Il frigorifero del cervello: Il Pci e la televisione da Lascia o raddoppia? alla battaglia contro gli spot
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Info su questo ebook
Una ricostruzione dei contrastati rapporti fra il Partito comunista italiano e la televisione, da cui emergono con efficacia alcuni nodi irrisolti della politica culturale del Pci, che colma un vuoto nella storia dei media in Italia.
L’autore, intrecciando il puntuale richiamo ai programmi della televisione con questioni come la gestazione del «colore», la controversa riforma della Rai, l’esplosione dell’emittenza privata, nonché con fatti apparentemente distanti come il referendum sul divorzio, l’«austerità» o l’«effimero», propone una documentata analisi dell’atteggiamento dei comunisti, evidenziandone, almeno fino agli anni Ottanta, la ricorrente propensione a inseguire al momento sbagliato soluzioni rifiutate al momento giusto.
Il libro è preceduto da un saggio di Enrico Menduni, Pci e televisione tra gestione e politica, che ricostruisce l’intreccio spesso contraddittorio o omissivo fra le effettive condotte del Pci in Parlamento e nella gestione della Rai, e le sue campagne politiche in tema di comunicazione di massa.
In questa nuova edizione l’autore ha inserito un nuovo capitolo conclusivo in cui delinea brevemente i momenti principali della storia del rapporto tra i post-comunisti e il mezzo dopo il 1990 e la fine del Pci, fino a oggi.
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Anteprima del libro
Il frigorifero del cervello - Giandomenico Crapis
Premessa alla nuova edizione
In questa nuova edizione del saggio sul Pci e la televisione che vide la luce nel 2002 con gli Editori Riuniti non ho ritenuto di modificare granch é , né l’impianto iniziale che ritengo ancora, anche a distanza di tanto tempo, valido, né il testo complessivo che rimane, pur ritoccato dal punto di vista lessicale ed in qualche passaggio in maniera più consistente, sostanzialmente quello di allora. Le aggiunte che comunque i lettori troveranno riguardano alcuni snodi che mi è sembrato utile integrare. Penso sia opportuno esplicitarlo in sede di prefazione a questa nuova edizione: una prima integrazione riguarda l’intervento di Pietro Ingrao alla Camera del marzo del 1958, nel precedente testo solo accennato; poi c’è un breve riferimento aggiuntivo alle posizioni culturali di un importante intellettuale e dirigente del Pci negli anni Sessanta e Settanta , Luciano Gruppi, di cui mi è sembrato utile riportare una riflessione sulla cultura di massa del 1966; sempre a quest’ultimo decennio appartiene la parte che riguarda il ruolo della TV nella campagna elettorale del 1968, durante la quale il Pci minacciò uno sciopero del canone di abbonamento, e quella che ricorda l’esperienza innovativa di Terzo canale nata proprio quell’anno; un ulteriore completamento ha visto la parte che riguarda la riforma del ’75 e le nomine della fine di quell’anno nonché la lettera di Berlinguer del dicembre 1976 contro la lottizzazione prima del rinnovo del C d a Rai; infine ho ritenuto di perfezionare il racconto della figura e della formazione culturale di Veltroni, negli anni Ottanta ai vertici del partito nel ruolo di responsabile del settore che si occupava di TV, informazione e media.
In coda a questa edizione in ogni caso il lettore troverà una post-fazione, perché molta acqua è passata sotto i ponti da quando il libro uscì: nel campo dei rapporti tra i post-comunisti e la TV parecchio era già successo lungo gli anni Novanta (il libro si chiude nel 1990), ma molto altro sarebbe accaduto anche dopo il 2002 quando il Frigorifero vide la luce. Provare a disegnare una traccia di lettura dei tre decenni che vanno dalla fine del Pci a oggi, solo una traccia, aiuta a disegnare meglio la parabola storica di quei rapporti. Infine non mi resta che ringraziare l’editore, che questa riproposizione del mio vecchio lavoro auspicava da qualche tempo, anche se finora io avevo colpevolmente lasciato cadere le sue cortesi e affettuose sollecitazioni.
Giandomenico Crapis
Pci e televisione tra gestione e politica
Enrico Menduni
1. Il rapporto fra Partito comunista italiano e televisione, molto travagliato, può sostanzialmente dividersi in tre periodi [1] .
a) Il primo, che va dall’arrivo della TV in Italia (la prima trasmissione pubblica della Rai, com’è noto, va in onda il 3 gennaio 1954) fino alla fine degli anni Sessanta, è caratterizzato da una sostanziale estraneità della cultura e dell’azione politica del partito. La televisione in quanto genere «basso», come la musica leggera, di fatto non viene ammessa nella sua politica culturale, giocata soprattutto come rapporto con i grandi intellettuali tradizionali (letterati, filosofi, pittori); la sua collocazione domestica viene avvertita come evasione dalla sfera pubblica, propria dell’azione politica e dello spettacolo di massa, a partire dal cinema. Come ben documenta il volume di Giandomenico Crapis, mancava in quegli anni alla cultura comunista la piena coscienza «della novità sostanziale rappresentata dal video», del suo «essere al di là di tutto scuola di attualità, illustratrice di contemporaneità». Nessuna iniziativa politica o parlamentare di qualche rilievo viene tentata in tutto questo periodo; quelle poche o pochissime che vengono promosse sono affidate a sigle minori, come la mai consistente Arta (Associazione Radioteleabbonati) e/o alla più solida Arei (Associazione ricreativa e culturale italiana), presidio nei vasti territori della cultura «di massa» e quindi dedita a quei generi «bassi», in cui si faceva rientrare la televisione. Anche il più volte citato «sciopero del canone» non fu mai niente più di una minaccia verbale, peraltro di impossibile attuazione.
I motivi di questa assenza di iniziativa politica, curiosa in un partito curvo su un’opposizione a tutto campo, sono vari: un pregiudizio contro la «sovrastruttura» a vantaggio delle lotte materiali, di classe, economico-sociali nel senso più angusto del termine; l’illusione di poter promuovere una dimensione collettiva e guidata dell’ascolto, subito sconfitta dal carattere domestico e familiare della televisione; la diffidenza verso un apparato tipicamente «americano»; la mancanza di un qualche insediamento tra il personale televisivo accuratamente selezionato; la difficoltà di disporre di qualche base organizzata nell’impalpabile e disperso pubblico televisivo. Naturalmente tutti questi motivi sono altrettanti aspetti o corollari di una rimozione crociana della modernità [2] .
b) Il secondo periodo, se vogliamo indicare due date approssimative, si apre nel 1969 e può considerarsi concluso con il convegno del Psi all’Hotel Parco dei Principi di Roma nel 1978. La televisione ‒ come apparato di Stato ‒ mostra una certa inadeguatezza nel narrare i movimenti sociali in atto nella società italiana e ciò è motivo di una vivace azione propagandistica. La sindacalizzazione fa breccia anche nel personale della radiotelevisione, in Italia come in altri Paesi, portando con sé i temi della «professionalità» (cioè di un margine garantito di autonomia professionale per gli operatori) e della «partecipazione»: degli utenti, delle «forze sociali», delle neo-istituite Regioni. Il funzionario televisivo diventerebbe così l’animatore (o il moderatore) di una complessa e neo-corporativa condivisione dei contenuti.
Contemporaneamente la microelettronica riduce radicalmente le dimensioni, i costi, la complessità delle strumentazioni televisive; l’attività televisiva appare ora tecnicamente ed economicamente accessibile. Nell’Europa dei monopoli radiotelevisivi la TV privata sembra alla portata delle forze economiche interessate alla diffusione di una cultura del largo consumo; altri pensano, in Europa e in America, a un uso alternativo della TV per la «controinformazione». La copertina del libro curato da Roberto Faenza per Feltrinelli, nel 1973, mostra un giovane dai capelli lunghi, con un giubbotto militare e scarpe Clarks ai piedi, che su una spalla regge un fucile e sull’altra il videoregistratore collegato alla telecamera che sta impugnando [3] .
La stessa Rai, con quasi 10 milioni di abbonati alla TV nel 1969, cominciava a stare stretta nella sua natura ibrida, un po’ ente parastatale, un po’ azienda. Al suo interno, alcune forze spingevano decisamente per trasformarla in un’industria (come indicava un efficace rapporto commissionato dalla Rai ai tre «saggi» Gino Martinoli, Salvatore Bruno, Giuseppe De Rita [4] ), altre erano sensibili a una ridistribuzione della rappresentanza e del potere, senza trovare un equilibrio.
A ciò si aggiunge che l’attività radiotelevisiva era stata affidata alla Rai da una convenzione ventennale con lo Stato stipulata nel 1952 [5] (in perfetta continuità con lo Stato fascista, essendo venuta a scadenza la convenzione venticinquennale con l’Eiar del 1927 [6] ), di cui il Parlamento era stato tenuto accuratamente all’oscuro. Avvicinandosi la scadenza della convenzione, fu subito chiaro che nelle molto diverse condizioni politiche e sociali, rispetto al 1952, non sarebbe stato più possibile rinnovarla senza un intenso passaggio parlamentare e, conseguentemente, senza il coinvolgimento delle «forze sociali» e delle «autonomie locali» raggiunte dall’ideologia della «partecipazione».
Nell’aprile del 1969 il Club Turati (una delle principali istituzioni culturali dell’area socialista, e non certo quella più vicina al Pci) organizzò a Roma un convegno dal titolo esplicito: TV e libertà in Italia. Una riforma urgente [7] , a cui parteciparono esponenti delle principali forze politiche e anche Giancarlo Pajetta della segreteria del Pci. Il convegno del Turati aprì la stagione della riforma della Rai; lo stesso ministro delle Poste Crescenzio Mazza dichiarò in maggio alla Camera che non ci sarebbe stato rinnovo della convenzione Stato-Rai senza una legge di riforma [8] .
Si aprì dunque quella che venne efficacemente chiamata «la stagione dei convegni» [9] , in cui quasi tutti i partiti e le «forze sociali», invitate o non invitate, misero a punto le loro idee in incontri pubblici sulla annunciata riforma della radiotelevisione e, nel contempo, manifestarono il loro interessamento a partecipare ai futuri assetti dell’ente. A sinistra il Psi mantenne a lungo una capacità di iniziativa e di innovazione di gran lunga superiore al Pci, che partecipò a questa fase con un certo impaccio, di cui è forse un segnale la condizione di Pajetta al convegno del Turati: contestato da Enzo Forcella e da Adolfo Battaglia per l’«incapacità di controllo» e la «confusione di idee» dell’opposizione, reagì polemicamente, prendendo la parola ben sei volte.
Dopo una lunghissima e statica «bonaccia delle Antille» [10] si apriva una guerra guerreggiata sul fronte televisivo alla quale il Pci era culturalmente e tatticamente impreparato, e diviso al suo interno fra una tendenza al «controllo dal basso sulla televisione», rappresentata particolarmente dall’Arei e dal critico Giovanni Cesareo [11] e un’altra che mirava a spostare dal governo al Parlamento il controllo e la stessa gestione della Rai, anche attraverso l’azione delle Regioni. Quest’ultima linea prevalse a fatica. Solo nel 1973 il Pci riuscì a organizzare un convegno pubblico nazionale sulla televisione, in cui Giancarlo Pajetta, questa volta padrone della scena, polemizzò apertamente nelle conclusioni con le tendenze alternativistiche: «Ma cari amici, cari compagni, il problema non è quello di sognare circuiti alternativi per lasciare agli altri i circuiti del potere. Noi non ci teniamo ad essere degli esclusi. No! Non ci teniamo ad essere degli ‘underground’, no! Noi cerchiamo una cultura che sia una cultura nazionale […]. Non ci accontentiamo di una cultura per poveri, no». Negli atti del convegno un’ampia appendice documentaria doveva socializzare i quadri del partito a una realtà evidentemente estranea. Tra gli allegati, spicca un dettagliato organigramma della Rai, dove accanto a ogni nome è segnata in parentesi l’appartenenza partitica [12] .
Gran parte di questi temi trovarono accoglimento, con faticose mediazioni, nella riforma della Rai del 1975 [13] , frutto di un defatigante accordo tra i partiti della maggioranza di allora, Dc-Psi-Psdi-Pri, e dell’influenza del Pci, capofila di un esteso «movimento riformatore» in cui si riconoscevano Regioni, sindacati, associazioni culturali.
La denominazione di tale accordo, detto «patto della Camilluccia» dal luogo dove i partiti della maggioranza si incontravano (una scuola quadri della Democrazia cristiana) ne sottolineava la natura extraparlamentare. In quella sede non furono decise soltanto le linee della nuova legge, ma anche ‒ cosa che nessuno dei protagonisti ammise ufficialmente ‒ i futuri assetti di potere nella Rai, le proporzioni tra le forze politiche nel consiglio di amministrazione, le spettanze delle varie reti e testate radiofoniche e televisive: un’impronta indelebile che la Rai si sarebbe portata addosso per lungo tempo [14] . Un apposito articolo della legge avrebbe fissato dettagliatamente l’organigramma dell’azienda radiotelevisiva pubblica: caso forse unico in cui la struttura dirigenziale di un ente pubblico veniva regolamentata in una legge nazionale, all’insegna della totale mancanza di fiducia reciproca dei partiti [15] .
Il Pci si astenne sulla riforma della Rai. Nelle condizioni dell’epoca, ciò significava una convinta approvazione mantenendo le mani libere. I rapporti di forza parlamentari erano tali che il potere di interdizione dell’opposizione (abbastanza simile al veto al Consiglio di sicurezza dell’Onu) si esercitava negli Uffici di presidenza della Camera e del Senato; infatti ‒ grazie ai regolamenti parlamentari e alla numerosità e assiduità dei parlamentari dell’opposizione di sinistra ‒ in entrambi i rami del Parlamento il Pci era in grado, almeno dopo le elezioni del 1968, di bloccare ogni iniziativa legislativa non gradita. Era anche possibile lasciar passare una legge, votandole contro e pronunziando anzi vigorose requisitorie in aula: ciò permetteva di portare a casa un risultato, o corpose contropartite, senza mai apparire agli occhi dei propri militanti corresponsabili di quella decisione, e cimentandosi anzi in appassionati ludi oratori.
La «libertà d’antenna» fu schiacciata dalla legge di riforma come una testa di serpente sotto il piede; nonostante il pullulare di emittenti «libere» al mondo politico essa appariva una voce minoritaria, consistente nel mondo imprenditoriale ma priva di uno sbocco politico [16] . La legge confermava il monopolio e anzi, proibendo di fatto la televisione via cavo [17] , eliminava la più pericolosa insidia tecnologica per il monopolio. La sensazione prevalente, all’indomani della riforma, era quella di avere regolato per un lungo periodo la materia, accogliendo in modo ragionevole le istanze che l’avevano determinata. Nel Partito comunista, duramente discriminato dentro la Rai, ricco di competenze cinematografiche ma assai meno di esperienze televisive e di confronti internazionali percorribili, la percezione era simile a quella successiva ad altri consistenti atti legislativi, come la nazionalizzazione dell’industria elettrica: un duro scontro sul terreno parlamentare si era concluso, con un risultato complessivamente buono, ma venato da punti oscuri e ambiguità. Si trattava ora di sorvegliare vigorosamente l’attuazione della legge, un processo più lontano dall’attenzione delle Camere e affidato invece a organi esecutivi, in cui resistenze conservatrici e interessi particolari di vario tipo (avvalendosi eventualmente dei limiti e difetti di cui la legge non era esente) avrebbero cercato di ritardare, distorcere, vanificare gli intenti riformatori.
Appena un anno dopo, invece, la Corte costituzionale con una sua sentenza (n. 202 del 28 luglio 1976) liberalizzava l’etere «in ambito locale». La Corte era ispirata probabilmente da un ideale cattolico e neoguelfo delle «cento città», con il quale nella radio e nella TV locale era visto soprattutto un modo di dar voce alle comunità; operava quindi una sostanziale sottovalutazione della dimensione economica e commerciale della TV e degli impatti economici dell’ingresso dei privati. Tuttavia la sentenza della Corte colpiva al cuore alcuni punti di grande debolezza della riforma. Si trattava in primo luogo dell’idea, totalizzante e ottimistica insieme, che tutte le istanze di rinnovamento e di liberazione espresse nel campo della comunicazione dalla società italiana potessero essere comprese all’interno della Rai, riformandola profondamente.
La decisione della Corte condusse a un rapido incremento dell’emittenza locale, mentre la politica era soprattutto intenta a gestire la riforma della Rai. Da questo momento in poi l’azione del Pci in particolare si avvitò intorno a quello che Crapis definisce «il mito della riforma tradita», rubricandola quale tappa essenziale «di una nuova giurisdizione del pubblico». Nel novembre 1978, nel convegno tenuto dal Psi all’Hotel Parco dei Principi di Roma, nel contesto di un corpo di relazioni e di interventi di valore ineguale, fu avanzata da Giuliano Amato, con l’avallo di Claudio Martelli, una proposta che tendeva, sull’esempio inglese, a realizzare una rete nazionale affidata a vari privati. Il Pci contrastò fortemente la proposta, in cui vide un vulnus alla riforma della Rai e una violazione di accordi già assunti. La legge sulle TV private faceva parte infatti degli accordi del governo di Unità nazionale. «Siamo di fronte a una proposta» dirà il senatore Pietro Valenza intervenendo a nome del Pci «che ha effetti dirompenti verso gli accordi programmatici stabiliti tra i partiti. I comunisti non hanno la minima intenzione di buttare a mare quello che tutto il movimento riformatore, unitariamente, si è conquistato in questi anni con lotte e fatica» [18] . L’indomani un corsivo anonimo sulla prima pagina de «l’Unità» concludeva così: «Martelli […] sappia che la difesa del pluralismo effettivo, cioè della libertà per tutti, anche per chi non possiede catene di giornali e di emittenti, non è per noi materia di possibili baratti. Se il Psi lascia cadere questa bandiera, noi resteremo lì a sostenerla» [19] .
Era una bocciatura senza appello, confermata nei giorni successivi: Giancarlo Pajetta in un editoriale de «l’Unità» denunziò la «pretesa di revocare unilateralmente gli accordi di maggioranza sulla TV» [20] ;
Claudio Petruccioli in un secondo editoriale distinse tra libertà formali e libertà effettive [21] , Elio Quercioli intervenendo alla Camera parlava di «cancellazione di cinquant’anni di pensiero socialista e liberale» [22] . La proposta del Parco dei Principi non fu quindi vista come quel «momento della verità» che rappresentava [23] , ma archiviata come la prima rottura dell’Unità nazionale, e nulla più. All’interno della stessa politica socialista, il pragmatico Craxi non ne tenne conto più di tanto. L’iniziativa di Martelli aveva il merito ai suoi occhi di prendere aspramente le distanze dai comunisti, e di ridurre all’interno del partito il potere del suo recente e scomodo alleato Enrico Manca, imperniato sulla gestione della Rai [24] . Dopo di allora si scelse la via di un rapporto di potere con alcuni gruppi televisivi rispetto ad altri, lasciando al gruppo di Martelli l’opportunità di promuovere qualche iniziativa di facciata [25] .
c) Il terzo periodo inizia dal fallimento di ogni possibilità di intesa a sinistra dopo la sentenza della Corte costituzionale del 1976 e procede, nonostante molte cesure interne, più apparenti che reali, fino alla fine del Pci, nel 1990. Ma forse né il cambio di nome del partito, né la legge Mammì del 1990, che legittima l’emittenza privata, hanno avuto gli effetti della legge del 1993 ‒ approvata in modo plebiscitario dal Parlamento ‒ che, innovando i criteri di nomina del consiglio di amministrazione della Rai e del suo direttore generale, ha rimodulato i rapporti fra politica e Rai in modo duraturo, sebbene la stessa legge si ritenesse transitoria e le procedure di elezione da utilizzarsi per una sola volta [26] .
In questo periodo l’azione del Pci si è articolata su due versanti: la lunga e controversa metabolizzazione dell’emittenza privata (di cui nel testo di Crapis troviamo una esauriente ricostruzione) con la ricerca di una legge che disciplinasse un sistema radiotelevisivo ormai misto, e la gestione della Rai. Un terzo versante, minore, è costituito dal tentativo di avere una propria presenza televisiva, non destinato a una grande fortuna [27] perché fu presto chiaro che le imprese televisive richiedevano un capitale di rischio, o coperture bancarie, che non erano accessibili nemmeno al movimento cooperativo, massima «cassaforte» dell’opposizione di sinistra. Il movimento cooperativo, del resto, guardò sempre con sospetto la televisione privata, temendo possibili emorragie finanziarie, negli stessi anni in cui si gettava con disinvoltura in affari siderurgici che ne avrebbero minacciato seriamente le basi economiche. A occuparsi della televisione privata fu chiamato un settore dell’organizzazione minoritario e subalterno per la propria debolezza economica, quello delle cooperative culturali [28] . Sarebbe forse stato possibile realizzare un accordo alla luce del sole con gruppi economici ed editoriali, ma era difficile farlo in una cultura che aveva respinto la possibilità legislativa di dare a quei gruppi uno sbocco. Rimase così soltanto lo spazio per pour parler di breve respiro, destinati all’insuccesso, e tutta quest’azione risultò opaca.
Ben altra rilevanza ebbero la presenza nell’amministrazione della Rai e il confronto politico e parlamentare sull’emittenza privata e i suoi rapporti con il servizio pubblico, in quello che ormai era una sistema misto. Dal 16 maggio 1975 la Rai ebbe un consiglio di amministrazione riformato, di ben 16 membri, con la presenza di esponenti del Pci: nel primo consiglio furono due, poi ininterrottamente quattro fino al 1993. Nello spirito della riforma il consiglio di amministrazione era un amministratore delegato collettivo, cui era affidata «la gestione della società» (art. 8), mentre il direttore generale ne eseguiva i deliberati. Il Pci dunque ebbe un ruolo di cogestione, che non cessò nemmeno quando nel 1985 furono drasticamente limitati i poteri del consiglio a vantaggio del direttore generale, e che risultò abbastanza impermeabile anche ai rovesci elettorali del partito negli anni Ottanta e al suo ritorno all’opposizione dal 1979. Ne è prova che i rapporti di forza rimasero sempre immutati, secondo quella formula (6 democristiani, 4 comunisti, 3 socialisti, uno a testa a repubblicani, socialdemocratici e liberali) su cui Craxi ironizzava, chiamandola «il numero di telefono 643111». Certo, fu un ruolo subalterno e tacito: il Pci non esprimeva direttori di reti e di testate, ma condirettori e vicedirettori, mentre iniziavano assunzioni significative (Dario Natoli, Sandro Curzi e molti altri), ben prima di quella che Massimo D’Alema chiamerà la «lottizzazione perfetta» del 1987 [29] .
La stessa costituzione materiale che permetteva al Pci di bloccare o lasciar passare leggi in Parlamento senza l’onere di votarle, funzionava anche a suo modo nel consiglio di amministrazione, anche perché i consiglieri comunisti erano sempre in grado di minacciare ritorsioni sul terreno parlamentare su cui la Rai era particolarmente vulnerabile, dovendosi fissare annualmente, da parte della Commissione di vigilanza, il tetto di entrate pubblicitarie che la Rai era tenuta a non superare [30] .
Fu la magistratura a tentare una normazione del sistema misto (forse, un prematuro anticipo dell’azione che avrebbe svolto nel passaggio fra prima e seconda Repubblica). Alla fine del 1984 vari pretori contemporaneamente sequestrarono in alcune regioni gli impianti per la ripetizione (formalmente abusiva) dei programmi Fininvest, ormai organizzati in tre reti. Le trasmissioni furono interrotte, compreso un cartone animato molto amato dai bambini, i Puffi. La Fininvest organizzò una manifestazione a Roma al Teatro Giulio Cesare con la presenza di star televisive. La gente comune si sentì privata di uno spettacolo che avvertiva come gratuito.
Bettino Craxi, presidente del Consiglio, emanò un decreto che, in attesa di una futura normativa, sanava l’abuso commesso dalla Fininvest (l’interconnessione), consentendole di raggiungere ogni regione d’Italia. Il decreto fu bocciato in Parlamento perché all’opposizione comunista si aggiunse la tiepidezza democristiana, che compensava abbondantemente il coperto sostegno missino. Una seconda versione del decreto recava significative differenze. Veniva aggiunta una parte sulla Rai in cui il direttore generale era reintegrato in quasi tutti i poteri persi con la riforma del 1975. Il consiglio di amministrazione per converso perdeva quasi tutti i suoi; la forma della sua designazione si modificava, rendendone possibile l’elezione, molto contrastata. Era infatti avvenuto che Romano Prodi, presidente