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Più di così si muore
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E-book206 pagine2 ore

Più di così si muore

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Info su questo ebook

Ambientato sull’Appennino emiliano, il romanzo raccoglie un intreccio di storie legate dal filo di una scomparsa. Le storie sono quelle dei componenti di una famiglia di origine bolognese, i Pascali, sullo sfondo di un bellissimo casale ristrutturato che nelle sue pietre e nei suoi prati conserva ancora il mistero delle anime che ci sono passate. La scomparsa è quella di uno dei tre fratelli, Donato, che dopo un’ultima ambigua telefonata dal Sudamerica non dà più notizie di sé. Quando un giorno la moglie in lacrime ne annuncia la morte, per Lieta e Severino inizia un periodo doloroso, di ripensamenti e accuse reciproche, ma anche di riflessione sulla vita di ciascuno e sui loro rapporti reciproci. L’instabilità e la tensione che covavano sotto il piano delle relazioni formalmente affettuose esplodono e richiedono di venirne a patti. Il discorso di “successo” e soddisfazione che ciascuno si è costruito appare in realtà una struttura barcollante che puntella difficoltà reali: nei rapporti interpersonali e nelle personali reazioni a ciò che il mondo pretende da noi.
È anche un racconto delle stranezze e dei paradossi del nostro carattere, con episodi divertenti e personaggi comici e dell’ironia che, com’è proprio della sua natura, sembra sempre fuori posto.
Infine, è il racconto di un mondo naturale silenzioso testimone delle difficoltà umane. Gli animali, i boschi e i monti che non sono addomesticati e sempre ci sfuggono, si rintanano e fanno paura. Ogni tanto li intravediamo, li intra-sentiamo per come sono veramente e non per come ce li fa vedere l’immaginazione romantica. Allora rimane lo stupore e la dolcezza di avere incrociato il miracolo. Ma occorre saperlo vedere.
LinguaItaliano
Data di uscita14 giu 2019
ISBN9788861557932
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    Anteprima del libro

    Più di così si muore - Sabina Macchiavelli

    Sabina Macchiavelli

    Più di così si muore

    I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati.

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    ISBN 978-88-6155-793-2

    Proprietà letteraria riservata

    © Giraldi Editore, 2019

    L’immagine di copertina è a cura di Sara Gasparetto

    Edizione digitale realizzata da Fotoincisa BiCo

    Ogni riferimento a fatti e persone realmente esistenti è puramente casuale o utilizzato dall’autore ai fini della creazione narrativa.

    PRIMA PARTE

    Prologo

    (come sarebbe se si trovassero tutti, o quasi,

    a un dato momento, alle Case dei Gobbi)

    È rimasto tutto così, scottato dal sole d’estate e lucidato dal gelo l’inverno, sul poggio che guarda a nord verso la valle del Lávaro, nel bolognese, e dall’altro lato declina verso il confine provinciale di Modena.

    C’è la casa colonica. A sinistra il fienile, bello, imponente, tutto ristrutturato, un salone delle feste al pianterreno, le camere di sopra. A destra, più in basso rispetto al cortile, un piccolo fabbricato nello stesso stile, forse la rimessa degli attrezzi agricoli.

    Sul retro della casa colonica trovi una grande veranda con montanti in legno scuro, una specie di prefabbricato, che d’inverno si riempie di piante. Oltre ancora, il declivio dolce del colle scende verso Masigno. La terra non è tanta, un ettaro forse. Un giardino attorno al caseggiato, un piccolo frutteto e un orto per il consumo privato.

    Il borghetto nel suo insieme, come ci passi accanto dalla strada, ti colpisce che sembra una fiaba. I delicati intonaci rosa pallido, gli angoli in pietra a vista, i tetti a spiovente in cotto, le ampie finestre chiuse da persiane brunite, gli occhi di bue nel sottotetto, il cortile di ciottoli levigati e intorno aiuole e sbuffi di prato all’inglese, color smeraldo; nel perimetro della cinta le siepi di ligustro, bosso, piracanta, chiare di fiori in primavera, lucide di bacche in autunno. A lato del cancello in ferro battuto i rosai protendono fronde discrete, in primavera bucando la recinzione con colori da lasciarci gli occhi.

    L’ingresso della casa padronale è un portone di noce massiccio sotto trave incassato, di perfetto restauro. Dentro, possiamo immaginarcelo pescando qua e là nei ricordi di quando, quella volta o due, ci siamo stati. Una stanza in particolare ci colpisce. Possiamo vederne i dettagli. Una sala rettangolare a sinistra dell’ingresso che sembra fatta apposta per le cene di famiglia. Due grandi finestre sulla parete di fronte, tavola ovale al centro, caminetto a sinistra, e nell’angolo, poltroncine e lampada a stelo con paralume circolare, modernariato anni Sessanta. C’è una Stube in maiolica color panna, sportelli e maniglie in ghisa. Fra le due finestre puoi vedere l’unico ritratto di antenati, e l’unico quadro antico, della casa (i proprietari non possiedono oggetti di pregio, non saprebbero neanche da che parte incominciare): la famiglia Evans-Sarawskij nel salone del cottage di Powys, Galles, 1885.

    Gli abitanti come doveva essere in un giorno di festa possiamo solo inventarli perché così tutti quanti insieme forse non sono mai stati.

    In piedi a un capotavola, Lieta taglia a fettine sottili l’arista di maiale al forno con olive taggiasche e pomodori di Pachino. Corruga la fronte come se l’operazione le costasse uno sforzo, o la mettesse a disagio. Di fianco a lei siede Donato, suo fratello, le gambe allungate sotto il tavolo, il dorso contro lo schienale, un sorriso noncurante mentre risponde a una qualche battuta. Tiene il braccio destro sulla spalliera della sedia di fianco, dove sta sua moglie, Estebana, giocando con il sughero del Rosso di Montalcino. È venezuelana. Parla poco, per via della lingua, ma nessuno se ne accorge perché il bel viso dai lineamenti marcati e gli occhi grandi e scuri non danno la nostalgia del conversare. Severino, il fratello maggiore, stuzzica con la punta della forchetta una cipollina in agrodolce facendole fare il perimetro del piatto nel suo liquido color caramello. Poi appoggia la forchetta e si passa il tovagliolo sul mento brizzolato. Alza gli occhi verso Geoffrey, il cognato, seduto di fronte, e gli dice qualcosa accennando col capo verso la Stube. Geoffrey finisce la frase che aveva in sospeso, e mentre si alza gli mostra la mano aperta in atteggiamento minaccioso. Fa una risata. Va a mettere legna. Passa dietro la sedia di BJ, sua figlia. Betty Jane ha i capelli lunghi, bruni, ai lati del viso. Guarda Donato, ride e si copre il viso con le mani, uno scatto secco, precipitoso, da bambina.

    Di fianco a lei, la sedia scostata dalla tavola, Manuel ha il Game Boy fra le mani, la testa china e i pollici che tamburellano sui tasti. Appoggia le spalle allo schienale, il resto del busto è come sospeso nell’astratta concentrazione. Il padre Donato gli dice qualcosa con un cenno della mano e Manuel si tira su senza staccare gli occhi dal piccolo schermo.

    All’altro capotavola siede Adelmo, il nonno. Sbriciola una fetta di pane. Risponde una frase in dialetto a Severino. Si mette in bocca un pezzetto e mastica adagio. Ha poca voglia di parlare.

    Clelia non c’è, è in ospedale da due settimane. I medici la stanno curando. Qualcuno di famiglia ci va tutti i giorni. È fortunata. Magari tra poco torna.

    Clelia va, Marino arriva

    Una crisi respiratoria, forse una bronchite con complicazioni polmonari, occorre un ricovero per verificare l’eventuale rischio di enfisema, un’insufficienza cardiaca. Poi la signora era già così debole, questa febbriciattola… Si rendono necessari alcuni accertamenti.

    Nonno non è contento, Clelia non è contenta, Lieta e Severino non sono contenti ma pensano che vada fatto. Il primario del Sant’Orsola è un gran luminare, conosciuto per il tramite della moglie del collega di Severino che è dirigente dell’Area Qualità e Accreditamento. E poi qui, se succede qualcosa, siamo lontani da tutto, prima che arrivi l’ambulanza uno fa a tempo a morire.

    E quanto ci vuole? Vedremo. Dipende dai risultati delle analisi.

    Ieri sera sono tornati a casa tardi, Adelmo era a letto a mezzanotte e non riusciva a prender sonno, aveva la testa piena di frasi e nel dormiveglia vedeva enormi bocche che articolavano esami e terapie, enormi mani che disegnavano profili deformi nell’aria. La testa scarmigliata di Clelia, con la bocca molle da cui usciva un fiato roco, gli stava accanto, allora allungava la mano sul cuscino e lo trovava vuoto, si ricordava che l’aveva lasciata qualche ora prima esausta sul letto bianco di Cardiologia. Si è alzato una volta a mettere un ciocco nella stufa, la temperatura stanotte è andata a picco; e un’altra volta a bere un bicchiere di rosso dolce: si è seduto al tavolo della cucina vestito col pigiama di flanella a righe e ai piedi le calze di lana sferruzzate dalla Sampira, ha versato dalla brocca ed è rimasto così, una mezzora, bevendo a piccoli sorsi, a guardare le pareti gialle del fumo della stufa.

    È tornato a letto che gli occhi gli bruciavano di stanchezza, li ha asciugati col fazzoletto grigio di tela che tiene sul comodino, e finalmente si è assopito.

    Ma l’abitudine a svegliarsi alle cinque anche stamattina l’ha svegliato alle cinque.

    Le stanze sono gelate. Adelmo abita ancora a Ca’ Rosetta, tre chilometri da Case dei Gobbi, senza infissi isolanti, doppi vetri e porta blindata. C’è la cucina economica. La lancia a tutto fuoco e mette il caffè sulla piastra di ghisa. Il vento infuria, le raffiche sbatacchiano i tralci ancora verdi delle siepi e i rami dei ciliegi davanti casa. Le persiane urtano contro il muro. A intervalli si sente un cigolio lungo e sfibrato da qualche parte là fuori. Adelmo mette il giaccone da lavoro e si affaccia. Vede la porta rugginosa della rimessa, a sinistra, semiaperta, che oscilla nel vento. Bestemmia fra i denti. Si infila gli stivali di gomma, il berretto. Ha iniziato a piovigginare, una pioggia aguzza e gelata che sbatte in faccia e brucia le guance, si attacca ai capelli. Stringendo il giubbotto raggiunge la rimessa. Sente dentro un tramestio. Il tempo di abituare gli occhi al buio dell’interno e compare il bambino in ginocchio con la mano al collare di un piccolo cane segaligno. Il bambino cerca di tenere giù il cane sussurrandogli qualcosa. Il cane si accorge di Adelmo, si muove irrequieto, mugola; il bambino si gira, vede il vecchio, salta in piedi mollando il collare e indietreggia verso il fondo del capanno.

    Mó côsa fêv lé? Chi siete, in gîr a st’åura? E chi el sté can qué? El al tô?

    Il ragazzetto non si muove.

    Avanti, véin in ca. Il cane lascialo lì, lo riprendi quando vai via.

    Aspetta qualche istante. Il bambino si muove piano dal fondo ed esce sull’aia. Si ferma nella folata umida, affonda il collo nel piumino sdrucito, guarda il vecchio ancora fermo di fianco al portone che gli fa un cenno con la testa verso l’ingresso di casa e poi chiude la rimessa. Il cane zampetta e uggiola di dentro. Fa un corto guaito mentre ascolta gli umani allontanarsi.

    Adelmo apre la porta, si sente odore di bruciato.

    Par la madôna fa correndo alla stufa economica. Ma ormai la caffettiera ha schizzato fuori quasi tutto il caffè e gli sputi secchi e neri incrostano intorno la superficie di ghisa. Guarda storto il ragazzino e trattiene un’altra bestemmia.

    Mett’a seder.

    Il ragazzino si accomoda sulla sedia accanto alla finestra e sbircia fuori.

    Stamatéina solo zuppa di pane a colazione. Niente caffè. Te intanto non ne bevi.

    Masticano piano il latte col pane secco.

    Adelmo scruta il bambino e gli pare di ricordare. Dì bån só. Sei mica Marino, il figlio del Ghi… di Stefano della Ca’ Longa? Stava per dire il Ghiro. Lo chiamano così in paese. Da quando ha perso il lavoro non fa che stare a letto; ogni volta che bussi da lui, ti apre dopo un tot, tutto scarmigliato e con gli occhi pesti, e quando parla sembra che biascichi un po’. Forse beve. O forse dorme per dimenticare. La moglie è via tutto il giorno, quindi al ragazzino tiene dietro lui.

    E tó pèderr, duv el? Il vecchio alza lo sguardo. Al dôrum? e fa appena in tempo a trattenere un sorrisetto.

    Marino dice sì con la testa e si asciuga col dorso della mano il brodo di latte dal mento.

    E il cane? El al tô?

    Marino dice no con la testa.

    L’et truvé?

    Sì.

    E perché l’hai portato qui?

    Marino va al ripiano del telefono, prende un foglietto e la matita e torna al tavolo. Scrive adagio, grande, calcando la carta, e porge al vecchio.

    Ma che, sei muto?

    No.

    Adelmo legge: e venuto a casa da due giorni non poso tenerlo perché ci sono le galine può stare qui?

    …Stare qui… Avrà pure un padrone, sembra bello sano… Poi c’è Rino, so mica se è contento. Guarda Marino. Va be’ va’. Finisci il latte, che poi vediamo cosa possiamo fare.

    Intanto Rino, appallottolato nella cuccia fra gli stracci di lana, apre un occhio, vede la pioggia, fa un giro su sé stesso, riaccuccia il vecchio, pesante corpo dal pelo nodoso, sbadiglia. Richiude l’occhio. I guaiti dell’ospite nella rimessa sembrano non inquietarlo troppo.

    BJ, Adelmo e i cani

    Verso le dieci il vecchio sta caricando sull’Apecar la spazzatura, il sacco delle ramaglie, i teli di plastica a brandelli.

    Ha spiovuto. L’aria è ancora fredda arrabbiata e il cielo è attraversato da svarioni di nuvole grigiastre come larghe pennellate su un fondale di debole azzurro che emerge a piccoli squarci.

    Betty Jane arriva e ferma la Panda.

    Oh, ve’ chi c’è dice il nonno, smette di armeggiare sull’Ape e si pulisce le mani contro il giaccone.

    BJ vuole sapere come sta nonna è grave non sa niente perché ieri sera nessuno le ha detto di nonna coi suoi non ci ha parlato tanto non capiscono niente.

    Allontana lo sguardo mentre nonno le chiarisce il perché e il percome, lo fissa da qualche parte lungo l’orizzonte dove il declivio si perde a valle fra i campi e il letto del fiume, e l’ansa della provinciale che scende da Bolle. Gli occhi sono grandi per un attimo nel viso tondo e bruno e poi subito le palpebre si riabbassano dandole un’aria a metà fra l’altero e l’assonnato. Sembra non ascoltare il vecchio e sembra che passi un tempo enorme fra il termine del suo discorso e la replica di BJ.

    Vengo anch’io quando ci vai. Oggi ci vai? Bene, allora.

    Articola nitidamente, con voce posata, come se dovesse spiegare le frasi a una a una nel momento stesso in cui le pronuncia; e ogni tanto sposta dietro l’orecchio le ciocche scure e dritte che le ricadono sugli zigomi da un taglio a caschetto troppo spavaldo.

    C’è qualcosa che infastidisce Adelmo tutte le volte che parla con lei: quasi che BJ non ascoltasse, eppure risponde a tono, lentamente e a tono. O che mal sopportasse il tedio della conversazione.

    Allora nonno, quando BJ tarda a reagire, ha imparato a cambiare argomento.

    "Oh, poi c’è un cane, l’ha portato al fiôl dal Ghérr d’la Ca’ Lónga. Dice che

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