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Welschtiroler: Una famiglia trentina nella Grande Guerra
Welschtiroler: Una famiglia trentina nella Grande Guerra
Welschtiroler: Una famiglia trentina nella Grande Guerra
E-book353 pagine5 ore

Welschtiroler: Una famiglia trentina nella Grande Guerra

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Info su questo ebook

Trentino, 1914. Una famiglia di contadini vive in terra austriaca, nei pressi del confine italiano. L’inizio del conflitto mondiale la costringe alla separazione: il padre è reclutato nell’esercito dell’impero ed è inviato sul fronte orientale, la madre ed il figlio di sei anni saranno internati nel campo profughi di Braunau, quando l’Italia dichiarerà guerra all’Austria. Lontani per lunghi anni, non conoscono la sorte l’uno dell’altra. La storia di un uomo, di una donna, del piccolo Giuseppe che si fa grande, le loro lotte, le loro speranze sono raccontate in una vicenda, nella quale la sopravvivenza è legata anche alla trasformazione delle anime.
Welsch-Tirol (Tirolo Italiano) fu il nome dato al Trentino, ai tempi dell’Impero asburgico, per indicare la zona in cui si parlava la lingua italiana. Fu coniato da Giulio Cesare che chiamava Volcae una tribù della Gallia. Nel tempo, Welschen indicò le popolazioni francesi e italiane, che parlavano lingue neolatine, per distinguerle dai Germani, la cui lingua derivava dal ceppo tedesco.
LinguaItaliano
Data di uscita21 set 2020
ISBN9788866603641
Welschtiroler: Una famiglia trentina nella Grande Guerra

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    Anteprima del libro

    Welschtiroler - Ivana Tomasetti

    114)

    INTRODUZIONE

    Questo scritto, nato dall’idea di ritrovare radici, trae spunto dai racconti spezzettati e difficili di mio padre, profugo a Braunau da bambino. Non ha la pretesa storica, anche se si basa su fatti realmente accaduti. Si tratta di una narrazione che risponde ad una sola domanda. Quali i sentimenti, i pensieri, le sofferenze dell’anima che sono passati nei corpi e nelle menti di queste migliaia di uomini e di donne, che hanno vissuto la loro guerra, oggi dimenticata? La storicità diventa così la base per l’immaginazione e non me ne vogliano gli storici veri, anche quelli che hanno scritto i libri che ho consultato. Questa desidera essere un’analisi che va in fondo alle anime. L’aridità dei fatti non deve nascondere i vissuti personali, che attraggono il mio interesse e la mia inquietudine. Pertanto, nel dovuto rispetto, i personaggi sono stati rimbalzati dalla realtà dentro la mia penna e sono diventati sentimenti e sofferenza come io li ho immaginati. Ne sono usciti trasformati e dunque, per non offendere la sensibilità di chi li conosce, sono stati modificati i loro nomi e naturalmente anche i loro vissuti.

    PRIMO CAPITOLO

    Le baracche di Braunau erano scure macchie di eternità. Basse, col tetto appena spiovente, assi piatte di legno, larghe e pesanti. Piallate grossolanamente, facevano emergere schegge che ferivano la pelle e pungevano i pensieri. Erano accostate alla grossa, con qualche fessura. Lungo le pareti si potevano trovare buchi dai quali spiare se non erano troppo alti. Dall’esterno si vedeva poco o niente: un’oscurità da dimenticare, ma da dentro scorgevi il fuori grigio dello scorrere del tempo, da un angolo all’altro del campo di visuale, lo spiffero freddo che ti colpiva la pupilla e il cuore.

    Lui non aveva mai visto case così lunghe. Assomigliavano alla segheria veneziana dei Mein col ruscello che passava di lato e i pini tutto intorno, oppure alla malga Cornetto, dove la stalla era una costruzione bassa con finestrelle allineate, ma era un’unica baracca. Qui le case erano ancora più lunghe, una in fila all’altra, in un ordine perfetto tutto tedesco; coprivano un’enorme spianata, si aprivano su corridoi diritti di strade fangose, che facevano il paesaggio pieno di nulla, vuoto e uguale. Si poteva perdersi e non volere più ritrovarsi. A San Sebastiano le spianate non esistevano. E se c’erano, erano piccole e piene di dossi, sempre in pendio, ricche di erba di un verde sfolgorante, dove il vento correva e che la pioggia faceva crescere e brillare. Quando era alta nessuno la doveva calpestare. Questo lui l’aveva imparato presto. L’erba piegata non si poteva tagliare con la lama, era inutilizzabile. Se era stata strappata diventava gialla e secca. Quella buona serviva per far mangiare le mucche o le capre. Doveva diventare fieno per l’inverno. Si andava fino agli alpeggi per segare l’erba e portarla alla stalla, a mano, nel linzol, oppure nella gerla a spalla o col broz, il carretto a due ruote. Se volevi camminare, dovevi farlo ai limiti del prato, rispettando i sentieri stretti che si creavano tra le colture: il fieno, l’orzo, le patate. Chi non possedeva la terra, se ne partiva con le greggi prima dell’inverno e stava lontano viaggiando fino alla pianura, dove dicevano che l’erba fosse verde anche d’inverno. I pastori tornavano per la primavera, un po’ cambiati, un po’ cresciuti. Lui ne aveva sentito i racconti, ma se avesse dovuto scegliere sarebbe rimasto tra il verde del suo altopiano, come infatti era avvenuto, dove i contadini da soli in mezzo al pendio, tagliavano i prati con la falce in un movimento ritmico, sempre uguale sempre diverso, un po’ più alto, un po’ più basso, un po’ debole, un po’ forte. Si fermavano a togliere la pietra cote bagnata d’acqua dal corno che portavano legato alla cintura e affilavano la lunga e pericolosa lama prima di riprendere un movimento lontano secoli. La montagna invadeva il paese, il gruppo della Vigolana all’orizzonte diceva in quale stagione stava scorrendo il tempo e il torrente Astico scavalcava i sassi con l’acqua sempre gelida, che non finiva mai di scorrere. Potevi accostarti e accucciarti con attenzione sui sassi; sotto i tronchi dritti di cortecce irregolari, con le mani a coppa, sorseggiare il limpido che gorgogliando veniva freddo di lontano, ascoltando i suoni del vento tra le cime degli abeti, respirando il profumo della resina. Che poteva esserci di più bello? Ogni fruscio lui lo conosceva, qualche ramo spaccato, il cinguettio degli uccelli, il balenare di un capriolo. Tutto questo ora era lontano, perso, dentro la nostalgia del ritorno.

    C’era un grosso sasso di arenaria, arrivato forse dall’Inn e rimasto fuori dalla porta della baracca. Si sedeva lì sopra, ogni tanto, con negli occhi i suoi ricordi di bambino. Vedeva intorno il grigio. La terra scura di polvere e fango, il cielo bianco, il sole che occhieggiava tra le nuvole. Fissava lo sguardo. Nessuno faceva caso a lui. Aveva imparato a piangere senza farsi notare. Il viso bagnato, poteva essere pioggia o acqua che aveva bevuto, piangeva senza sussulti. Le lacrime erano come l’onda di un lago senza vento, ferma e piatta, quella del lago di Lavarone. Poi si distraeva, vedendo altri ragazzi che correvano in giro. Qualcuno lo conosceva. Erano di Folgaria come lui, ma più grandi, leggeva nei loro occhi una sorta di lontananza che poteva avere la sfumatura del disprezzo. Loro facevano cose che a lui non erano permesse, però avrebbe potuto impararle. Diventare grande era una speranza, quando si guardava le mani. Ma anche se lo fosse divenuto in fretta, loro sarebbero stati sempre avanti a lui. Vedeva i loro giochi, le corse tra le baracche. Si divertivano. Anche in quel luogo avevano trovato il modo di sopravvivere, di sommare il giorno con il giorno. Lui era tra i piccoli, non proprio piccolissimi, non avrebbe dovuto provare invidia. Alla loro età avrebbe fatto le stesse cose. Ora doveva restare nel raggio di visuale di sua madre. Finché un giorno accadde ciò che avrebbe voluto accadesse e a cui pensava con un certo timore. Un ragazzo gli si avvicinò e si fermò davanti al suo sasso. Lui aveva impiegati minuti a issarsi seduto sulla pietra levigata, l’altro vi si appoggiò dal lato opposto e in un attimo vi fu sopra. Toccava anche in terra con i piedi. Attese. Era un silenzio che prima o poi l’estraneo avrebbe infranto, anche se si davano la schiena. Era scuro di pelle come chi ha preso il sole da quando è nato, i capelli rasati per combattere i pidocchi senza lavarsi. Solo le femmine si potevano permettere lunghi capelli di trecce o code legate. Si domandava in quale lingua avrebbe parlato. Il tedesco dell’impero o l’italiano dell’anima? In quel modo avrebbe capito subito. L’altro si voltò e gli fece un sorriso, mostrando i buchi di denti che dovevano crescere. Non era poi tanto più grande di lui.

    «Come ti chiami?» Sorrise anche lui: aveva parlato in italiano.

    «Mi chiamo Giuseppe.»

    «E io Gino. Sono di Lavarone e tu?»

    «Di San Sebastiano.»

    «Ecco perché non ti ho mai visto. Noi abbiamo fatto una banda, voi essere dei nostri?»

    Giuseppe non era tanto convinto. Si sentì piccolo. Lo guardò in faccia. Le mani di sua madre erano dure e quando colpivano facevano male, ma lui era un maschio, avrebbe potuto dimostrarsi forte e coraggioso. Lasciò da parte i timori e le titubanze. «Davvero? E cosa si fa?»

    «Ci aiutiamo tra noi, facciamo giochi, ma anche dispetti a chi li merita…»

    «E se vi scoprono?»

    «Scappiamo, tendiamo trappole… Non hanno tempo per badare a noi. Se vuoi essere dei nostri devi giurare che non ci tradirai. Subito dopo la distribuzione del pranzo, mentre i grandi sono nelle baracche. Ti aspettiamo.»

    «Ci sarò.»

    Il ragazzo si era già allontanato e lui restò di nuovo a contemplare il cielo e a pensare altrove. Aveva fatto bene? O si era cacciato in un guaio? Si rinfrancò pensando che non aveva fatto ancora niente. Poteva sempre non andare. Il pranzo veniva portato dalla baracca numero otto adibita a cucina. Le donne, tra cui sua madre, trascinavano i carretti, ma se c’era fango portavano a mano i pentoloni. Quando arrivavano la zuppa era quasi fredda. Nessuno, però si doveva lamentare. L’impero aveva voluto così per salvarli dalla guerra. Il paese era sul fronte. Dunque, si doveva essere riconoscenti. Lettere, parole, discorsi, erano sottoposti alla censura. Lamentarsi non era un diritto. Si potevano piangere lacrime calme come l’acqua del lago di Lavarone, senza guardare in faccia nessuno. Restare, mangiare, obbedire.

    Tutto era iniziato qualche mese prima, nell’estate del 1914. I messaggeri di Francesco Giuseppe avevano affisso l’editto imperiale in tedesco e in italiano nella piazza, avevano consegnato lettere: la mobilitazione di tutti gli uomini dai ventuno ai quarantadue anni era iniziata. L’impero era in guerra. Lo sapevano tutti che l’erede al trono era stato ucciso a Sarajevo con sua moglie, ma quella era una scusa come un’altra. Il grande impero sentiva franare la terra sotto i piedi e tentava di trovare un’impossibile soluzione. La guerra. L’aria era già satura di decisioni non ancora prese, ma inevitabili. A nulla erano valse le preghiere e le processioni di popolo: ad agosto avevano partecipato a quella con la statua di San Floriano, patrono di Lavarone, alle messe piene di preghiere per i soldati, mentre le donne si pulivano di nascosto le lacrime. Era sera quando udirono la banda degli Alpini. Suonava canzoni allegre. La famiglia arrivava dai campi. Avrebbero munto le tre mucche che avevano nella stalla. Si fermarono ed ebbero conferma delle voci che gravavano sopra i tetti. Una grande folla seguiva le autorità, il sindaco, il capitano in divisa. Dietro, i soldati immersi nei canti patriottici, negli inni all’imperatore, all’Austria-Ungheria. Qualcuno gridava: «Evviva la guerra!». La donna rabbrividì. Per quella sera non successe altro. La gente tornò alle case, i soldati nella guarnigione. Qualcuno metteva delle lastre di zinco alle finestre.

    Quando il padre vide la cartolina-precetto, capì senza leggere. Sua moglie lo abbracciò. Gli occhi cominciavano a essere umidi.

    «Mi farete avere notizie?»

    Una lacrima ballonzolava tra le ciglia e la guancia, ma la gente di montagna non amava esternare i suoi sentimenti. Viveva e reprimeva, stringendo i denti, sorridendo se ne fosse stata capace, per non vessare gli altri, coprendoli del proprio dolore.

    «Non preoccuparti, la guerra durerà poco.»

    Lui, con lo sguardo in alto e il collo piegato all’indietro, aveva guardato i suoi genitori senza capire.

    «Riceverai il sussidio, le altre donne ti aiuteranno, vi aiuterete a vicenda finché gli uomini non torneranno e anch’io tornerò presto.»

    La moglie preparò un involto. Lo zaino di tela grezza era pieno, un pezzo di polenta per il viaggio.

    «Non preoccupatevi per noi, cercate di essere prudente. Vi aspettiamo.»

    Lo prese in braccio, era già robusto per i suoi cinque anni. La vita all’aperto lo aveva reso sano e forte. Ricambiò l’abbraccio senza sapere.

    «Dove andate, papà?»

    «Torno presto» ripeté. «L’imperatore mi manda a fare la guerra in un posto lontano, tu cerca di stare bravo durante la mia assenza.»

    Non riuscì a comprendere, accadeva in fretta. Era la fine di agosto, il fieno nei prati. Non ci fu tempo per nulla. La chiamata era per il distretto di Trento. Partirono a frotte per la città e lungo il cammino si incontrarono come se si conoscessero, accomunati dal loro destino di sudtirolesi trentini. Si radunarono nella piazza di Folgaria. Una grande confusione. Venivano gridati comandi, si sentivano canti inneggianti alla guerra, qualche gruppetto seduto sparava sussulti nel gioco della morra. Fu naturale unirsi tra chi viveva uno stesso destino. Camminarono tutta la notte senza parlare, attenti al ritmo del passo, ma vicini, senza solitudine. Dentro di sé, Clemente sentiva la voce del dovere. Poteva sentirne un’altra? Vedeva con gli occhi la figura della moglie, il sorriso di suo figlio. Non doveva lasciarsi andare alla nostalgia. Era appena partito! Sarebbe tornato presto. L’esercito dei Kaiserjäger era ben equipaggiato e disciplinato, avrebbero vinto e sarebbero rientrati ai loro paesi. Ma, qual era il nemico? Porsi delle domande non era il suo costume.

    Vedeva il ritratto del suo «Cecco Beppe» appeso in cucina, l’imperatore vicino a tutti, amato da tutti. Qualcuno diceva che avesse un figlio in ogni valle. Nessuna poteva resistergli ed era simpatico anche per questo. Sapevano che nonostante tutto, amava l’austerità, risparmiava anche sui fogli di carta, come faceva il suo popolo. Si era sposato per amore, alimentando una favola che piaceva. Le cose funzionavano, sotto di lui: i bambini andavano a scuola: in ogni paese la propria, il maestro era un’autorità. Tutti sapevano leggere e scrivere, sommare i numeri e come contrattare nel caso di compravendita. Si mangiava tutti i giorni, tutti avevano una casa, un lavoro. Clemente viveva la sua vita come l’avevano vissuta i suoi padri prima di lui, seguendo il sentiero tracciato. Se avesse cambiato direzione l’avrebbero giudicato un codardo, lui questo lo sapeva e restava nel solco, ma non era solo una questione di dovere, era anche una scelta, i suoi sentimenti non avevano la priorità. Aveva sposato la donna che amava, aveva avuto un figlio sano. Poteva ritenersi fortunato. Era tutto qui. La guerra non la conosceva, ma era fiducioso: il tempo lo avrebbe protetto. Un passo dopo l’altro la notte diventò chiara. Seguì l’onda dei militari che viaggiava verso la caserma. Qualcuno si era fermato lungo la strada, sotto un albero a finire la merenda che la moglie gli aveva messo nello zaino. Qualcuno si abbandonava ad un sonnellino. Man mano che si avvicinava alla città le palpebre diventavano pesanti. Si sedette vicino a un giovane che stava addentando una fetta di polenta con grande gusto. Gli fece un cenno.

    «Folgaria?»

    «Lavarone.» Aveva gli occhi scuri e la pelle altrettanto. Un cappello a tesa larga da contadino che di sicuro gli avrebbero sequestrato. Un paio di scarponi. Clemente chiuse gli occhi, si appoggiò al tronco di un platano che insieme ad altri faceva una linea diritta ai lati di un fosso.

    «Mi riposo solo un momento. È tutta la notte che camminiamo.»

    «Non credo che un’ora in più o in meno crei tanta differenza» fece l’altro. Clemente si meravigliò della sottile vena di disfattismo; lui non le avrebbe dette, forse non ne avrebbe avuto il coraggio, anche se le avesse pensate. Aveva immaginato invece che si sarebbe dovuto presentare al comando in piena forma. Doveva essere abile sotto tutti gli aspetti. Fatto sta che si addormentò e la sua mente si liberò dagli affanni del pensiero.

    Quando si svegliò si pentì di aver dormito tanto. Era quasi mezzogiorno, ma la sfilata dei valligiani non era ancora terminata. Un via vai di uomini a piedi, ma anche carri sui quali gruppi di giovani gridavano entusiasti di essere inviati chissà dove a fare chissà cosa. La guerra la immaginavano come gli sarebbe piaciuta. Trovò la caserma e si mise in fila. Nudi, sotto una doccia precaria, ma anche con un pezzo di sapone. L’imperatore pensava ai suoi soldati, curava il suo popolo. Gli tolsero i vestiti e fecero la fila davanti al medico, che indossava un camice che forse un tempo era stato bianco. Li guardava e auscultava qualcuno con lo stetoscopio. Erano tutti velocemente abili. Passarono in un’altra sala dove ebbero le divise e finalmente ognuno scelse la sua branda, si rivestirono, erano soldati, ora, trasformati. Aveva quasi fame, ma la cena era ancora nei pensieri. Non avevano ricevuto le armi, la guerra non era imminente, sembrava solo una gita lontani dalla famiglia, sarebbero ritornati presto. Grande lavoro lo ebbe a sistemare le fasce mollettiere sulle gambe, provò e riprovò finché gli parve che avrebbero tenuto e sarebbero state ferme. Sistemò anche le pezze per i piedi, ma non fu contento degli scarponi. Così duri e quasi stretti.

    «Ho sbagliato la misura. Si potranno cambiare?»

    Il suo vicino lo guardò con commiserazione.

    «Cominciamo bene! Vai al magazzino, in fondo alla strada, ma fai presto, potrebbero chiamarci.»

    Per fare in fretta tenne gli scarponi in mano. Erano pesanti. Fece di corsa la strada. La porta era aperta. Evidentemente altri avevano avuto il suo stesso problema. Dovette aspettare. Gli vide le scarpe in mano e gli chiese solo: «Che numero?».

    «Quarantaquattro.»

    Sparì dietro uno scaffale. «Fattele andar bene, al momento non c’è altro.»

    Gli rese le sue e le calzò subito. Il piede fu contento. Ritornò che gli altri si stavano preparando.

    «All’addestramento!» Ritrovò chi gli aveva dato il consiglio giusto.

    «Grazie, sono riuscito a farmeli cambiare.»

    Diede uno sguardo verso terra. Due scarponacci grossi erano ai suoi piedi. L’altro gli fece un sorriso.

    «Mi chiamo Aldo.»

    «E io Clemente.»

    Ma che importava? Bastava lo sguardo. Per il resto erano tutti uguali. Truppa, macchie grigio-cenere. Gli diedero l’equipaggiamento: uno zaino di cuoio, un fucile con baionetta che avrebbero dovuto imparare a usare, un bauletto di legno che poteva contenere le cose personali, una gavetta. Avevano anche una borraccia di ferro e un tascapane di tela. Prima della battaglia l’elmo avrebbe sostituito il berretto da campo fatto di panno rigido con la fascia abbassabile sulle orecchie in caso di freddo.

    Clemente non ne aveva mai visti, a Folgaria si usavano copricapi di lana fatti dalle donne ai ferri e quelli visti in testa ai soldati non li aveva mai osservati da vicino. Gli parve una buona idea. Quel che sembrava in un modo, poteva diventare in un altro. Era un po’ come dire che non bisogna credere sempre alle apparenze, ci può essere invece qualche sorpresa a cui uno non aveva pensato o della quale non si era accorto. Si abituò non solo a guardare, ma anche a osservare, a trarre conclusioni su quello che vedeva. Era un modo per stare in allerta, lo stava imparando da un semplice cappello. Conoscere quello a cui gli altri non pensavano e che si sarebbero trovati davanti senza preavviso. Lui doveva essere pronto e vigile.

    La marcia cominciò che il sole non era ancora sorto. Gli sembrò che fosse stato nel cuore della notte che li avevano fatti alzare, come se fosse stato il loro ultimo giorno. Lavarsi, vestirsi e fare la branda. Gli venne dato il fucile. Era un Mannlicher lucido e lungo. Sapeva già come si caricava, a casa maneggiava un vecchio Werndl a retrocarica che gli serviva per la caccia, anche se lo adoperava poche volte. Non aveva passione per le armi come i notabili del paese. Gli serviva solo per mangiare, quando la stagione incominciava. Portare a casa un cervo o un capriolo era un gran lavoro di scuoiatura e taglio delle carni. La vista del sangue lo disturbava, specie se era gratuita. Ma anche quella era vita. Come avrebbe fatto ora in battaglia? Non ci aveva pensato. La guerra non era ancora arrivata. L’arma era elegante e snella. L’otturatore richiedeva solo due movimenti di indietro e avanti. Avrebbe sparato velocemente, forse salvandogli la vita.

    Pian piano riusciva a capire verso cosa fosse diretto, il fine verso il quale lo sospingevano. Gli diedero un pugnale da infilare al cinturone di cuoio e una pistola semiautomatica. Tra le armi e lo zaino il peso si faceva sentire. Ma lo spirito era forte e dunque camminavano sulla strada, già diretti alle colline, al campo di tiro. Si impegnò a mirare il bersaglio con calma e precisione. Ebbe perfino delle lodi. Ma non era il caso che pensasse di servire il suo imperatore tra i tiratori scelti, che erano sempre dei sottoufficiali a cui davano fucili con il cannocchiale. Sarebbe rimasto al suo posto senza velleità. Passarono tutto il giorno a sparare, correre, buttarsi nel fango.

    Nonostante il rancio fosse stato buono ed anche abbondante, a sera ritornò stanco, sognando il letto di casa. Lo aspettava una branda, ma il suo senso dell’onore non gli permise di lamentarsi. Passarono i giorni. Scrisse una lettera a casa. Sperò che arrivasse presto.

    Agosto 1914.

    Carissima Sara,

    io sto bene come spero di voi. Siamo fermi a Trento per i primi giorni di esercitazioni. Non sappiamo ancora dove ci manderanno, tra qualche giorno partiremo per Innsbruck. Spero che il tempo passi in fretta e io possa riabbracciarvi presto. Un bacio al piccolo.

    Tuo marito Clemente.

    All’adunata il capitano teneva in mano un frustino. Li passò in rassegna e li guardò come se avesse voluto perforarli. Dovevano essere impeccabili. Il cuore gli batteva un po’, non avrebbe voluto essere rimproverato. Aveva lucidato gli scarponi, sputandogli sopra più volte e frizionando con spazzola e panno come facevano le donne del paese, spazzolato la divisa e il cappello, oliato e pulito il fucile. Il graduato passò oltre e lui sentì che gli veniva un respiro più forte degli altri, un sollievo, ma si trattenne, non voleva emettere alcun suono, neanche un soffio.

    «Dovete difendere l’impero, essere i soldati ordinati e disciplinati dell’esercito dell’Imperatore!»

    Fotografava le divise, i bottoni, le cinture. A un tratto si fermò.

    «Soldato! Il tuo nome!» era un urlo.

    «Soldato Parteli Giovanni, signore!»

    «Welschtiroler! Più ordine e cura nella divisa! Trenta giri di corsa intorno al campo in assetto e niente rancio, oggi.»

    Giovanni impallidì, forse più per sentirsi disprezzato che per il rancio o per la corsa, anche se correre con trenta chili addosso non era uno scherzo. Abbassò gli occhi per capire e capì. Uno dei suoi scarponi era mancante di un chiodo. La fila regolare che univa la suola alla tomaia segnava uno spazio vuoto. Non si era accorto! Scattò sull’attenti!

    «Jawohl, Herr Kapitän!» copiò i tedeschi nell’atteggiamento e cercò di restare impassibile. Clemente lo ammirò. Chissà se lui sarebbe riuscito a dimostrare lo stesso sangue freddo. Il graduato passò oltre brontolando: «Welschtiroler!».

    La tradotta era lunghissima e paziente, un treno di soldati lanciava fischi penetranti e improvvisi; nuvole di vapore ammorbavano l’aria; aveva due locomotive per poter affrontare la salita del Brennero. La prima era stata addobbata con rami di pino, bandiere. Alla partenza donne pietose offrivano vino delle valli e la banda li aveva salutati alla stazione di Piazza Dante, qualcuno dei suonatori si era unito ai passeggeri suonando la tromba e richiamando curiosi al passaggio del treno; a Gardolo erano già scesi tutti, lasciando i soldati al loro destino. A ogni stazione altre carrozze venivano agganciate e la sosta diventava interminabile. Intorno, donne piangenti senza suono tenevano stretti figli piccoli che volevano aggrapparsi al padre. Gli uomini salutavano tutti, promettevano di tornare presto come se ciò fosse dipeso dalla loro volontà. Sotto il sole i vagoni erano bollenti. L’aria si rinfrescò solo dopo Bolzano. Lui e i trentini smisero di parlare. Entrarono grossi contadini tirolesi dalla lingua sciolta e tedesca a riempire ancor più le panche di legno. Si salutarono e ricominciarono i canti pieni di entusiasmo: Wir sind die Kaiserjäger. Battevano a ritmo lo scarpone chiodato sul pavimento del vagone, creando un frastuono che sconvolgeva i pensieri. Sì, forse era meglio non pensare. Forse cantavano per questo. Si unì al canto anche lui e gli altri lo imitarono. Era meglio non far sapere di essere del sud, non avrebbero creduto che essi potessero essere fedeli all’imperatore. Almeno non subito. Tutti i trentini erano – per loro – degli irredentisti. A Trento gli ufficiali li avevano trattati con superiorità e la lingua italiana era stata dimenticata, la lingua dei sospetti traditori. La neutralità italiana era stata vista con amarezza e crescente preoccupazione; l’alleato non era stato ai patti. Eppure anche loro erano lì, con la volontà di imbracciare il fucile per difendere l’impero.

    Arrivarono a Innsbruck, scesero dal treno: erano soldati pieni di forza e giovinezza e la gente faceva ala al loro passaggio. Il cielo era limpido e prometteva speranze. Restarono solo pochi giorni, accampati nelle caserme, chiamati a esercitarsi al tiro, che doveva avere la mira sicura, rapida e perfetta. Quando la tradotta finalmente ripartì si vociferava la destinazione che veniva sussurrata di bocca in bocca: Galizia. Sempre più lontani da casa e da Folgaria, un puntino sperduto sulla carta d’Europa. Le Alpi passavano davanti al finestrino, città e villaggi si susseguivano, mentre i soldati cercavano di dormire, riposare, non pensare. Clemente vedeva case simili alla sua, chiesette dai tetti spioventi dove sarebbe presto fioccata la neve. Sarebbe nevicato anche a Folgaria, ma c’era tempo, solo il prossimo inverno. Forse per allora sarebbe stato di ritorno. Non vedeva il paesaggio. Vedeva sua moglie e il suo bambino. Era impotente. Li aveva lasciati, non avrebbe potuto aiutarli, avrebbe dovuto combattere, seguire il suo dovere… li vedeva in cucina davanti al piatto della minestra, mangiare soli, in silenzio. Immaginava le faticose corse per portare il fieno alla stalla prima che piovesse. Qualcuno l’avrebbe aiutata? Il suo cuore sanguinava ancora prima di essere ferito. Si addormentò tra gli scossoni. Malamente, nella sottile sofferenza che gli altri non vedono e non sentono. Un clamore improvviso lo destò. Doveva aver dormito un bel po’. La pianura non ricordava più il suo paese. Il treno entrava piano in stazione: Vienna. Una folla festante li accoglieva con canti: Das ist mein altes Wien, who ich geboren bin (Questa è la mia vecchia Vienna dove sono nato), oppure Oh du, mein Österreich. Li conosceva anche lui, ma non riuscì ad aprire bocca. Gli si sarebbe sciolto il nodo che aveva in gola. I soldati si sporsero dai finestrini unendosi ai canti, salutando con le mani. Una donna vestita come una gran dama distribuiva medaglie con l’effigie del Sacro Cuore di Gesù. Clemente la guardò.

    «Come, non sai chi è quella?»

    Tutti sembravano riverirla, aveva servitori che la circondavano. Sembrava un essere venuto da un altro pianeta. Che ci faceva lì?

    «È Zita di Borbone Parma, arciduchessa d’Asburgo!»

    Un’autorità. Ma che ne poteva sapere lei della guerra? Erano tutti entusiasti. La folla restò sulla pensilina finché il treno scomparve, allontanandosi verso est. Il pensiero di ciò che stava accadendo gli strappò un sorriso amaro. Ma cosa avevano da essere tanto contenti? Poi capì. Erano soldati che venivano da lontano, a fare la guerra per loro. La città sfilava davanti al suo sguardo: casette ordinate, giardini; dal ponte sul Danubio si vedevano passare piccoli piroscafi. Alla sera entrarono in Ungheria e lui vide uno splendido tramonto nella pianura. Il sole rosso si distingueva tra i rami neri dei salici. La natura, indifferente, mostrava il suo spettacolo. E la scena si ripeté a Budapest. Era quasi notte. Lo stridio dei freni dentro la stazione non si sentì, sommerso dal solito frastuono e dalle grida. Ragazze dagli occhi felici, con gonne svolazzanti e camicie bianche vennero a distoglierli dal sonno e dall’assopimento. Un’orchestra di gitani trillava note acute di violini e già qualcuno era trascinato nei balli. Il treno si svuotò. I soldati bevvero e mangiarono. Le signore regalarono al battaglione una bandiera con l’immagine di Francesco Giuseppe e della Madonna. Qualcuno si scordò della destinazione del treno, sarebbe rimasto lì volentieri, si sentiva importante. Un fischio e di nuovo tutti si mossero, ripresero i loro posti dentro il carrozzone merci, dove stavano in quaranta. Passò presto la notte. Erano allegri, anche se il paesaggio fuori diventava piatto e monotono sotto il sole. La pianura stepposa della Galizia. Vacche e cavalli pascolavano nella prateria. Nei pressi delle abitazioni anitre e galline correvano a beccare il cibo che una donna spargeva intorno. L’aspetto delle case era cambiato. Erano fatte di legno, i tetti di paglia. Solo le chiesette erano in muratura, piccole, basse, con una cupola minuscola. Gli abitanti si fermavano al passaggio del treno. Sospendevano il lavoro nei campi o nei pressi delle case. Qualcuno salutava, altri restavano silenziosi. Erano di pelle scura con lunghi capelli alle spalle. Clemente non ne aveva mai visti in quella foggia. Qualcuno portava una treccia e un camicione lungo al ginocchio stretto da una cintura.

    Osservava e faceva confronti. Come gli sembrava elegante la sua sposa nel suo abito semplice, a confronto dei donnoni che vedeva sulle porte delle case, con i capelli arruffati e la frangetta sugli occhi, che se portavano un bimbo al collo erano a seno scoperto.

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