Le cinque porte della felicità: Una storia d'amore e di buddismo
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Da giovane, ha trascorso tre lunghi e duri anni in un monastero in Nepal, insieme all’amico fraterno Matteo, per diventare monaco buddista. Matteo ce l’ha fatta, Marcello no. In lui convivono anime diverse, in apparenza inconciliabili, tutte alla ricerca della felicità attraverso l’amore. Sì, ma l’amore ideale esiste?
Marcello parte alla volta di Kathmandu per raggiungere Matteo, cercando al tempo stesso la Castellana, una donna misteriosa che agita la sua vita. Sarà un viaggio ricco di incontri con altre donne, diverse e sorprendenti, Eva, Maria, Adelaide, e soprattutto la venerabile Hong: l’affascinante monaca che lo sfiderà a superare le cinque porte della felicità. Ma lui continua a sentire dal di fuori il richiamo della Castellana…
Riuscirà a conciliare le diverse anime che si agitano in lui? Riuscirà a comprendere che il vero amore a volte si trova lì, sotto i nostri occhi, tanto evidente che non riusciamo a vederlo?
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Anteprima del libro
Le cinque porte della felicità - Pier Luigi Luisi
Capitolo 1
La casa in collina
La macchina correva veloce, ero solo sulla superstrada. Sfilavano i campi brulli e i pini nani. Erano sempre loro, gli stessi pini nani, incuranti, loro, del passar delle stagioni e degli anni. E poi, ecco, il paesaggio familiare della mia gioventù: sulla destra, parallela all’asfalto, la collina gentile ricca di cipressi. E in alto, il casolare: distante, denso ancora di silenzio e di mistero. Sorrisi a me stesso, ricordandomi studente quando correvo verso Pisa, con quella fantasia ingenua che mi si presentava ogni volta che passavo di lì: la fantasia era che io deviassi l’auto verso la strada laterale, salendo su verso il casolare. E lì abitava una castellana bella, anzi bellissima, con abiti leggeri e un cappello bianco per ripararsi dal sole. Un sorriso gentile ma distante, e lei mi avrebbe offerto un caffè come benvenuto, chiedendomi chi fossi. E così sarebbe cominciato il grande Amore, quello con la lettera maiuscola.
Scossi la testa, quasi ridendo. Però, quel giovane di trent’anni prima in fondo mi era simpatico; sempre pieno di idee e sogni romantici, in un intreccio confuso di cose reali e fantasia. Ecco, cosa ne era successo di quel giovane? Ero ancora io? Oppure lui era ora qualcuno di molto diverso? Forse lo avevo tradito? Che ne era successo di tutti quei sogni dentro la mia testa? Ma no, forse no, non lo avevo tradito, solo che la vita mi aveva portato un po’ lontano da lui, verso direzioni inaspettate — che avevano significato anche deviazioni grandi rispetto a quei sogni iniziali. Ecco venirmi alla mente l’immagine di Matteo, il mio amico fraterno di gioventù, con cui avevo fatto il primo viaggio in Nepal, e le prime esperienze di meditazione. Esperienze intense, a seguito delle quali Matteo aveva deciso di diventare monaco buddista. Io lo avevo seguito sulla stessa strada, per quasi tre anni, poi avevo rinunciato. Matteo aveva sofferto molto di questa mia rinuncia, forse ancora di più quando gli scrissi del mio matrimonio — mi scrisse però una lettera che mi toccò profondamente, e rimanemmo legati da amicizia profonda.
Quel matrimonio dopo un breve amore, ed entrambi eravamo giovani, troppo giovani. Venti anni fa e passa. E chissà se avevo fatto bene? Il matrimonio al posto della vita di un monaco buddista. Sentivo ancora dentro di me il fascino intenso di quella vita monastica fatta di poche regole e di grandi, profondi silenzi; ecco, quei corridoi lunghissimi del monastero con l’odore umido dei mattoni. E anche quello strano senso di felicità che avvertivo spesso, camminando. Una felicità strana, fatta di niente, e di cui ogni tanto mi tornava il pungolo, la nostalgia, forse anche un senso di rimorso. Uno dei tradimenti? Anni lontani, veramente un’altra vita, quasi un’altra reincarnazione, come dicevano loro.
Avvertivo ora una grande pesantezza, cercando gentilmente di liberarmi della immagine di Matteo. Ma non era facile: mi aveva scritto da poco, cosa che non aveva mai fatto in così tanti anni — per dirmi che stava morendo di cancro, e che gli sarebbe piaciuto rivedermi prima. Avevo deciso di andare, avevo già la prenotazione aerea. E il viaggio mi sarebbe servito anche per scrivere un articolo sui movimenti politici in Nepal, che la mia rivista mi aveva commissionato.
Ricordavo i nostri lunghi colloqui prima della mia partenza dal monastero. Lui, Matteo, diceva che la mia sarebbe stata una vita piena di affanni, sempre alla ricerca di qualcosa che mi desse l’illusione della felicità, e continuava a ricordarmi l’antico principio buddista della impermanenza — non c’è niente di duraturo, e il volersi attaccare a qualcosa o a qualcuno, come se fosse la soluzione finale, è destinato al fallimento — o meglio, alla riscoperta della vecchia verità che tutto ciò che nasce è destinato a cadere e dissolversi. Velocemente. Io gli davo ragione, ma lo contraddicevo affermando che c’erano modi diversi di vedere e intendere la vita. Lui aveva scelto una via, io un’altra, quella più conforme alla mia natura.
Una folata di vento dal finestrino aperto mi fece cadere il cappello. Erano oramai molti anni che portavo il cappello. Nel chinarmi per riprenderlo, mi accorsi che avevo deviato dalla strada principale, e che avevo portato l’auto su per la stradina laterale. Quella che andava in su, verso il casolare, la stradina che non avevo mai osato fare in tutti quegli anni di gioventù. E ora mi pareva che il cuore mi battesse più forte. Che stupidaggini, mi dissi, ma mi conoscevo abbastanza per sapere che non sarei tornato indietro. Pensavo a lui, quel giovane di prima, e mi chiedevo come mai lui non avesse mai osato farlo. Forse non ci credeva, alla castellana…
Mi accolse un vasto cortile avvolto in un gran silenzio. Guardai il casolare dall’interno della macchina, spensi il motore, senza osare uscire. Le finestre del casolare erano tutte chiuse, no, ce n’era una socchiusa, forse due. Ma il grande portone di legno era chiuso. Non c’era nessuno? Ecco, allora avrei dovuto ritornare indietro. Invece uscii dall’auto.
Mi guardai attorno. Nessuno, silenzio. Poi, vidi che una donna scaturita da dietro l’angolo del casolare si incamminava verso di me. Indossava una specie di tuta da lavoro, aveva i capelli in disordine… no, non era certo la bella castellana.
Ora mi era vicina. Un volto imbrunito dal sole, capelli neri ricciuti, un neo abbastanza vistoso sulla guancia destra, denti bianchissimi. Ma a guardarla bene, non era poi una ragazzina. Quarant’anni?
«Cosa desidera? Cerca qualcuno?»
«Beh, sì… Cercavo la signora… ma…»
«È qui per l’annuncio?»
«Annuncio? No, no…»
«Se cerca la signora, non c’è.»
«E dov’è?»
La donna fece d’improvviso un ampio sorriso che mi stupì. «Chi lo sa? Sa, non lo dice nemmeno a noi, dove se ne va. Io credo che sia andata all’Isola d’Elba.»
«Perché?» mi venne spontaneo di chiedere.
Lei rispose con una risata simpatica: «Per cercare un indirizzo, una cosa molto importante per lei…».
«Cosa vuol dire?»
Mi accorsi che questo era chiedere troppo. Infatti la donna allargò le braccia senza rispondere. Poi chiese: «Aveva un appuntamento con lei?».
«No, non proprio». Poi aggiunsi, chissà perché: «O forse sì, da molti anni».
La donna mi guardò in modo nuovo, e vidi brillare un lampo di divertimento nei suoi occhi. E mi domandai subito se avesse capito. Sembrava intelligente. Mi accorsi ora che aveva un volto molto bello.
«Vuole vedere la casa?»
La domanda mi sorprese. Volevo vedere la casa? «Sì, grazie, se è possibile, se non disturbo…»
«No, non si preoccupi, tranquillo. Io sono Eva, aiuto in casa, a volte faccio anche lavori di ufficio per la signora. Insomma, una specie di segretaria…» Poi mi guardò di nuovo in modo risoluto, e disse: «Venga!».
La seguii. Non lo si vedeva bene con quella tuta da lavoro, ma doveva avere un bel corpo…
«Le mostrerò i due saloni affrescati.» Mi guardò sospettosa, poi però si aprì a un sorriso. «Credo che a lei piaceranno molto…»
La guardai incuriosito. Cosa voleva dire?
«Entri, entri…»
Mi trovai in una grande sala semibuia. Solo un po’ di luce filtrava da una finestra socchiusa che si riverberava sui mattoni rossi del pavimento. Una strana sensazione di freddo. Era una sala spoglia, senza neppure un mobile. In fondo c’era una scala con una balaustrata di legno. C’era luce sui gradini, forse proveniva da una finestra aperta in alto. Cominciai a salire. Lei mi seguì con un passo silenzioso. Come un gatto.
La scala finiva contro una porta di legno scuro.
«Entri. E guardi bene le pareti.»
«Cosa vuol dire? Non capisco.»
«Non c’è molto da capire. Entri e guardi con comodo.»
«E lei non entra?»
«No, non ce n’è bisogno. Troverà tutto da solo. E dopo la prima sala, ne troverà un’altra.»
Stetti un attimo a pensare, indeciso, sorpreso. Poi mi voltai verso di lei. Ma era scomparsa. Entrai, e mi trovai in un’altra grande sala dal pavimento di mattoni rossi. Tre grandi finestre tutte su una parete, con pesanti tende pure rosse. Le tende erano socchiuse, filtrava dalle fessure un po’ di luce. Non c’erano mobili, e mi sorprese il gran silenzio. C’era freddo. Ma la cosa che mi colpì subito furono le figure alle pareti.
Tre delle quattro grandi pareti, quelle senza finestre, erano tappezzate di affreschi, con grandi figure umane a dimensione naturale. I miei occhi furono attratti subito da un pannello centrale, raffigurante una signora vestita di bianco, dal cappello bianco, che dava la mano a un giovane uomo, distinto, anche lui con un cappello bianco, un panama.
Ecco, questa donna doveva essere lei, la Castellana. Mi avvicinai alla parete. Era proprio come io me l’ero immaginata: alta, bella, elegante. Di classe. Un volto gentile ma forte. Guardai le altre immagini affrescate, e capii quel che la giovane donna mi aveva detto: non c’era bisogno di niente, occorreva solo guardare. La signora aveva fatto affrescare gli avvenimenti, gli incontri, i viaggi più belli della sua vita. Le cose belle.
Che idea! Ecco lì la scena di una festa, con una cantante vicino a un pianoforte. Ecco una gondola a Venezia, con due figure giovanili e il gondoliere in piedi. Lei era seduta e io provai un senso di gelosia per il giovane uomo elegante seduto vicino a lei. Sulla destra, una scala che saliva in alto, verso una piazzetta di un paese marinaro. Un cielo stellato con un quarto di luna. Un treno che entrava in stazione. Un ufficio postale. Poi una serie di nuvolette bianche, con dei nomi d’uomo. E ancora la grande prospettiva di uno stradello, che si dipartiva ampio dalla parete stessa e si allontanava, restringendosi. Due figure, un uomo e una donna, che camminavano. Lei — era lei — aveva di nuovo un grande cappello bianco e si intuiva la sua eleganza nell’incedere: era veramente un grande pittore quello che aveva realizzato questo affresco. E si intuiva che lo stradello si perdeva in zone più ombrose, più intime. L’uomo, anche lui, era elegante, flessuoso. Un pungolo di gelosia, davvero? Che stupidaggini. Ma continuavo a fissare quella parete, i miei occhi andavano da una figura all’altra.
Anch’io, in qualche periodo della mia vita, avevo affollato una pagina del mio diario con nomi e scene significative dei miei cinquant’anni. Avevo anche colorato le scene e i nomi con dei pastelli, vergognandomene un po’. Avevo compilato una lista delle donne che mi avevano dato gioia… Poi una lista di nomi, ognuno in una nuvoletta, con i nomi delle persone che avevano segnato una svolta nella mia vita — l’insegnante di matematica, poi Francisco, Branco, il monaco buddista, il monaco benedettino, quattro studenti particolari che chiamavo i miei figli
, poi i quattro gatti della casa Aurelia… La vita intera in una pagina di quaderno, con delle pietre miliari belle e colorate. A pastelli… Ecco, lei, la Castellana, aveva avuto la stessa idea, ma