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Come un fiore sul quaderno
Come un fiore sul quaderno
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E-book169 pagine2 ore

Come un fiore sul quaderno

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Info su questo ebook

1982. Speranza, dieci anni, l’età del cambiamento. L’incontro/scontro di una bambina – dagli occhi cangianti – con un padre pessimista che la fa sentire sempre “non abbastanza”, in una terra “fuori da tutto”, la Basilicata.
2022. Speranza, cinquant’anni, l’età dei bilanci. La lanterna magica dei ricordi come in una giostra della memoria che va a comporre un nuovo presente sulla riviera Romagnola.
Nel mezzo, Rosa, la sorella “più brava, più buona, più bella... più tutto”. Una sorella mitologica e misteriosa che vive in Svizzera, sul lago di Lugano, e che segnerà la vita di Speranza. Come in una fiaba, in un’alternanza di flashback e uno scambio di lettere scritte a mano, si racconta la quotidianità di una piccola famiglia del Sud in un luogo incantato. Una storia che esplora la faticosa complessità della pre-adolescenza, la sfida per diventare grandi, il volersi bene, l’accettazione di se stessi, il bisogno di tenerezza, il desiderio di sognare, la voglia di riscatto.
Ma laddove ci sono tutti gli ingredienti per la rabbia, Speranza seguirà una sua naturale destinazione alla bontà e saprà costruire, perdonando, una forte identità di donna. Sullo sfondo, il sapore retrò dei favolosi anni Ottanta.
Una narrazione delicata e profonda, con un piglio ironico e un buon ritmo, una scrittura sfaccettata e generosa che setaccia racconti e pensieri, colpisce per la ricerca minuziosa delle sensazioni e per le riflessioni disseminate qua e là lungo la trama, ed è capace di farci affezionare ai personaggi pagina dopo pagina. Un romanzo di formazione, tratto liberamente dall’esperienza dell’autrice, come un cortocircuito emotivo che spiazza nel finale in una sorprendente verità, capace di riscrivere le esistenze e di cambiarle, ma allo stesso tempo porta a fare pace con le bambine che siamo state.
LinguaItaliano
Data di uscita2 dic 2022
ISBN9788861559462
Come un fiore sul quaderno

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    Come un fiore sul quaderno - Isa Grassano

    Isa Grassano

    COME UN FIORE

    SUL QUADERNO

    Romanzo

    I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati.

    commerciale@giraldieditore.it

    info@giraldieditore.it

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    ISBN 978-88-6155-946-2

    Proprietà letteraria riservata

    © Giraldi Editore, 2022

    Immagine di copertina: Alessandra Montanari

    Edizione digitale realizzata da Fotoincisa BiCo

    A mio Padre e alla sua infinita fantasia.

    Alla bambina che ero e alla donna che sono diventata.

    Da una mala spina può nascere una buona rosa.

    (Proverbio lucano)

    E che questa felicità sia durata cento secondi o dieci minuti,

    era così fuori del tempo che somigliò del tutto

    a ciascuna delle altre vere felicità

    come una farfalla in volo somiglia a tutte le altre.

    (Hermann Hesse, La felicità)

    Nei giorni di calura, passeggiavo per i villaggi

    e i boschi di castagni,

    sedevo sulla seggiola pieghevole e, con i colori ad acqua,

    tentavo di preservare qualcosa del fluttuante incanto;

    nelle calde notti invece sedevo fino a tardi

    vicino alle porte ed alle finestre spalancate,

    provando a cantare con le parole la canzone

    di quell’incredibile estate...

    (Hermann Hesse, L’ultima estate di Klingsor)

    Capitolo 1

    «La lettera estratta è la Erre! Un minuto da ora…».

    Lucia con uno scatto felino girò la clessidra di sabbia comprata a Riccione durante una vacanza con i suoi genitori, e di cui andava orgogliosa, e chinò il capo sul foglio, pronta a dare prova della sua abilità a iniziare città, cose, animali, mestieri, nomi, fiori, scritti sempre un po’ alla rinfusa, a seconda di come ci venivano in mente.

    La Erre è facile, pensai tra me e me, mentre anche io mi accingevo a scrivere! Sarebbe stata più difficile la I, che indaco come colore non fa punti – lo scrivono tutti – così imbuto come cose, e anche Imperia come città, troppo lontana dalla mia terra, troppo diversa. E pure la E di Edelweiss, che non ricordavo mai. Una pianta tipica delle Alpi, ma chi l’aveva mai vista? Al Sud, dove vivevo, puoi mai immaginare una stella alpina? La lettera che più mi piaceva era la A di abbecedario, quello sotto il braccio di Pinocchio.

    «Stop, fine del tempo a disposizione», urlò la mia amica del cuore, sicura di avere anche a questo giro la vittoria in mano. Ma stavolta anche io ero stata brava!

    «Allora comincia», mi esortò trionfante Lucia, mentre rigirava una ciocca di capelli attorno a un dito.

    «Città, Roma e tu?».

    «Ragusa».

    «Cose, rasoio».

    «Racchetta».

    «Animali, rospo».

    «Rana».

    Andavamo di pari passo…

    «Mestieri, reporter», dissi con convinzione! Era una delle ultime parole scoperte per caso ed era proprio quello che sognavo di fare da grande… scrivere e raccontare storie.

    Lucia replicò con un più banale ragioniere.

    «Nomi, wow questo è ancora più facile e pure il successivo fiori...», e alzai la voce, con gli occhietti che si riempivano di luce, mentre Lucia mi guardava perplessa.

    «Ho scritto per entrambi rosa… Rosa, come mia sorella!», aggiunsi in una spontanea manifestazione di pura gioia.

    «Ma come tua sorella?».

    Lucia s’interruppe all’improvviso, senza neanche leggere il nome che aveva indicato, con tanto di punto interrogativo che si palesò all’improvviso sul suo viso. Poi quasi a voler cercare una conferma all’ipotesi di aver capito male, insistette:

    «Come una sorella? In che senso? Tu non hai sorelle».

    «Certo che ho una sorella!», replicai stizzita.

    Un botta e risposta senza uguali.

    «E dove sta? Perché non l’ho mai vista? Non hai solo un fratello? Perché non mi hai mai detto di averne una?».

    La sua curiosità era irrefrenabile e le domande a raffica. Per un lasso di tempo che non avrei saputo misurare mi fissò, poi rinforzò:

    «Secondo me, Speranza, ti sei impazzita» e nel chiamarmi per esteso – di solito si limitava a un affettuoso diminutivo creato da lei, Spery – mostrava tutto il suo disappunto.

    Lucia aspettava una risposta ed io non sapevo cosa inventarmi.

    Feci spallucce, provai a prenderla alla larga. Cercai di distrarla parlandole di un nuovo cartone animato visto in televisione. Infilai una parola dietro l’altra costruendo frasi senza un nesso logico, in un’ansia crescente. Tornai sul gioco che stavamo facendo.

    «Che nome hai scritto alla lettera Erre? Che fiore?».

    Insistetti quasi illudendomi che potesse dimenticare quello che era un mio segreto, il più caro e prezioso, e che mi era sfuggito per sbaglio.

    Lucia era irremovibile.

    «Rachele come mia nonna e rododendro come quelli del mio giardino», disse velocemente, «ma voglio sapere tutto su questa Rosa e non me ne vado da casa tua finché non mi racconti qualcosa di più di lei...».

    «Ma...», restai così interdetta da non avere la prontezza di replicare.

    «Niente ma, niente scuse. Chi è questa Rosa e dove sta?».

    A undici anni le amiche sanno essere pesanti e invadenti come a trenta.

    «Zia Speranza, ma che pensi? Dai, cosa hai scritto come animale con la C? Forza, continua a giocare, uffa. Io cane, come quello che vorrei che papà mi regalasse. E tu?».

    Il piccolo Filippo scalpitava da quando gli avevo insegnato questo gioco che facevamo noi da ragazzine e che per lui, abituato a tablet e giochi elettronici, era davvero una novità eccitante.

    «Oh scusa, amore di zia», replicai prontamente. «Scusa la mia disattenzione. Eccomi. Ho scritto colibrì», gli risposi, pur se con i pensieri ancora altrove.

    «Lo sai che il suo cuoricino può avere fino a mille battiti al minuto e che è l’unico uccello al mondo che può librarsi e volare all’indietro?». Mi piaceva, con Filippo, aggiungere sempre delle spiegazioni, talvolta veritiere, spesso fantasiose. Lui era una spugna, assorbiva tutto e aveva smania di apprendere.

    Il sole stava calando e tingeva il cielo di sfumature rosse, gialle, arancioni, come se fosse una mattonella crochet fatta a mano. Sul terrazzo che dava sul mare, sorseggiai un po’ di vino e guardai Filippo con i suoi riccioli neri e ribelli, magro-magro ma forte. Lui, dall’animo sensibile, era il nipote speciale, quel figlio mancato, quel figlio così tanto desiderato. Per me quella proiezione di futuro e insieme di passato. Era pure una mosca bianca perché non impazziva per la tecnologia, dedicandole poco tempo. All’ingresso della scuola spesso se ne stava da solo e in disparte. Persino con il suo compagno di banco parlava poco. Seduto, faceva disegni su disegni, incurante degli altri bambini che lo prendevano in giro, anche se un po’ ci restava male. Preferiva trascorrere il tempo libero dagli impegni scolastici leggendo libri, costruendo castelli di sabbia con tanti torrioni, o facendo con me quelli che erano i miei giochi da bambina e che lui aveva ribattezzato I giochi della zia Spery nel 1982. Dal salto della corda, alla settimana disegnata per terra con i gessetti colorati, dal se fosse fino, appunto, a nomi, cose, città.

    A lui piacevano tutti e per me – quando non ero presa con la gestione del mio ristorante (una elegante, intima struttura della Riviera Romagnola), o quando riuscivo a delegare a un collaboratore – era un tornare con la mente agli anni Ottanta, a quando avevo la sua età. Ai miei dieci anni.

    E a Rosa.

    «Zia ma perché tu ti chiami Speranza? Nessuno della mia scuola si chiama come te, mentre ci sono altri sette Filippo come me».

    Già, Speranza. I latini dicevano nomina sunt omina, un nome un destino. Speranza come la mia bisnonna che – mi raccontavano – era morta pochi giorni prima che io nascessi e da qui il nome, che rappresentava la speranza di una nuova vita, ma anche di una vita migliore di quella vissuta dai miei genitori. Speranza come l’ultima a morire, ma anche l’anello di congiunzione alle altre virtù teologali: fede e carità. Speranza per una fervida devozione di mia madre alla Madonna della Speranza. Lei era una donna di Chiesa e a questa Vergine con il manto azzurro ricoperto di stelle d’oro era molto legata.

    E passai una mano tra i capelli appena lavati come per accarezzare un ricordo.

    Ospitare un’amichetta a casa era una specie di evento. Mia madre non sopportava il disordine ed io, che ero una bambina disordinatissima, in compagnia lo diventavo ancora di più e quindi era meglio che stessi da sola. Almeno questa era la sua conclusione. In effetti, un po’ aveva ragione: la stanza dei giochi dava sempre l’idea che qualcuno fosse entrato all’improvviso e avesse lanciato una bomba a mano, prima di scappare via. Una volta, visto che non capivo con le parole, decise di passare ai fatti gettando tutto fuori dalla finestra. Mentre vedevo le bambole volare, le camicine spiegare le ali come fossero rondini di primavera, i peluche che diventavano uccelli in cerca di orizzonti lontani, sentivo da lontano la sua voce: «Ora va’ in giardino a raccogliere tutto e risistema daccapo».

    È stato allora che ho cominciato ad alimentare la teoria che l’ordine è qualcosa di mentale. Io nel mio caos avevo sempre trovato tutto.

    Ogni tanto – meglio dire a ogni morte di papa, per indicare che era un avvenimento molto ma molto raro – anche mia madre cedeva alle mie pressanti richieste per avere con me Lucia, che puntualmente, quando arrivava, si lamentava con una punta appena percettibile di ironia: «Si sente un forte odore di Vim, mi pizzica il naso. O forse è di Vetril». Le dicevo che era la sua impressione, ma era vero, la casa era così linda e disinfettata tra Vim in polvere, Vetril, varichina e alcol che sembrava una corsia d’ospedale. In bagno gli asciugamani soffici avevano un così intenso profumo di ammorbidente che rimaneva a lungo sul viso dopo averlo asciugato.

    Per ottenere l’approvazione ad avere qualcun’altra per casa dovevo impegnarmi a rispettare un patto voluto dalla mamma, di professione casalinga e che aveva una fissa – si era capito – per le faccende domestiche, e quindi i diversi punti vertevano sulla pulizia e sull’ordine. A Lucia pareva un po’ eccessivo, diceva che la sua di madre non aveva tutte quelle fissazioni (in effetti, quando andavo da lei a giocare, trovavo tutto sparso sul divano e sui letti), ma forse perché la sua lavorava e aveva meno tempo. A me piaceva di più la sua abitazione e, fosse stato per me, avrei accumulato i gatti di polvere, che rotolavano al minimo soffio d’aria, come accumulavo desideri.

    Il contratto, pur non scritto, comportava un impegno non da poco. Prima di tutto bisognava stare attente a non sporcare tende e cuscini. Fondamentale poi muoversi dalla cameretta a qualunque altra stanza usando le pattine, quella specie di ciabattine che servivano a preservare la cera messa sul pavimento tirato a lucido, a catturare il pulviscolo per terra e a proteggere ogni mattonella da graffi involontari con le scarpe. Nell’elenco delle cose da fare, rientrava anche mettere a posto le bambole una volta terminato il gioco e, infine, una merenda salutare a base di frutta e carote crude che pare facessero bene per la vista e non creavano briciole (lei aveva un’avversione per qualsiasi frammento di cibo cadesse in terra). Io che avrei preferito il pane bagnato di acqua e cosparso di zucchero, per me una golosità, o le fette biscottate con la Nutella, finivo per acconsentire purché Lucia stesse qualche ora con me.

    E ora, dopo tutti quei compromessi, non potevo rischiare di perdere la mia compagna di giochi. Le dovevo una risposta.

    Avevamo un anno di differenza – undici anni lei, dieci io –, entrambe nate ad agosto, il mese del solleone, il periodo più caldo dell’estate, ed entrambe con la forza e l’energia delle leonesse come il segno zodiacale. Nonostante lei fosse più grande di me, ci trovavamo nella stessa classe per quelle strane coincidenze di trasferimenti da paese a paese e di ritardi nell’iscrizione. Lucia arrivava da un borgo medievale della Campania, suo padre era un direttore di banca, ed era diventata la mia vicina di casa – in un paese piccolo tutti sono un po’ vicini di casa. Aveva riccioli morbidi e biondo caramelloso come l’ora dorata del tramonto, che amavo più dei miei capelli sottili e lisci, di un castano scuro insignificante, portati sempre pettinati di lato con una molletta. Sembrava Shirley Temple nei film. Prima di iniziare a frequentarci, la vedevo sempre intenta a giocare con la Barbie, seduta sugli scalini di casa. E proprio questa bambola ci aveva unite. Le avevo ceduto la mia Barbie Beach – alla quale avevo rasato la chioma in stile punk e, pentita, non mi piaceva più – in cambio di settemila lire e dell’eterno fidanzato Ken-Ryan Gosling, dimostrando di avere

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