che – al netto della nostra colpevole pigrizia e di un incolpevole sovraccarico di impegni – quello sarebbe stato l’unico incontro con il nostro
nonno, il Gefangenennummer 118453, come non disdegnava di essere citato e ricordato. Avremmo, sinceramente, voluto fargli questo regalo; resterà ai suoi familiari e sappiamo quanta gioia susciti comunque in loro.
Cercando, non senza fatica, di mettere da parte il trasporto emotivo, indotto da questa pur esigua frequentazione, la mancanza di ulteriori incontri ha schiuso un ventaglio di scelte da compiere, ancora più ampio di quanto già in origine potesse essere. Innanzitutto, Alberto Pucciarini non ha scritto un diario né una memoria a breve o lunga distanza dagli eventi, più o meno strutturata che fosse. Vengono perciò a cadere, ab origine, tutta una serie di presupposti metodologici adottati e perfezionati in decenni di storiografia sulla diaristica e la memorialistica dell’internamento militare. Sebbene fosse necessario mantenere comunque l’intervista (e la documentazione originale fornita) in posizione centrale rispetto al volume, è evidente come questa in sé non potesse essere trasposta e utilizzata come base esclusiva o comunque in pieno caratterizzante nel e del testo. Questo nonostante l’incontro fosse stato preceduto da una tematizzazione, tuttavia solo essenziale e concepita con la finalità di essere successivamente arricchita, approfondita e precisata laddove necessario; cosa che, come anticipato, non è stata possibile. Si è ritenuto di adottare questo parametro della solo parziale tematizzazione in quanto la circostanza di avere a disposizione un unico protagonista, a cui far raccontare la propria storia ricca in sé di vari e differenti spunti, divergeva da quella in cui si intraprende una campagna di raccolta di più testimonianze, su questioni maggiormente circoscritte e con un numero più ampio di intervistati. A livello metodologico e pratico, quest’ultima quasi imporrebbe all’intervistatore di presentarsi con un temario il più possibile ordinato, onde poi raccogliere eventuali sollecitazioni esorbitanti da queste linee inizialmente definite e, di conseguenza, svilupparle.
Da qui è poi conseguita la decisione di suddividere il testo in tre parti essenziali, non rimanendo vincolati allo scorrimento tematico e contenutistico dell’intervista. Dopo questa introduzione di carattere generale, verrà proposto un primo capitolo che ripercorre le tappe essenziali della vita di Alberto, fino al rientro in Italia dopo la prigionia. La funzione essenziale di fornire un quadro non vuole avere una finalità eminentemente cronachistica, ma aprire alla riflessione che viene svolta nei due successivi capitoli, concepiti traendo dalla vicenda quelli che sono stati i momenti essenziali, e più rilevanti dal punto di vista storiografico, dei suoi primi diciotto anni e mezzo di vita: l’esperienza in colonia e l’internamento in Germania. A ciascuno di questi due macro-temi viene dedicato un capitolo, dal tono più di riflessione saggistica ma senza perdere di vista la vicenda personale del testimone.
Muovendo dalla concezione dell’intervista come moltiplicatore di temi e problemi, in buona parte indipendentemente dalle previsioni dell’intervistatore, sono scaturiti una serie di interrogativi ponderati a margine del colloquio, in un continuo bilanciamento di ottica – evitando sfasamenti – fra l’ambiente familiare, gli anni della formazione (in Italia e in colonia), la vita e la scelta in prigionia. Due decenni di regime, un certo numero di anni di esposizione (certamente consapevole, da un certo momento in poi, oltre che accettata di buon grado) alle strategie e alle dinamiche del consenso, l’educazione ricevuta in famiglia e a scuola, possono aver innescato meccanismi sommersi su cui costruire successivamente una solida coscienza democratica? Per Alberto, in realtà, avrebbe dovuto contare ancora di più il dato generazionale: essendo nato nella seconda metà degli anni Venti, quindi con il fascismo ormai privo di ogni maschera, il suo approccio cosciente con il mondo è avvenuto nel decennio successivo, in quella fase interpretata e narrata dagli storici come del massimo consenso a Mussolini e di fede nel suo progetto di dominio. Come, e con quale peso, collocare in tale scenario di crescita l’esperienza, educativa e di vita quotidiana, in colonia? Come si concilia un siffatto quadro antropologico e sociologico con il rifiuto di collaborazione in prigionia? Di «moti improvvisi dell’animo» ha parlato Claudio Pavone, all’interno di un ragionamento più ampio e articolato di quello che stiamo qui svolgendo, in relazione all’impegno che quella generazione ha profuso, in modi e schieramenti diversi e – anche necessariamente – opposti, fra il 1943 e il 1945. Sgombrando subito il campo da fraintendimenti e attribuzioni indebite, non c’è nulla di politico, né in senso pieno e nemmeno primordiale, nel rifiuto pronunciato da Alberto all’interno del lager. Non è una forma di aperta e cosciente opposizione a un disegno; ma, d’altronde, cosa ci si poteva aspettare da un ragazzo gettato dietro il filo spinato a nemmeno 17 anni? C’è altrettanto, senza alcun dubbio, un rifiuto categorico, incontrovertibile sul momento e mai messo in discussione successivamente, di una pratica che avrebbe comunque significato, in concreto in quel momento, adesione a quegli ideali e a quella cultura dentro i quali era stato educato. È stato scritto che:
Una volta consolidato il potere da un punto di vista istituzionale il progetto totalitario di Mussolini rimase come obiettivo strategico. Gli apparati dello Stato, e ancor più quelli del Partito […] per tutti gli anni trenta […], furono orchestrati in azioni capaci di incidere nell’antropologia storica degli italiani; questo complesso sforzo di fascistizzazione della società tendeva a costruire l’uomo nuovo, pervaso dai miti e dai valori del regime. Quelli nati nel passaggio fra gli anni dieci e venti furono attraversati dagli esiti di tale strategia e costituirono il luogo di esercizio della pianificazione totalitaria. Ascoltando le loro testimonianze è opportuno conoscere quindi il quadro complessivo che il regime attivò nei loro confronti{1}.
Risulta difficile pensare che non sia potuto valere, anzi con accenti decisamente più intensi, anche per coloro che erano nati nel pieno degli anni Venti, come il nostro. Per la sua generazione, i diciottenni o quasi dell’estate-autunno 1943, tale strategia è da considerare conclusa, o almeno il regime (legittimamente quanto vanamente) la presumeva tale, se non altro in considerazione degli sforzi compiuti e realizzati fra gli anni Venti e Trenta per edificare e massificare strutture atte a plasmare e inserire nel mondo adulto i virgulti dell’italiano nuovo. Venne poi la guerra, che rallentò (irreversibilmente, col senno di poi) il compimento di questo processo, evidenziandone letteralmente sul campo il fallimento. La storia, tuttavia, riservò loro un’ulteriore prova nell’estate-autunno 1943, ed è a questo punto che si colloca la seconda parte della vicenda anche di Alberto e dei suoi coetanei: quelli, per meglio intendersi, che la guerra non potevano certo averla già fatta, appartenendo a due classi successive all’ultima richiamata, il 1924, che aveva ricevuto il precetto poche settimane prima della caduta di Mussolini.
Il massiccio rifiuto, per di più intergenerazionale, di servire il rinato fascismo e il ritrovato alleato germanico testimonia, fra le tante altre cose, il fallimento della pretesa totalitaria del fascismo, verso innanzitutto le più giovani generazioni ma non solo. È noto, e unanimemente accolto dagli storici, quanto l’andamento della guerra abbia procurato un progressivo distacco di fasce sempre più ampie della popolazione dalla pretesa imperiale e di dominio imperialista del regime; uno iato accompagnato da una sempre più evidente e compatta insofferenza a pratiche plateali di coinvolgimento e irreggimentazione. Su tutto ciò gravavano anche, se non addirittura in posizione predominante, ristrettezze e privazioni dovute alla guerra, insieme ai lutti e ai timori connessi ai familiari al fronte.
Se e quanto abbia contato in questo l’azione, pur inevitabilmente marginale e occasionale, delle opposizioni non può interessare ai fini di questo lavoro, viste le premesse in merito all’estraneità del protagonista a certi ambienti e temperie ideali. A ben vedere, siamo indotti a ritenere che sull’adolescente Alberto non abbia inciso nessuno degli altri elementi sommariamente enunciati sopra: non aveva congiunti al fronte, viveva in famiglia una situazione di sostanziale tranquillità economica, pur nella semplicità dei costumi e dello stile di vita, certamente ed unicamente consentita grazie al lavoro del padre in varie parti d’Italia e di nuovo all’estero, dopo il rientro dall’Africa nel 1940. Si tenga infine conto che la realtà socioeconomica di Perugia e delle sue campagne più vicine non aveva ancora, fra il 1940-1943, subìto i peggiori contraccolpi della guerra, al netto dei disagi materiali comuni all’intera popolazione italiana. O meglio, a ben vedere, possiamo dire